Egli pose l’oscurità come suo nascondiglio
(Zohar, Il libro dello splendore)
Il 1936 è un anno fatidico per la storia mondiale. Ci sono periodi che contengono in se stessi, come un seme, tutte le potenzialità e virtualità di sviluppo di fatti e scenari che accadranno nei decenni a loro successivi. Il 1936 è uno di questi anni. Un anno “pieno”. Un anno denso di promesse di pace/tregua/progresso, ma pure traboccante minacce di guerre. Per l’Italia fu fatale nelle sue conseguenze a causa della firma dell’accordo dell’“Asse Roma-Berlino”. L’ultimo anno di pace e il primo anno del sostanziale inizio della seconda guerra mondiale nelle sue “prove generali” nella guerra civile spagnola. L’anno della creazione in laboratorio della prima sostanza radioattiva artificiale. L’anno della pubblicazione di The General Theory of Employment, Interest and Money di John Maynard Keynes. L’anno del culmine della potenza nazista, che vince anche simbolicamente nel pugilato con il campione tedesco Max Schmeling, dell’Impero italiano in Etiopia, ma pure l’anno in cui l’America prepara la sua sfida culturale ed egemonica al mondo.
Tempi moderni di Chaplin, il baffetto più famoso al mondo insieme a Hitler, si colloca in questo contesto di fermento e di vitalità quale messaggio di un cambio di paradigma. Di solito si associa il film alla critica tragicomica alla meccanizzazione della produzione industriale, ma questo è solo uno degli aspetti di un film che non è certo luddista o nostalgico, ma, anzi, si rivela proiettato futuristicamente negli scenari che stavano allora emergendo. Qui si sostiene che Tempi moderni presenti uno spessore culturale più profondo e lo si dimostrerà proprio analizzando le curiosità e le stranezze della celebre e simpatica canzoncina che compare nel film dove per la prima volta il pubblico mondiale potè ascoltare la voce di Chaplin. E il suo valore simbolico, linguistico, sperimentale si accentua se si pensa che Chaplin prediligeva il film muto per la sua massima purezza di potenza visiva rispetto al sonoro a cui si piegò di malavoglia. Tutto ciò evidenzia l’importanza di questo momento filmico quale codice e messaggio culturale mondiale. La musica originale, su cui giocherà il grande artista, è una strana canzone frivola del 1917 Je cherche après Titine (conosciuta anche come: Nonsense Song o semplicemente Titine) con tesi di Bertal-Maubon ed Henri Lemonnier e musiche di Leo Daniderff. Autori non certo minori!
“Titina”; nome ambiguo. Nome di donna, vezzeggiativo per l’autovettura in Francia (ma ne abbiamo un esempio anche italiano nel libro comico: Titina F5: diario di una piccola cilindrata, di Carlo Brizzolara, Einaudi 1972), possibile nome per un cagnolina, possibile allusione sexy all’operazione del “titinnare”, ma, in francese, nome che indica anche una “monella maliziosa”, come sarà poi la splendida Paulette Goddard, oppure semplicemente un diminutivo di altri nomi francesi come ad esempio Martine o Christine. Nella sua accezione infantile/sexy questa parola si rivela simile alla parola “rakish” che compare fra quelle cantate nella “versione di Chaplin”. Più che un nome sembra già un codice! Forse sarà un caso ma questo nome è protagonista del romanzo Titine. Histoire d'un viol di Alfred Machard, scrittore e sceneggiatore che più volte indaga i temi della sessualità, della trasgressione, della violenza. Una canzoncina apparentemente minore e superficiale che ebbe invece un notevole successo anche nei decenni successivi e non solo per la musicalità ossessiva, a metà strada fra il “mantra” e il “tormentone” di massa, ma probabilmente anche per la suggestiva evocatività.
