Da piccola sapevo leggere il labiale anche a grande distanza e con una precisione che sconcertava i miei parenti. Riuscivo a seguire, rimanendo dalla parte opposta della casa, discorsi lunghissimi fatti sottovoce tra mia madre e sua sorella. Era un gioco come scrivere (e leggere) al contrario. Cose abbastanza inutili. Non avrei mai detto che potessero invece diventarlo, una galassia di anni dopo, in un ospedale, eccellenza nazionale per la cura e la ricerca delle malattie infettive.
Marzo 2020 – marzo 2021
Non abbiamo ancora collettivamente elaborato le immagini d’isolamento e decessi che hanno inondato i media quando la pandemia è arrivata a casa nostra. Covid uguale ricovero, uguale isolamento, uguale personale medico vestito da astronauta, uguale lontananza dai propri cari. Qualunque ricovero in ospedale porta con sé il timore atavico di non uscirne vivi e, in seconda istanza, di essere abbandonati. Le immagini pandemiche hanno rafforzato questo “sentire”: una guerra di trincea dove medici e infermieri erano i soldati pronti a morire sul campo e diversi sono morti per salvare altre vite. Da allora sono trascorsi due anni di lavoro incessante di virologi, ricercatori, medici, infermieri e tutto il personale ospedaliero (dai receptionist alle imprese di pulizia e manutenzione) coinvolti in un corpo a corpo per contenere il virus e anche per adeguare le degenze ai nuovi protocolli: isolamento, sanificazione specifica, visite parenti annullate poi reintrodotte su appuntamento. E questo non solo per i reparti Covid. Una rivoluzione. I due anni di “trincea” hanno anche introdotto servizi per alleviare l’isolamento dei pazienti (e dei parenti), perché anche questo è parte della cura. Ricordiamo tutti, per esempio, gli iPad di ordinanza portati dal personale sanitario in giro tra i letti dei malati per parlare con i propri cari da remoto.
4 luglio 2022
Mia madre, 89 anni, e suo marito, 87 anni, si ritrovano contagiati seppure non si muovano mai da casa e siano tri-vaccinati. Non hanno fatto la quarta dose. Sono un campione esemplare di quanto sta accadendo oggi: il contagio arriva per la leggerezza di chi - pensando che tutto sia passato - fa visita ad anziani fragili senza rispettare le precauzioni e l’igiene e, un giorno, due quasi novantenni si ritrovano la saturazione a 82 e il medico di base (al quale mandi una foto coi valori, perché il nostro non va quasi mai al domicilio dei suoi assistiti) esorta a chiamare con urgenza l’ambulanza. Ed eccoli, allora, i miei anziani al pronto soccorso dell’ospedale Sacco di Milano, una vera eccellenza. E nel periodo clou del Covid lo ha dimostrato, anche con il volto del professor Galli, oggi in pensione.
Si resta in attesa di un posto letto in reparto: uno arriva nel giro di poche ore, l’altro la mattina successiva. I medici, puntuali e molto cortesi, mi chiamano per aggiornamenti. Chi ha esperienza di emergenza ospedaliera sa quanto sia complicato per il personale sanitario occuparsi anche dei parenti, perché la priorità è il paziente, salvare vite, decidere con tempestività chi seguire e come. Non è una serie TV con George Clooney, Ellen Pompeo o Cristina Yang. È vero che anche in un pronto soccorso tra i doveri dei doc è incluso quello di informare paziente e parenti, ma non dimentichiamo che quel personale è alle prese con altre emergenze, magari prioritarie rispetto alla nostra, e se trovano il tempo (e la cortesia) per chiamare le famiglie o rispondere quando li cerchi, è esso stesso un biglietto da visita di eccellenza.
Mi chiamano dal pronto soccorso: hanno trovato posto in reparto, padiglione 56 secondo piano. Lo stesso giorno parlo con il marito di mia madre: lui ha il cellulare e lo sa usare, anche se con fatica. Mia madre, invece, non l’ha mai avuto né saputo usare. La penso nell’acquario, circondata da angeli astronauti e lei che – già smemorizzata di suo – confonde sogno, realtà, cerca invano punti di riferimento. Chiamo la caposala. Trovo una persona empatica e molto disponibile. Le spiego che vivo distante, che andrò presto a trovare fisicamente i miei anziani, ma che vorrei riuscire a confortare mia madre facendole sapere che qua fuori io la seguo. Insomma: rassicurarla. E rassicurare me stessa. La caposala dice che se mamma ha un cellulare non ci sono problemi, può aiutarla a usarlo. Le spiego la situazione e promette che, allora, userà il telefono del marito e mi farà parlare con lei. E così accade nel giro di qualche ora. Le sono ancora oggi grata.
I successivi due giorni – un week end – riesco ad avere contatti con il marito di mamma grazie anche a Flippo, vicino di letto di circa 45 anni, che lo aiuta a rispondere alle chiamate. Provo a cercare la caposala gentile, non riesco più a rintracciarla per via dei turni. Chiedo la stessa cortesia ad altri, ma per vari contrattempi non si riesce più a portare il telefono a mia madre e io non me la sento di insistere: loro stanno lavorando, mi dico. Dopo due giorni sarò presente fisicamente e potrò andare a trovarli. E così è. Orario del passo dalle 17.00 alle 19.30. Entro e percorro il lungo corridoio che costeggia le vetrate: da una parte quelle che guardano fuori, dall’altra quelle che affacciano sulle stanze, ognuna con due letti. Arrivo da mia madre che è nel posto più vicino alla vetrata. All’esterno vedo un interfono per comunicare con l’acquario, ma non funziona. Né quello, né gli altri. Intanto stabilisco un contatto visivo con mamma che parla come un pesce: la labiolettura mi viene in soccorso e, misterioso miracolo delle relazioni ancestrali, pure quell’anziana signora che mi ha generato comprende ciò che le dico. Per farlo, io ho tolto la mascherina, mi sono avvicinata al vetro e ho scandito parole accompagnate da gesti. Per fortuna l’89enne ha ancora un’ottima vista.
