Il costante dubbio interiore giova all’intelligenza e alla sensibilità, ma chi ne è irrorato e ne sperimenta i tormenti fecondi deve fronteggiare anche qualche mostriciattolo. Daniela Poggi, albero ad alto fusto e fiorito, con rami che sfiorano le colline, si sente un bonsai. Vedremo il perché.
Dagli esordi con Walter Chiari, l’attrice ligure ha interpretato decine di film e produzioni televisive, è stata di scena su molti palchi, conduttrice di trasmissioni-caposaldo come Chi l’ha visto?, diretto cortometraggi, scritto testi teatrali, vinto numerosi premi.
Sinceramente, però, non viene la voglia di elencare quel che ha fatto, predomina il desiderio di scoprire quel che è, tanto vibra di un’umanità che sorprende e avvolge.
Ha appena inciso Sulle ali di un angelo scritta con Mario Lavezzi1 e, racconta con orgoglio commosso, ascoltata da Papa Francesco durante i festeggiamenti per i novant’anni del settimanale Famiglia Cristiana.
La canzone è dedicata alla memoria della mamma Lydia alla quale il morbo di Alzheimer fece dimenticare di avere una figlia e dette a Daniela il compito doloroso di essere madre di sua madre. Nel romanzo Ricordami!, i cui proventi sono devoluti a Salento Alzheimer, la Poggi ripercorre la drammatica vicenda.
Come è nata Sulle ali di un angelo?
Dopo aver fatto tante presentazioni e letture di Ricordami!, ho pensato che avrei voluto donare al pubblico una canzone. Per comporre la musica ho chiamato Mario Lavezzi, carissimo amico da quarant’anni, che il giorno dopo mi ha detto: senti un po’ se ti piace. Poi ha mandato le strofe a Lorenzo Vizzini che le ha messe in metrica perché alcune parole non funzionavano. Voleva cambiare anche “il mio cuore sbrindellato”, ma sbrindellato doveva rimanere: è una parola-chiave quando parlo della mia vita. L’arrangiamento è di Mario Pennino. Il titolo l’avevo messo da subito perché, mentre mamma sta per andarsene, scrivo che è pronta per salire sulle ali dorate di un angelo.
E poi credo agli angeli. L’angelo custode mi aiuta. C’è anche un angioletto del parcheggio [sorride]. Quando sono nella fase più disperata in questa città [Roma n.d.r.] lo invoco.
È un angioletto che guida la spider?
[Ride] Una spiderina.
La certezza dell’angelo custode non ti ha mai abbandonato?
Rivedere tutta la mia vita è complicato. Sicuramente ho fatto tante cavolate e passi azzardati, ma quando mi rendevo conto che stavo cadendo in un abisso, ho pregato. Mi sono sempre sentita protetta. I miei genitori mi proteggevano con il loro amore, ma ero una ragazza lontana da casa. Prima in collegio, poi un anno a Londra a 18 anni, un anno in Tunisia, in America e infine sono venuta a Roma. Indipendente. L’ho potuto fare perché sapevo c’era qualcuno che mi salvava.
Una volta hai detto che sei rimasta figlia.
Purtroppo. Intanto mi sono sempre sentita 50% mamma e 50% papà. Ho fatto dodici anni di analisi per cercare di capire chi ero. I viaggi, le fughe, l’autonomia, il voler affrontare la vita da sola. E mi pongo ancora la domanda. Chi sono? C’è dentro di me qualcosa che non mi giunge e che magari altri riescono a percepire? Quando mi stimano, quando mi regalano attenzione, quando mi dicono “sei una persona piena di luce e dai serenità” io mi chiedo: perché trasmetto solarità quando cado in baratri profondi, bui, dove mi sembra di aver fallito tutto?
La vita senza un figlio mi pare come un bonsai che si continua a potare invece di lasciarlo sviluppare nella sua pienezza. La mia vita avrebbe potuto fiorire in una famiglia splendida, in un rapporto di coppia, bambini, nipoti invece alla fine mi ritrovo in solitudine, seppure illuminata da raggi di sole. E sempre di più penso che se fossi stata madre probabilmente avrei affrontato la malattia e la perdita di mio padre in un altro modo, perché io ero sempre la sua Cicciola, la sua bambina, fino all’ultimo giorno. Poi mamma che a un certo punto diventa mia “figlia” per l’Alzheimer, ma io non ho partorito, io non ho avuto la gioia di un allattamento. A livello di scrittura ero madre di mia madre, ma a livello biologico, fisico, no. Ero una figlia che voleva essere riconosciuta dalla madre che invece diventava piccola: è stato veramente un gran casino. E mi manca l’abbraccio materno, tremendamente l’abbraccio paterno.
Ma con gli uomini sono io che prevalgo e lui deve essere più giovane.