Certamente la struttura musicale/testuale aiuta la memorizzazione e in parte ne spiega l’efficacia in quanto si tratta di quattro frasi per ciascuno dei sei movimenti e di cui l’ultima frase svolge una funzione di “chiusura circolare” e il tutto ricorda molto la struttura quadricircolare dei limerick. Una specie di sillogismo musicale, di equazione sonora. La “Titina” di Chaplin appare ancora più potenziata narrativamente con le sue tre rime finali, insistenti, e l’ultima strofa sempre quasi identica. La nostra canzone fu ripresa in tutta Europa e particolare in Francia da vari autori e interpreti fra cui: Jacques Helian (1952), Andrex (1958), Yves Montand (1959), Georgette Plana (1971), mentre Jacques Brel nel 1964 si ispirò ad essa per scrivere la “sua” Titina e, in Italia, fù interpretata in italiano da Rita Pavone e da Gabriella Ferri, artiste diversissime ma accomunate da una loro strana versione “patetica” (in senso etimologico, greco) e melodrammatica della canzone originaria, fino ad arrivare al simpatico rap Modern Times di J-Five cioè di Jonny Kovacs, del 2004, dove nell’efficace video da “anni ruggenti” compare come protagonista visiva l’affascinante Dolores Chaplin. Ma già la Titine di Chaplin era una sorta di rap ante litteram per l’importanza fondamentale del ritmo e della scansione formale. Se andiamo a riflettere sul testo francese della canzone originale le sorprese crescono e con esse la costante ambiguità semantica. La misteriosa protagonista della canzone sembra emergere quale femme fatal le cui matrici archetipali appaiono chiare e costanti: Medusa, Medea/Circe (erano sorelle!), Lilith. La connessione di questa Donna con il serpente, nelle movenze sensuali, e il freddo "diamante" degli occhi da una parte congiunta alla passionalità aerea e volatile dall'altro sono le due polarità che tendono la torbida forza attrattiva dell’imprendibile Donna/Vampiro che troviamo anche nell'opera di Munch, oltre che nelle celebri esemplificazioni che Mario Praz ci regala nella sua memorabile opera La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Sansoni, 1948) fra cui la Salomè di Aubrey Beardsley, la Lucrezia di Bartolomeo Veneto, la Giovane mendica di Edward C.Burne-Jones e la Principessa Belgioioso Belgirate nel ritratto di Henri Lehmann. L'effetto è sempre identico: la possessione mentale; l'"intitinamento" di cui parla della canzone! Non a caso il serpente edenico si presenta in forme femminile nel Giudizio Universale di Michelangelo. “Titine” è angelo e serpente, Musa e “cagna”. La sorprendente associazione che troviamo nel testo francese della canzone non è solo dispregiativa. I cani sono animali simbolici di Ecate, forma infera di Artemide/Iside/Leucotea.
Dove troviamo un'altra simile congiunzione di opposti in un immaginario femminile? Andiamo indietro nei secoli e ci appare l’evocativo e celebre poema gnostico dedicato ad Iside: “Io sono la prima e l’ultima. Io sono l’onorata e la disprezzata. Io sono la prostituta e la santa. Io sono la sposa e la vergine (Codici di Hag Hammadi, VI,2). E’ facile poi notare una connessione formale, testuale, fra il testo della canzone francese originale e la riformulazione rituale di Chaplin. Questa connessione è data dall’immagine del “diamante” che viene citato dalla coprotagonista Paulette Goddard quando scrive sulla manica di Chaplin una sintesi della trama della canzoncina di cui il nostro non ricorda le parole! La sua “monella” parla infatti di un flirt fra un uomo grasso e una donna passeggiando in un viale e accenna ad un diamante che “cattura” gli occhi della seducente donna. La riformulazione della canzone francese originaria quindi è pienamente consapevole e lo iato fra le due non è totale. Prova ne è il senso di un'aura di contaminazione fra saggezza e sensualità che accomuna i due prodotti musicali. La gestualità delle dita e delle mani di Chaplin non sembra casuale ma al contrario, se l'analizziamo al rallentatore e per fermoimmagine, ci comunicano un senso di precisa ritualità. Si tratta di alcuni moduli simbolici che compaiono più volte nella canzone, sono antinaturali, cioè difficilmente possono essere frutto del caso o di movimenti spontanei data la loro intensa e intrinseca intenzionalità, e corrispondono a posture digitali che vengono dalle tradizioni sacre ed iniziatiche più antiche, oltre ad essere presenti nell'arte figurativa italiana ed europea dal '400 al '700.