È in quel momento che mi chiedo: e l’iPad o il cellulare di ordinanza disponibili durante lo tsunami del 2020-2021? Chiedo a medici e infermieri, mi dicono che nel periodo clou c’era un telefono cellulare di reparto che passava tra i pazienti, sanificato ogni volta: era scassato e non è stato sostituito. E aggiungono “è drammatico pure per noi gestire le situazioni così”. Qualcuno dice che gli interfoni non funzionano da anni. Prendo nota e decido che approfondirò in seguito.
Nelle giornate successive parlo con il marito di mia madre via suo smartphone guardandolo dal vetro dell’acquario. Con mia madre, invece, il telefono è senza fili, il nostro labiale: salvo una volta in cui siamo riusciti a farle portare di nuovo il cellulare del marito, gli altri giorni per turni del personale e orari miei, la cosa risultava laboriosa e sempre più simile alla richiesta di un favore e non di una procedura standard. Stessa sorte degli altri visitatori: mi ha colpito un anziano signore ricoverato che per parlare con la moglie e il figlio, scriveva bigliettini a mano mostrandoli al di là del vetro. Non tutti sono dotati per la labio lettura, in effetti.
22 luglio 2022
Mamma e marito tornano a casa. Provati, ma con tutti i parametri a posto. Nel frattempo chiamo il dottor Giuliano Rizzardini, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco per chiedergli aggiornamenti sulle nuove ondate e spiegazioni su interfoni e iPad scomparsi. Mi risponde cortese, sebbene in vacanza, confermando che i miei due anziani rientrano nella casistica attuale: “L’età media dei ricoveri oggi è di 85 anni, età in cui il Covid è qualcosa di accessorio: tampone positivo con comorbidità e quindi, per prudenza, si richiede un ricovero. Qualche anziano, a distanza dalla terza vaccinazione e senza il secondo booster, contrae polmonite da Covid ma la percentuale è risibile e chi ha bisogno di ossigeno con flussi importanti è meno del sei per cento; le polmoniti non sono più gravi, perché il vaccino protegge dalle problematiche polmonari. L’anziano però, - prosegue Rizzardini - non è un paziente di facile gestione per via delle tante esigenze collaterali e le comorbidità, sulle quali in fase di ricovero oggi si concentra l’attenzione: non li lasciamo lì nel letto aspettando che superino il contagio, lavoriamo intorno alle patologie”, come è accaduto al marito di mamma, cardiopatico, che è stato dimesso con una nuova terapia proprio sul fronte cardiovascolare. Rizzardini aggiunge poi che per questo “i tempi di permanenza superano in genere dieci giorni, anche perché molti si negativizzano lentamente, si fa fatica a trovare un appoggio a casa e sul territorio”. E sulla questione comunicazione con i pazienti Rizzardini risponde così: “Noi vediamo priorità diverse da quelle che vedono i visitatori. Siamo entrati e usciti da un’ondata all’altra. Abbiamo aperto ambulatori dedicati alle terapie antivirali che sopperiscono al ricovero. Vediamo in ambulatorio pazienti che dovrebbero essere seguiti in altre condizioni [n.d.r. dai medici di base] e non lo scrive nessuno. Così come nessuno scrive che spesso i parenti lasciano i pazienti in ospedale perché hanno paura di infettarsi o devono andare in vacanza e anche quando sono negativizzati fatichiamo a dimetterli”, il contrario di quanto ho fatto io che ho portato a casa entrambi i miei anziani ancora positivi, ma con i parametri regolari, per toglierli dall’ospedale che anche se eccellente è pur sempre un ospedale.
Sì, ma non è stupefacente che dopo tutto l’impegno profuso si cada su una buccia di banana come interfoni rotti e assenza di iPad e cellulari? Non è la comunicazione tra ricoverati e parenti parte della cura? “Alcuni interfoni sono guasti, altri funzionano, ma non tutti i pazienti li sanno usare e abbiamo sopperito con telefoni cellulari e iPad che abbiamo sempre avuto. Lei si basa su una sua esperienza personale. Bastava chiedere a me o al personale”, risponde il dottor Rizzardini un po’ risentito e aggiunge che questa è “la solita volontà dei giornalisti di trovare il pelo nell’uovo. Noi medici siamo stati eroi i primi due mesi di pandemia e poi trattati come se avessimo sbagliato tutto”.
Chiedo: da chi dipende la manutenzione degli interfoni?: “Dai tecnici, ma anche dall’avere le stanze libere per poterla fare la manutenzione. Bisogna cambiare tutto l’impianto, ma nei due anni non abbiamo mai potuto svuotare le stanze”. E gli iPad o i cellulari? “Non li lasciamo in giro perché si rompono, possono rubarli. Comunque ora che mi ha segnalato il fatto, lo farò presente”. La mancanza di comunicazione con l’esterno in reparti dove i pazienti devono vivere isolati, non è il pelo nell’uovo è, a detta di tutti, un importante elemento di cura. Segnalare questa mancanza nulla toglie all’enorme lavoro svolto ogni giorno in tutti i padiglioni di un ospedale che resta d’eccellenza. Quando questo articolo verrà pubblicato, sarebbe bello che nessun altro debba trovare questo pelo nell’uovo. E che la labio lettura fosse solo un gioco per passare il tempo.