L'anno dedicato al centenario della nascita di Beppe Fenoglio non poteva proseguire senza il contributo di un interprete che ha già avuto modo, in passato, di confrontarsi con le assolute parole fenogliane.
Andrea Bosca torna sulle assi del palco (pur portando, parallelamente, in scena lo spettacolo tratto da La Luna e Falò di Cesare Pavese) con Ma il mio amore è Paco, reading-concerto che tende un filo immaginario e ben saldo, tra due racconti di Fenoglio, molto amati dall’attore astigiano, il quale volge lo sguardo anche a Il Gorgo.
Così come per il mirabile lavoro svolto sul testo pavesiano, Andrea Bosca si concentra sul linguaggio e sull’essenza stessa dei personaggi, per dar loro vita ‘altra’, soffermandosi sul dono intrinseco della penna fenogliana, fatta di parole ineluttabili, divertenti e solenni, al contempo.
Frasi che paiono scorrere come i sogni narrati da Emily Brontë in Cime Tempestose: “…sogni che son rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; passandomi attraverso e sfidando il tempo, come il vino attraverso l'acqua, alterando il colore della mia mente.” Poiché, questa è la via dell'amore e della passione, in grado di trasformare e trasformarsi in un sentimento più alto, quando ci si trova al cospetto dell’altro.
Lo spettacolo va ad aggiungersi alla brillante produzione di BAM Teatro ed è punto di partenza per una nuova intervista ad Andrea Bosca, a proposito degli autori che ama e porta, magistralmente, in scena.
Approcciando Pavese e Fenoglio, come ti sei trovato a lavorare sui loro differenti linguaggi?
La lingua mi permette di risuonare con tutto quel patrimonio orale di cui mi sento depositario, avendo sentito quelle storie da parenti e amici, proprio come hanno fatto Fenoglio e Pavese. Affondo le mie radici in quelle storie anche se, dal punto di vista del linguaggio, i due autori sono molto diversi. Questo nuovo spettacolo è un reading-concerto; una narrazione fatta con il pubblico con un rimando sonoro, per me importante. Un’esperienza vera e propria che si realizza grazie alle citazioni musicali che raccontano anche la nostra percezione dei miti. Quello dei nostri genitori era il western, il nostro è stato Tarantino con i suoi personaggi epici, quello dei ragazzi di oggi può essere il money chase. L’estasi dell’oro di Morricone, questa generazione la riconosce, ad esempio, in Breaking Bad o Peaky Blinders.
I testi di Fenoglio, con i quali mi sono rapportato, raccontano cos’era la corsa all’oro dell’epoca e, sapendo cosa la rappresenta adesso, ti danno modo di capire che c’è un forte filo conduttore e tu devi andare a scavare in quella che è l’essenziale stesso dei rapporti e dei sentimenti. Puoi farlo, tramite la crescita emotiva di un personaggio che osserva gli altri e i loro chiaroscuri, così come utilizzando la giustapposizione, vale a dire unendo un racconto lungo come Ma il mio amore è Paco ed uno più breve come Il Gorgo, che mettono lo spettatore al cospetto della fallibilità dell’essere umano, ma aiutano anche ad imparare come trattare le persone a cui tieni.
Altrettanto importante è l’esperienza che lo spettatore fa a teatro, dove - nel caso specifico - può capire la maestria con la quale Fenoglio suggerisce di affrontare le difficoltà della vita, grazie alla caratteristica narrativa che lascia senza fiato per via delle soluzioni scelte. È un costante chiedersi: adesso che cosa succede? E, nei momenti cruciali, si comprende quali fossero le finalità del racconto. Fenoglio, come Pavese, è un autore che ha ascoltato e vissuto molte storie, per questo può compiere determinate scelte per i suoi personaggi.
È capitato che un artista mi esprimesse le sue difficoltà nel lavorare su testi scritti da altri, nei quali sentiva troppo fortemente la presenza dell’autore. Qual è la tua esperienza, in questo senso, invece?
Se hai la forza artistica di essere alla pari o superarli, devi fare la tua esperienza, a patto che tu ne sia all’altezza; poiché il mondo progredisce anche attraverso i coraggiosi. Tutti hanno preso un mito e lo hanno trasformato, ma pochi sono rimasti vivi dopo averlo toccato.
Io, invece, mi affido alle parole di questi scrittori, perché non è il testo che deve somigliare a me ma sono io che devo capirne la profondità e mi servono tutti i miei anni di studio per prendermi una certa responsabilità artistica; da un lato lavorando sullo storytelling, dall’altro su ciò che voglio esprimere io.
Fenoglio parla di campagna, aprendo le nostre prospettive, narrando micromondi, mettendo insieme molteplici coralità e questo, trasportato nel mio mestiere, diventa un racconto che possono sentire tutti come proprio ed è l’aspetto che mi interessa di più.
Il linguaggio, in questo caso, è legato al restituire un racconto letterario, quindi l’onestà è fondamentale. Ho livellato solo il testo là dove si parlava di giochi d’azzardo che non esistono più, benché i più giovani possano ancora capirne le dinamiche, senza conoscerne i nomi. Quello di oggi è solo un gioco più solitario, svolto su Internet, senza una comunità che - invece - era ben presente ai tempi della narrazione della storia.
In un paese, infatti, sai cosa sei per gli altri e tutti ne fanno parte, senza indifferenza. Questa è una lezione che quel mondo deve darci, perché stiamo rischiamo ancor di grosso, chiusi nelle nostre solitudini, dietro ad uno schermo.
Quest’anno ti vedremo, altresì, in una biopic dedicata a Marco Pannella? Come ti sei sentito nel vestire i suoi panni?
Pannella è una realtà diversa, ma parallela. Lui non ha mai scritto, ma ci ha lasciato un patrimonio immenso di oralità. Il discorso è simile, perché se io come artista incarno un ‘tipo’ con il mio stare in mezzo alla gente, guardarla negli occhi e credendo nel contatto, allora il mio operato è in linea con la teatralità del rapporto che Pannella aveva con le persone, pur senza essere finto, anzi due volte più onesto e reale. Forza fisica, oralità e giustizia, sembrano concetti diversi, ma confluiscono in una dimensione artistica omogenea che, forse, capirò appieno più in là nel tempo, continuando a lavorare.