L’arte cristiana nasce simbolica, codicistica, tecnicamente “esoterica”. Lo dimostrano le pitture catacombali e alcuni antichi mosaici come quello dell’Ospitalità di Abramo di Santa Maria Maggiore (V secolo) nel gesto simbolico del primo personaggio divino da sinistra e nel mosaico del Cristo benedicente di S. Apollinare in Classe (VI secolo). C’è insomma una compresenza fra sopravvivenza simboliche precristiane, riformulate in senso cristiane, e nuove simbolicità create dal Cristianesimo. La canzone di Chaplin inizia ad esempio con il gesto, apparentemente innocuo e spontaneo, delle due mani alzate a mostrare i palmi come per calmare il pubblico che rumoreggia aspettando l'inizio dello spettacolo. Dove le abbiamo già viste queste mani? Nelle mani dell'apostolo Andrea nel Cenacolo di Leonardo e nel gesto della ninfa che alza il velo di Ino nella Villa dei Misteri in Pompei. Quale segno simbolico antico indica un sacro orrore. Il palmo della mano destra ad esempio, preso singolarmente, è segno di adorazione del divino. L'uso che ne fa Chaplin sembra un uso psicoagogico la cui efficacia è dimostrata dal fatto che il pubblico si calma immediatamente. Mentre appena dopo con la sinistra disegna un cerchio attorno al viso, Chaplin tiene la destra al fianco con le tre ultime dita rivolte verso il basso. Una postura antinaturale e che, in tempi recenti, compare all'interno delle convenzioni linguistiche massoniche, e potrebbe assimilarsi alla runa Eohlx indicante il cigno e, quindi, il passaggio iniziatico attraverso la morte.
La prima scena della danza/canzone si conclude con il celebre segno dell'indice e del pollice uniti. Segno ben conosciuto nell'oratoria romana quale indicazione di eccellenza e di perfezione, ma pure presente in senso iniziatico e sacrale. E’ il gesto che troviamo nel rito della raccolta e offerta di fiori a Kore (come nel pinax di Locri Epizefiri, Museo Archeologico di Reggio Calabria) e ancora in certe miniature cortesi come nell’illustrazione del mese di aprile del celebre Les Tres riches heures du Duc de Berry(1410-11). Nell’arte più precisamente cristiana questa postura si trova in più contesti: nel gesto di porgere segni benaugurali o fiori (Annunciazione in Storie della Vergine, cappella di Palazzo Trinci, Foligno, 1424) nel contesto edenico (in una miniatura di un antifonario toscano del XVI secolo) nella rievocazione delle forme antiche (Venere e Cupido di Lorenzo Lotto, Metropolitan, 1530; e Apollo che istruisce Euterpe e Urania, tela di Pompeo Batoni del 1741) e nel San Michele che pesa le anime nel Polittico del Giudizio Universale di Rogier Van der Weyden. Che si tratti di un gesto persistente, ormai a livello quasi inconscio, e veicolante sensi di nobiltà e di ideale distinzione, ne abbiamo conferma già nell’Iconologia di Cesare Ripa dove compare più volte come nell’allegoria della Diligenza la quale brandisce in ugual modo con la mano sinistra un ramo di “amandola con moro gelso”.
Nel secondo movimento Chaplin inizia con il segno dei due pugni con il pollice alzato. Un segno raro ma anch'esso rituale che possiamo accostare al "segno dell'ariete", che presenta però le altre dita distese e unite, quale indicazione di origine sacrificale e teofanica/rivelativa. Ne troviamo un esempio nella pittura sacra nell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti (Siena, Pinacoteca Nazionale 1344) dove Gabriele orienta il pollice del pugno chiuso verso il suo petto. Solo un gesto autoidentificativo? Questo segno ritorna poi nel terzo e nel quarto movimento della danza/canzone. Appena dopo questo passo Chaplin per indicare i baffi porta le mani a squadra al centro degli occhi formando per un attimo in triangolo. Questo movimento non si spiega in senso meramente descrittivo in quanto per mimare isomorficamente i baffi sarebbe bastato un movimento più basso, in piena sovrapposizione ai baffi stessi.