Affrontando questo terzo passaggio della vita, che ritengo il più complesso, il più fragile, osservo che le mie amiche con figli hanno un atteggiamento di assoluta maturità che io ritengo di non avere. In me c’è una ragazzina che scalpita, una Cicciola che vuole correre, lasciarsi andare ai concerti, fare le cose più folli, in un corpo di adulta che si sta, purtroppo, involvendo, con una pancia che non ha dato vita. Resto una bambina e, se i desideri non si realizzano, mi sento rifiutata. Sono alla ricerca di qualcuno che mi “adotti”.
Quando sei in scena, o con la tua figlioccia Ximena, ti arriva la pienezza alla quale aneli?
Sì, in quel momento. Se sto recitando sono completa e piena, ma si chiude il sipario e sono svuotata e sola. Se sto con Ximena, sono la donna più felice di questo mondo e mi sento madre, zia, amica, compagna, ma, quando esce, mi sento svuotata e sola. Nei miei viaggi in Africa con l’Unicef mi sento viva, ricolma perché gli altri mi stanno ascoltando, sto dando tutta me stessa: ho un ruolo. Una madre ha il ruolo prioritario di essere madre. Il mio ruolo qual è? Chi sono io per questa società? Se mi vuole io mi do, ma se le porte mi si chiudono? Se tu non mi vuoi intervistare, se non mi premiano per un film, io esisto? Per questo dico che sono rimasta figlia: ho continuamente bisogno di essere riconosciuta.
Quando sei madre non hai più bisogno di essere riconosciuta: tu riconosci tuo figlio e tuo figlio riconosce te che gli hai dato la vita.
Anche se, per dirla con Achille Campanile, non sai mai chi ti metti in casa.
In maniera ironica, certo. Non è detto che da te nasca un genio o un angelo, magari è un demone: però è tuo. L’aggettivo possessivo mio, io lo posso usare solo per Lillo [l’amabile pastore maremmano n.d.r.].
Detto ciò, allora, lo spettacolo Vertigine in altezza su Emily Dickinson è perfetto per te fin dal titolo.
L’ho vissuto con gioia, preoccupazione, timore, in punta di piedi. Ogni sera al Niccolini di Firenze era una specie di tragedia. Dicevo: un monologo, ma chi me l’ha fatto fare. E se mi dimentico una parola della poesia? Se mi viene un balbettio?
Uno spettacolo alto.
Però faccio fatica a portarlo in giro. Non è facile. Intanto il mio nome non è altisonante, non bastano i 44 anni di carriera.
Anche perché non mi sono mai assoggettata a un sistema di potere. Non faccio parte di un cerchio magico né non magico [sorride].
Stare all’interno di un gruppo creativo mi sarebbe tanto piaciuto. Al mio primo agente, dal 1979, dicevo: riuniamoci una volta al mese, con sceneggiatori, registi, produttori, attori. Svisceriamo, progettiamo. Sai la risposta? “Tu hai una mentalità americana”. Forse, ma non è detto che sia sbagliata!
Oggi le nuove generazioni si sono consociate e lavorano in gruppi. Ma fare entrare qualcuno dal di fuori è squilibrante. L’Italia è fatta così. L’atteggiamento mafioso non si esprime solo criminalmente, è pure: “Io ti difendo e tu mi difendi”.
Per due anni e mezzo ho fatto l’assessore alla cultura a Fiumicino, ma non faceva per me. Non volevo scendere a compromessi.
L’esperienza professionale che ha coinciso con il tuo intimo essere?
L’esodo di Ciro Formisano, girato nel 2015. Il film in assoluto più importante al quale abbia partecipato. C’erano la storia, il personaggio, il dramma, la speranza, l’amore, il rapporto materno.
Claude Chabrol?
Posso raccontare un aneddoto divertente. Quando mi chiamò per Dr. M ero pazza di gioia. Lavorare con un maestro, in più a Berlino durante la caduta del muro, e con Jennifer Beals, che nella scena finale di Flashdance ricorderemo per il resto della vita. Il mega set francese, l’albergo meraviglioso. Ero emozionata. Sicura del mio francese, ma terrorizzata dall’interpretazione. Giro la mia prima scena e Chabrol esclama: “Épatant, épatant”. Stupenda, meravigliosa, fantastica. Io: “Merci, merci vraiment”. Seconda scena: “Épatant”.
Alla fine ho scoperto che lo diceva a tutti! E io ero convinta di essere Eleonora Duse, da Oscar…Vabbè, Daniela, lascia perdere, mi dissi.
Épatant!
Con Sandro Bolchi ho addirittura pianto. È stata molto dura. Regista famosissimo di fiction mi aveva scelto per Solo con Jacques Perrin che intrepretava mio marito e Ray Lovelock, il mio amante. Dovevo andare verso il caminetto, sedermi sul divano in un atteggiamento di triste pensiero.
