Era il 1994, a Mosca, tempo di grandi cambiamenti e di nuovi sogni, di contrasti e di sopravvivenze che impedivano di dimenticare il vicino passato, ma anche il ripetersi di eventi che affondavano le proprie radici nell’anima di una storia lunga e travagliata che attraversava secoli di ombre e luci, mescolanza di sacro e profano come nell’icona dedicata alla Vergine di Vladimir impressa sulle insegne di battaglia.
Ho ritrovato le pagine di diario scritte in quel primo viaggio nel tormentato mondo della Terra di Russia ed ho sentito l’esigenza di condividere e di ritrovare le emozioni di quei giorni che, pur nella lontananza, continuano a raccontare di tempi nuovi, di speranze e attese e riportano con incredibile rapidità al drammatico compiersi di un “oggi” traboccante di incertezze, di paure, di ignoti disegni.
Rileggo le parole che sento risuonare nel cuore come un invito alla speranza della ragione.
“Loro mangiano sempre all’una”: quel “loro” si riferisce ai familiari di Lev Tlstoj ed è nella sala da pranzo della sua casa-museo di Mosca che l’anziana custode ci accoglie davanti alla tavola perfettamente apparecchiata parlando con voce sommessa, come è giusto fare quando si è ospiti in casa d’’altri. “Lui” – e questa volta il soggetto è proprio Lev Nicolaevic – “è vegetariano, per questo ha una zuppiera a parte, divisa da quella di sua moglie Sophie e dei figli che mangiano la carne”.
Anch’io a voce bassa, adeguandomi all’atmosfera ovattata e quasi mistica, chiedo a Lisa, la nostra preziosa interprete, se è proprio vero che la dolce signora con il collettino di pizzo bianco appoggiato su un abito quanto mai consunto usa il presente per descrivere questi scorci di quotidianità.
Il mio stupore di fronte alla risposta affermativa svanisce ben presto, poiché continuando ad attraversare le stanze della casa di legno di via Tolstoj 21 in cui il grande scrittore russo trascorse quasi tutti gli inverni, dal 1882 al 1901, mi rendo conto che per quella donna non esiste divisione di tempo; lei potrebbe esser lì da quel settembre del 1909 quando Tolstoj ci venne per l’ultima volta, e forse potrebbe anche aver dimenticato che Lev Nicolaevic non c’è più, colpita come tanti da quella splendida sindrome chiamata “mal di Russia” che fa mescolare la memoria delle tradizioni con le attese di un futuro sempre diverso da ciò che il presente ha imposto.
Quando entriamo nel salone dove i più grandi uomini di cultura dell’epoca si intrattenevano ascoltando la lettura delle opere di Tolstoj prima ancora che fossero pubblicate, l’incantesimo è compiuto e non provo alcuna meraviglia ma soltanto commozione udendo la viva voce di Lev Nicolaevic uscire da un vecchio registratore appoggiato sul caminetto; anzi non mi stupirei se vedessi entrare dalla porta sul retro della casa qualcuno di quegli operai che lo scrittore riceveva all’insaputa della moglie che pare non gradisse molto la presenza di questi poveracci nella sua bella casa borghese.
Qui torna alla mente ciò che di Tolstoj scrisse Maksim Gorkij “la sua anima appartiene a tutti in eterno” e forse lo stesso si potrebbe dire di questa tormentatissima Russia e di questa sconcertante metropoli moscovita divenuta oggi una delle città più costose del mondo, che si trova a dover affrontare i problemi di circa 15 milioni di abitanti, spesso di inurbamento recente, dei quali solamente un 15% (in parte appartenenti alle vecchie caste militari, potenti oggi come durante il cosiddetto socialismo) ha i mezzi per godere pienamente della grande quantità di merci e di servizi che l’Occidente ha immesso sul mercato.
Sono lunghe centinaia di metri le file di donne che, all’uscita delle stazioni ferroviarie e del metro, restano in piedi per ore cercando di vendere qualunque cosa possa far guadagnare qualche rublo: dal pane, alle scarpe, alle azioni bancarie, fino ai cuccioli di cani e gatti di razza pregiata. I ricchi moscoviti passano le serate giocando ai moltissimi Casinò; se si vuole bere un drink con gli amici dopo le dieci di sera si va in un costoso ed esclusivo locale messicano (!) chiamato Santafè. Trovare un ristorante dove mangiare specialità della cucina russa è ormai impresa ardua mentre abbondano pizzerie e affollatissimi Mc Donald’s. All’interno dei famosi GUM, grandi magazzini di Stato iniziati a costruire sulla piazza Rossa nel 1890 e ricostruiti nel 1953, vi erano un tempo sistemate duecento piccole bancarelle. Oggi, dopo la recentissima ristrutturazione, i GUM accolgono i lussuosi negozi di Dior, di Cardin e delle grandi firme internazionali. Colonizzazione consumistica? Può darsi, ma almeno tutti possono entrarci liberamente, guardare cose belle, comprarsele se hanno il denaro o permettersi di sognare che un giorno potranno farlo. Mosca è una città di contrasti stridenti, quasi parossistici: questo è innegabile. Ma quando mai non lo è stata? Da un lato del corso Marx sorge il Bolshoj, il grande teatro costruito alla fine del 1824. Sotto il carro del dio Apollo, protettore della poesia, issato sul frontone d’ingresso, sono passati artisti, musicisti, danzatori, spettatori illustri, ma anche i membri del 1° Congresso dei soviet riunitisi qui per proclamare la nascita dell’URSS.