Nella terza strofa abbiamo un segno simile nel pugno destro con pollice alzato posto sotto l'occhio sinistro. Discorsivamente si dovrebbe trattare dell'allusione ammiccante all'anello di diamanti con cui l'Uomo della storiella cerca di attrarre seduttivamente la Donna, ma la postura appare strana e anomala, eccessivamente ricercata, difficoltosa e allusiva per esaurirsi nell'esecuzione di una semplice narrazione buffa di svago. Come pure presenta un "eccesso di precisione" la camminata di profilo, in stile egizio, che il nostro compie in successione. La terza fase della canzone si conclude con un altro gesto antico e simbolico: il gesto delle corna, realizzato alzando pollice, indice e mignolo e tenendo abbassate le altre due dita. Anche qui non si spiega quale gesto casuale in quanto un'indicazione prosaica significante "fare un giro" utilizza più semplicemente il pugno chiuso con il solo indice estroflesso. Tale gesto ha probabilmente anch'esso una fonte sacrale. A scanso di troppo facili dietrologie demonico-occultistiche infatti ricordiamo che la sua origine debba ricercarsi probabilmente in un segno benaugurale connesso con sacrifici propiziatori e la ternari età delle dita nel gesto può riferirsi alla simbologia lunare/demetrica come Graves ha sottolineato in varie occasioni nei suoi studi. Ne troviamo una conferma nell’allegoria della Prosperità della vita nell’Iconologia di Cesare Ripa dove il personaggio femminile regge appunto al cornucopia con la mano con pollice, indice e mignolo alzati. Non a caso sopravvive, anche se appena accennato, nella pittura sacra rinascimentale. Gli esempi sono i più insoliti: dall’accenno presente nella mano destra della Madonna nell’Annunciazione di Leonardo e nella mano sinistra del Cristo morto del Mantegna fino ad esempi più manifesti come nella Madonna in trono con bambino e angeli musicanti di Benedetto Bembo (1450-55), nella Madonna del libro di Botticelli e nel Profeta Ezechia di Berruguete (1482). Persino nelle icone orientali ne abbiano traccia come nell’icona dell’Ordine di Profeti (Mosca, Galleria Tret’jakov) nella mano destra del profeta Giona che presenta indice e mignolo alzati e le altre dita congiunte al centro, in un gesto di probabile variazione della rituale “benedizione greca” che sintetizza il monogramma di Cristo. Il gesto “delle corna” compare poi più esplicito nell’icona di San Nicola taumaturgo del Museo Vologda (1540).
Nel quarto movimento compare quello che volgarmente viene chiamato "gesto del marrano", cioè la mano con il medio e l'anulare congiunti. L'origine della postura è anche in questo caso sacrale e probabilmente sopravvive e viene recuperata grazie al suo possibile senso pitagorico della congiunzione ierogamica fra il 3 e il 4. Un gesto che Gustavo Rol amava e con cui si fece ritrarre fotograficamente. Non a caso il personaggio maschile seduto negli affreschi della Villa dei Misteri di Pompei pone la sua mano sinistra sul capo della donna affranta con questa postura del medio e dell’anulare. Abbiamo altri fulgidi esempi del gesto nell'iconografia della Madonna e della Maddalena, come per la Maddalena penitente del Tiziano e nella Visitazione del Pontormo. Pure nell’iconografia di altri santi ricorre il medio e l’anulare congiunto. Basti pensare alla Santa Caterina nella Madonna con santi di Giovanni Battista Moroni (1550, Brera) nel San Giuliano Ospitaliere di Andrea del Castagno (Firenze, Chiesa della Santissima Anunnziata, 1451) e nel contemplativo Ritratto di frate in veste di S.Tommaso d’Aquino di Girolamo Mazzola Bedoli (Brera, 1543). Che questa postura non sia nulla di malvagio (almeno nelle origini e per molti secoli) lo dimostra anche la sua frequente ricorrenza nell’Iconologia di Cesare Ripa, utile patrimonio di convenzioni linguistiche fra antichità e inizio della modernità. Ricorre infatti nelle allegorie della Benevolenza e Unione matrimoniale, Conservazione, Desiderio verso Iddio, Giustizia, Theologia.
