Quattro mesi dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, il 10 maggio 1933 gli studenti universitari del partito nazionalsocialista danno vita ai “bücherverbrennungen”, i roghi dei libri. Oltre 25.000 testi, considerati anti-tedeschi, vengono dati alle fiamme. Vent’anni dopo, Ray Bradbury scrive Fahrenheit 451; ambientato in un imprecisato futuro, narra di una società distopica in cui leggere o possedere libri è considerato un reato, per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare qualsiasi volume.
Nella sua estremizzazione letteraria, Bradbury descrive però non una società immaginaria, ma una “distopia reale”, che ci piace immaginare essere caratteristica soltanto dei regimi autoritari e dittatoriali, ma che invece è un tratto non estraneo alle democrazie. E questo tratto è la pulsione a cancellare il pensiero difforme, e la convinzione che si possa effettivamente farlo.
Probabilmente, non si arriverà mai - in un sistema democratico - ad un nuovo rogo pubblico di libri, ma solo perchè nel frattempo sono emersi sistemi più efficaci, e meno simbolicamente appariscenti. L’emarginazione degli autori scomodi è di gran lunga preferibile e preferita...
L’intolleranza “democratica” non è meno feroce di quella anti, a volte è solo più ipocrita. Perchè anche nelle democrazie s’è fatta strada l’idea - balzana e malsana - che si possano rimuovere le idee e la storia stessa. Attenzione, non si tratta della critica, anche dura, ad un determinato pensiero, né l’ostracismo alla sua diffusione; entrambe rientrano nella normale dialettica delle cose. Si può negare la validità, persino la liceità, di un’idea, ma non la sua esistenza. Si può condannare nella maniera più dura un evento storico, non si può rimuovere il fatto che sia accaduto.
Una delle forme tipiche dell’ipocrisia nelle democrazie “liberali”, è invece l’applicazione “a geometria variabile” dei principi. La tal cosa è male “in sé”, se a farla sono gli altri; ma diventa buona se a farla siamo noi, proprio “in quanto” fatta da noi. A ben vedere, la differenza tra la rimozione della statua di Thomas Jefferson, e la distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani, è sottile, ed è sostanzialmente tutta nella irreversibilità o meno del gesto, non nel suo spirito.
La cosiddetta “cancel culture”, se pure si giustifica spesso richiamandosi all’affermazione di valori assolutamente condivisibili, tende però a debordare in una (forse inconsapevole) smania censoria, che travalica la condanna delle idee, e ne vuole eradicare anche il ricordo. Perchè se l’argomento che si assume - ad esempio, per la statua di Jefferson - che non si può celebrare uno schiavista, con la stessa logica si dovrebbe pretendere l’abbattimento (la rimozione sarebbe impossibile...) della piramide di Cheope.
Il punto (debole) è che la “cancel culture” sembra non tener conto della stratificazione storica; la Grecia classica, o la Roma imperiale, fondarono la propria civiltà anche sullo schiavismo. I teatri greci, o gli anfiteatri romani, sono stati edificati dal lavoro degli schiavi. E sono quindi anche un monumento allo sfruttamento. Ma a nessuno - spero! - verrebbe in mente per questo di abbatterli. È la “storicizzazione” che muta la percezione delle cose.
Non è rimuovendo la statua di Thomas Jefferson, per cui non nutro alcuna simpatia..., che si cambia il giudizio sulla sua figura, ma semmai aggiornando - laddove necessario - i termini in cui viene presentata. Più che perseguire una impossibile cancellazione d’una cultura, attraverso l’opinabile rimozione di una sua “simbologia”, bisognerebbe semmai articolare una efficace critica, al limite una inappellabile condanna morale.
Ma la tentazione del ricorso alla censura è, come detto, una presenza costante, di cui stiamo vivendo un triste revival.
L’esplosione del conflitto russo-ucraino, infatti, ha dato la stura ad una ondata di censura russofobica ed anti-culturale, in cui non solo si sono esclusi - solamente in base alla nazionalità - cittadin* russ* da vari contesti artistici e sportivi, ma si è giunti a negare la possibilità di rappresentare e/o eseguire opere di autori russi, anche di secoli passati. Un autentico delirio che, nonostante le numerose perplessità suscitate, non sembra accennare a scemare, ma anzi prosegue come per forza d’inerzia. Così che ogni nuovo episodio si giustifica per l’esserci dei precedenti.
Tale deriva è non solo uno scivolamento verso la barbarie - anche se si pretende essere un modo per combatterla - ma costituisce un pericolosissimo precedente, giacché domani basterà indicare un nuovo “demone” per rimettere in campo una prassi (ormai sdoganata) di messa al bando collettiva e pregiudiziale. E la cosa più triste e più tragica ad un tempo, è che nessuna autorità, né politica né morale, abbia sentito il dovere di alzare la propria voce per condannarla in maniera ferma ed inequivocabile.
In passato sono stati gli zingari o gli ebrei, oggi sono i russi: e in futuro?