Dall’altra parte della strada sorge l’Hotel Metropol finito di costruire nel 1903 e oggi perfettamente restituito allo splendore dei suoi colori “Liberty” e delle maioliche le cui immagini si ispirano all’opera teatrale del drammaturgo francese Edmomd Rostand intitolata “La principessa lontana”. Il costo di una notte al Metropol è oggi di 500 dollari, ma la lapide sulla facciata continua a ricordare che qui nell’Ottobre 1917 i soldati e gli operai rivoluzionari combatterono contro le guardie bianche asserragliate nell’edificio.
Dunque, i contrasti continuano ad essere stridenti ma soltanto una miope o, peggio ancora, pilotata informazione di regime ha potuto per anni far credere che l’apparente pace sociale giustificasse il grigiore, la mancanza di manutenzione, la disabitudine a considerare le cose come proprio patrimonio comprendendo in questo anche le opere dell’arte e della cultura del passato. Per anni è proseguita” la logica della facciata” da guardare di passaggio senza entrare. Una logica non così diversa da quella che, in epoca staliniana, aveva fatta di Mosca un grande set cinematografico per suscitare meraviglia negli spettatori occasionali.
Certo è vero che nella Mosca 1994 molte tensioni sono esplose e molti freni inibitori si sono spezzati; è vero che ci sono organizzazioni mafiose fortissime e spietate, che c’è la criminalità, che le differenze sociali sono radicalizzate a tal punto che si fatica a vedere l’emergere di una classe intermedia fra estremo lusso ed estrema povertà: 35 dollari il salario di un docente universitario. Ma è anche vero che l’informazione continua ad essere miope e pilotata benchè oggi tali caratteristiche non appartengano solo alla propaganda di regime, ma ai Mass Media che amano le strade a senso unico e si gettano golosamente sui luoghi comuni più lamentosi ed allarmistici. Così si dimenticano di dire che le tante librerie hanno gli scaffali pieni di volumi; che la gente è libera di battezzare i propri figli secondo gli antichi rituali e di celebrare matrimoni nelle splendide chiese riaperte al culto ortodosso. E ancora che la città sta finalmente riprendendo i propri colori, anche quelli delle sue fiabesche architetture.
Nella Mosca di oggi si possono incontrare intellettuali raffinati che stanno ricreando, magari con difficoltà, magari in casa propria, le occasioni per parlare di poeti e letterati un tempo messi al bando. Si possono vedere mostre dedicate ad artisti ostracizzati o cancellati dal panorama culturale. Scrittori, registi teatrali, attori stanno sperimentando nuovi modi di fare teatro, e c’è commozione nel sentirli raccontare le loro “eroiche” esistenze all’insegna delle ristrettezze economiche e spirituali. Nelle vecchie sedi del Partito ci sono colti professionisti appartenenti alla vecchia nobiltà che, con pochi mezzi e ritrovato entusiasmo, ricostruiscono la storia militare dell’antica Russia e fondono soldatini di stagno (veri capolavori d’arte !) dei quali hanno salvato gelosamente gli stampi quando il regime ne vietava la riproduzione.
Allora sembrerebbe più onesto e più saggio domandarsi se la drammatica emergenza della verità non sia più proficua di una quiete imposta e mantenuta spazzando la polvere sotto il tappeto del salotto. E viene da fare un’umile considerazione: per avvicinarsi alla Russia forse più che ad altri luoghi non si può usare il Pullman turistico ma piuttosto camminare tenendo occhi e orecchie aperti non per difendersi dai criminali ma per sentire le voci e vedere i tratti di un mondo che, con disperata forza, sta tentando come tutto il resto della Terra di salvarsi la vita.
Perché l’impressione è che questa Russia che conserva la sua anima asiatica sappia molto meglio degli occidentali che tentano di usarla, quanto la forza delle antiche radici possa resistere e continuare a vivere anche se calpestata repressa, e fraintesa.
Ripongo il quaderno di viaggio là dove tengo gli oggetti più cari ed è commovente pensare come le parole possano aiutarci a non dimenticare, a cercare quella consonanza di spirito e di umanità che resta il solo, vero fine del nostro passaggio sulla Terra.