Abbiamo infine un mix fra segno delle corna e segno del pollice congiunto all’indice nel gesto della mano destra attorno allo strumento del suo martirio nel San Bartolomeo di Nicola di Maestro Antonio (La Spezia, Museo Civico) Il quarto movimento appare quello più misterioso con la postura delle due mani sovrapposte all'altezza del plesso solare e con il "girare i pollici" come in un senso di attesa preoccupata Il rapporto fra parole e gesti si fà ancora più enigmatico. Notiamo un ritorno del gesto triangolare fra gli occhi e del gesto del pugno con il pollice "a corna". La novità caratterizzante questo spezzone è data dal celebre "gesto di Arpocrate", emblema di mistero ermetico, qui arricchito dal pollice e dal migliolo alzati, postura che con cui si conclude questo movimento e che ritorna nell'ultimo spezzone della danza/canzone insieme al "gesto del marrano" che, come abbiamo visto, è invece un gesto di sapienza e di unità mistica.
Se poi passiamo ora a spendere qualche riflessione sulle strane parole che connotano la “canzone di Chaplin” abbiamo altre fascinose sorprese. Non si tratta infatti tecnicamente di un vero e proprio grammelot come di solito si afferma, ma di una sperimentazione lessicale e sintattica autonoma. Il grammelot infatti è dato quando sussiste un chiaro intento parodistico/satirico in quanto il suo scopo comunicativo è evocare una determinata cultura/tipologia, di riprodurre il senso di una atmosfera specifica, già storicizzata. Così è stato per tutta la commedia dell’arte e per il teatro di figura. Il melting pot proprio del grammelot, che è il grammelot, si fonda quindi per definizione sulla miscelazione di elementi dati, verificabili, autentici. Le sue deformazioni e modifiche che apporta ai linguaggi originari sono animate da un intento retorico, ludico, per poter raggiungere obbiettivi di efficacia e semplificazione e “dare l’idea” del veneto o del giapponese mutuando certe radici e suoni ma senza coerenza sintattica o grammaticale. Il grammelot è la narrazione popolare di piazza del giullare in una Venezia, Istanbul, Londra, Roma multilinguistica.
Il linguaggio nuovo invece che presenta Chaplin, con il pretesto narrativo dell’urgenza di improvvisare in quanto non si ricorda le parole di una canzone, non appare per nulla improvvisato, non è ancillare ad alcuna cultura determinata, e non vuole evocare alcunchè di preciso né ironizzare su un reale dato, ma sembra manifestare l’istanza di una lingua universale. Il grammelot resta in un “al di qua” rispetto ai linguaggi mentre la Lingua di Chaplin è un operazione metafisica in quanto metalinguistica, è un linguaggio fonico/gestuale fondato su di un'allusività strutturale nella quale si riceve l’impressione di capire, impressione rafforzata da applausi del pubblico del ristorante dove si colloca la scena, mentre in realtà i singoli elementi grammaticali e semantici restano criptici. Viene ribaltato il rapporto fra messaggio e testo, fra traccia e sottotraccia. L’impressione dell’esistenza di una “sottotraccia” semantica, fondamento di ogni allusione, diventa la formula predominante e strutturante la comunicazione. Siamo come di fronte ad un'“allusione dell’allusione”. Ogni parola viene cantata e rafforzata da una mimica ma entrambe non possiedono un contesto di partenza ma cogenerano il contesto reciprocamente. I gesti tendono a sostanziare e focalizzare le parole e le parole tendono a precisare e completare i gesti. Entrambi operano in modo decontestualizzato, acefalo, mirando ad una performatività pura e autosussistente.
Non possiamo infatti liquidare la questione ermeneutica rinviando semplicemente al surrealismo e alla comicità demenziale in quanto la “surrealtà” presuppone la contaminazione con il senso del reale unita alla proiezione di un'uscita dal reale che è anche un’alternativa esistenziale e tutto ciò non risulta emergere nel “mondo” di questa canzone la quale opera in totale coerenza e unità interna e all’interno di un sottilissimo impianto generale di tipo commediale (l’uomo che flirta con la donna) dentro il quale declina un nuovo linguaggio sensoriale/emozionale. Nulla centra quindi con la surrealtà o la demenzialità. Le nuove parole di Chaplin appaiono quale insieme lessicale non dissimili dall’esperimento dell’Esperanto nel loro radunare un lessico deformato/variato/importato da molteplici lingue come il giapponese (satore), l’italiano (bella), il cinese (ciu), l’inglese (poose, rakish, twah), indiano (savita) il polacco/ebraico (zocha), il greco (katonta), il francese (je, notre, bouchon), lo spagnolo (segnora), l’ebraico/veneto (zionta). A proposito di ebraico sembra ravvisarsi in questa sperimentazione il riemergere del pensiero mistico/utopistico della tradizione di Israele da Abulafia fino appunto all’inventore dell’Esperanto. Per chi voglia approfondire questi aspetti imprescindibile è il saggio di Umberto Eco La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (Laterza, 2006).
