Nella vita capita di ripensare a volte a cose che hanno vissuto la loro parabola esistenziale e poi, riposte in qualche cassetto della memoria si sono spente come non fossero mai esistite finché, appunto, un pensiero peregrino o un’idea di retroguardia casualmente le ripesca, ricostruendo a poco a poco, come se una scultura di sabbia che ha visto disperdersi al vento tutti i suoi granelli potesse miracolosamente ricostituirli uno a uno riprendendo forma, acquisendo poco alla volta, inaspettatamente, una consistenza importante, una nuova concretezza. Questa nuova vita riesumata dalla memoria a volte però è sghemba, un po’ zoppa, evanescente e quasi trasparente in alcuni dettagli, storta, incompleta forse, ma ha, sorprendentemente, la capacità di farci rivivere momenti e sensazioni che nuovamente bussano alla porta delle nostre emozioni con la forza di antichi accadimenti e la sorpresa di nuove scoperte.
Io ho la fortuna di avere buona memoria per ciò che ho vissuto ma soprattutto ho la fortuna ancora più grande di emozionarmi ancora quando la casualità, un dettaglio di un’immagine di un suono o una parola ricostruiscono dinanzi a me una memoria perduta facendola rinascere.
Il breve racconto qui presentato è frutto di un piccolo miracolo che mi ha offerto l’opportunità di rivivere momenti scanzonati e pazzi di un tempo che a volte mi pare irrimediabilmente perduto ma evidentemente così non è, fortunatamente…
Ricordo con piacere i giorni in cui attorno al tavolo tutti insieme inneggiavamo ai Cecimovich.
Che biancheggiar di denti e che vibrar di ugole! le urla si susseguivano in una sequenza assurda creata da chissà quale casualità di istinti e di riflessi.
Il tavolo veniva fatto sobbalzare come uno shaker e i resti di cibo si mescolavano all'impazzata creando un caleidoscopio sulla tovaglia cerata a quadri bianchi e azzurri.
E che dire del fumo! Quel fumo grasso che si sollevava sbuffando dalla padella lanciata ancora rovente sotto il getto freddo del rubinetto creava un olezzo familiare in tutto l'appartamento e ti accompagnava per qualche minuto anche quando uscivi.
Le urla esplodevano improvvisamente e la scusa era sempre surreale perché era così che vivevamo, in modo surreale.
Quando il fuoco si spegneva, allora sì, si accendevano gli animi, proiettavamo i nostri desideri su quel volo incerto e tremulo, quasi fosse il simbolo di un nostro successo, un nostro innalzamento.
Su quel brandello di carta infuocata i nostri sguardi si aggrappavano estatici, forse erano loro ad arderlo, a mandarlo in fumo, a sospingerlo in alto, sempre più in alto.
Quando sfiorava il soffitto il boato degli applausi faceva vibrare le mura, i vetri tintinnavano e qualcuno nelle scale gridava: "Al terremoto!", era un urlo disperato e solitario, contrapposto a quel nostro ruggito corale e tumultuoso che rotolava giù per i gradini squassando gli usci.
Cecimovich era uno di noi, "era noi", in quell'attimo fuggente in cui sfidava la forza di gravità eravamo noi a sfidarla.
"Su, su, più su! ecco così, vola Cecimovich vola!!".
E lui, noi, su, su, sempre più su fino alla fine.
Scendeva lento, cullandosi pigro nell'aria ancora calda, negli applausi che si spegnevano con gli ultimi scoppiettii e si posava goffo, sgonfiandosi un poco, sul piatto unto.
Alcuni si frantumavano in mille pezzi nell'aria calda della cucina, altri si afflosciavano tristemente senza sollevarsi, o mostravano un timido ed inutile balzello; solo allora il nostro entusiasmo si smorzava in un mugolio greve, un'onda senza schiuma che smuove il fondo con poca convinzione.
Ma quando quel foglio di carta crepitante, da povero vestimento per arance diveniva Cecimovich, personaggio surreale, allora noi bruciavamo in un attimo quel desiderio di sublimazione, quel bisogno di sfogo ancestrale che sempre ci scorreva nelle vene e pulsava per uscire.