Abramo Abulafia in pieno medioevo sistematizzò il metodo della permutazione (Temurah) quale via ascetica cabalistica al fine di facilitare l’illuminazione spirituale. Si trattava di “incorporare” la potenza energetica delle parole sul postulato che Dio crea e mantiene in essere con la parola. Deformando e associando le parole fra di loro era possibile anche indurre intuizioni e visioni. L’obiettivo ideale massimo presupposto era dato dall’idea di trovare il Nome di Dio nella sua pura completezza così divinizzandosi per assimilazione e partecipazione. Lo cita pertinentemente Umberto Eco anche nel Pendolo di Focault, romanzo apparentemente ironico in senso illuministico sui simbolismi e sull’esoterismo ma invece serissimo in merito alla Kabala, come dimostra l’articolazione dei capitoli del romanzo secondo i dieci Sephirot. La verità è l'anagramma di un anagramma. Anagrams=ars magna (Eco, Il pendolo di Focault). Il testo di Chaplin ricorda spesso la permutazione, sia nelle variazioni del lessico rispetto alle lingue originali sia ad esempio nella prima strofa nella terna satore/cafore/cavore.
L’ultima strofa di ciascuno dei sei movimenti (e 6 è il numero di Israele) è sempre frutto di una variazione rispetto alla precedente e la quarta frase del primo movimento, Je la tu la tu la twah (sempre che sia corretta questa trasposizione fonetico/grafica) ricorda una permutazione dell’acrostico tradizionale del Nome di Dio: J H W H incrociata con un giocare con la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto di Israele (A e T). E comincia a combinare questo nome e cioè YHWH all'inizio e da solo e a esaminare tutte le sue combinazioni e a farlo muovere e girare come una ruota (Abramo Abulafia, Hayyè ha-Nefes, Ms.Munchen, 408). Il segno del girare e della ruota appare frequentemente nella canzone di Chaplin.
Qualsiasi sia l’interpretazione che possiamo dare a questa sperimentazione resta fermo il suo profetico messaggio culturale che oggi rappresenta ormai un canone strutturale della società: non importano le parole ma è il ritmo, il metodo, la forma, la comunicazione, la riformulazione del contesto che predomina con la sua efficacia retorica e persuasiva. I Tempi moderni vengono inaugurati da Chaplin con la prevalenza del significante sul significato più efficacemente che con la critica all’automazione produttiva. I Tempi moderni sono i Tempi dell’Unità, del Globalismo, di un Sistema olistico che tutto assorbe e riposiziona. Se si unificano i processi produttivi e se il Capitale si concentra allora anche la Lingua deve unificarsi. Ecco l’Ideale utopistico che sembra omogeneo ad un percorso hegeliano di riassorbimento e di sintesi storica.
Ne sarebbe felice l’umanista Comenio che per primo attuò modernamente l’idea di un sapere enciclopedico che fosse un Sistema organico autosussistente e performante e non esplicitamente e intenzionalmente ancillare a valori/sistemi superiori e/o esterni. Cosa c’è di più moderno di un uso creativo e demiurgico di una forma antica? E’ la Modernitas qualcosa d’altro? Non è la sua essenza nella contaminazione estetica e linguistica? Il Sing! Never mind the words della ninfa/sibilla Paulette Goddard a Chaplin anticipa emblematicamente di trent’anni il Detournement di Debord e tutto il pensiero del Situazionismo.
Se bella giu satore
Je notre so cafore
Je notre si cavore
Je la tu la ti la twah
La spinash o la bouchon
Cigaretto Portabello
Si rakish spaghaletto
Ti la tu la ti la twah
Senora pilasina
Voulez-vous le taximeter?
Le zionta su la seata
Tu la tu la tu la wa
Sa montia si n'amora
La sontia so gravora
La zontcha con sora
Je la possa ti la twah
Je notre so lamina
Je notre so cosina
Je le se tro savita
Je la tossa vi la twah
Se motra so la sonta'
Chi vossa l'otra volta
Li zoscha si catonta
Tra la la la la la la'