Io giro la scena e lui urla come un forsennato: “Ah, chi cavolo credi di essere? Ti stai appendendo alle tende come Emma Gramatica”. Davanti a una troupe di quaranta persone. Mamma mia. Avrei voluto avere una trivella e sprofondare.
Spesso i registi ti umiliano, nel nostro Paese non c’è molto rispetto per l’attore. Oggi è un po’ cambiato, ma rimane la discriminazione fra protagonisti, coprotagonisti, guest star o generici.
Non possiamo risparmiarci la domanda sulla bellezza.
Sfiorisce.
Come l’hai vissuta? L’hai vista? O te l’hanno raccontata gli altri?
L’ho vissuta, me la sono riconosciuta. Però bisogna definire la bellezza dentro alcuni canoni estetici che sono abbastanza ferrei: la distanza degli occhi, l’altezza delle sopracciglia, la tipologia del naso, gli zigomi, l’ovale, il rotondo... Penso di essere stata una bella ragazza bionda, ma la bellezza perfetta è quella di Nicole Kidman, Charlize Theron, Penelope Cruz. Io, per esempio, ho sempre avuto il lato sinistro migliore del destro, ho due profili diversi.
Un viso perfetto, lo rimane anche senza capelli, disadorno.
Ti vedo ferrata.
Ho fatto degli studi. In qualunque posizione lo giri, la resa cinematografica del viso perfetto è la stessa.
Io non rientro in quei canoni, nell’insieme vado bene e questo ha fatto sì che le porte si aprissero più facilmente. Quella bellezza però cerchi di offuscarla, di far capire che c’è una testa che vorrebbe pensare. Ti parlo da attrice che ha vissuto quegli anni, oggi probabilmente è diverso. Cristiana Capotondi, molto carina, è riuscita farsi apprezzare come brava attrice.
È un incubo, comunque: se sei bello vuoi essere brutto per essere apprezzato nella tua bravura, se sei brutto, ma molto bravo, non sei apprezzato perché non sei bello.
Io ero bella e mi volevano come bella, ho cercato di farmi apprezzare come brava, ho dovuto ricominciare da capo e quindi ho lasciato la commedia brillante per cercare di far capire che potevo recitare anche ruoli drammatici, piano piano ci sono riuscita.
Adesso la bellezza la ricordo nelle fotografie perché allo specchio vedo un viso che sta perdendo le connotazioni di Daniela. Dove sono i miei occhi, le mie sopracciglia? Più niente. Se sono seria ho la bocca e le stesse pieghe di mio padre e quando mi devo truccare vedo che gli occhi sono quelli della mia mamma, già un po’ vecchiotta. Può restare, a mio parere, una bellezza nella sua totalità, se riesci a esprimere la famosa, retorica, bellezza dell’anima. Forse è alternata nell’arco di un giorno perché se il tuo cuore ha voglia di aprirsi e provi gioia gli altri lo ricevono. Ieri mattina stavo andando al Campidoglio, ero felice, sorridevo camminando e un signore al telefono ha detto: “Aspetta, aspetta è passata l’attrice Daniela Poggi”. L’ho salutato e dentro di me: “Dai, Daniela, t’hanno riconosciuta. Che bello!”. Ma ci sono altri momenti in cui non ho nessuna luce e gli altri ricevono il mio essere spenta, assente.
Sulla bellezza potremmo fare un convegno… Solo quella artistica è indiscutibile: la Cappella Sistina è perfetta. Il David di Michelangelo è perfetto. Noi siamo imperfetti dalla nascita.
Sei vegana, vero?
Sì, è un cammino che ho fatto negli anni con approfondimenti e consapevolezza. Ho iniziato a 17 anni dando un calcio negli stinchi a un amico di mio padre durante una cacciata in riserva, dopo aver visto sparare a un passerotto. Quando ho sentito il pianto di una lepre non ho più mangiato selvaggina. Poi ho lasciato le pellicce. In un ristorante a Firenze davanti al sangue della bistecca alla fiorentina ho lasciato la carne rossa. Ho girato un film in una porcilaia e ho visto come trattavano i maiali: ho preso porcellini in braccio e smesso di mangiare il prosciutto. Vedendo come morivano i pesci in un secchiello, ho rinunciato al pesce. Sono diventata vegetariana, mangiando dei pezzi di formaggio, ma ho saputo che le mucche e le bufale sono obbligate a rimanere sempre incinte per produrre latte, e sono diventata vegana.
Non è stato per moda, né per una scelta salutare. Non volevo più che certe cose facessero parte della mia vita. L’ho applicato anche nell’abbigliamento. Oggi tu vedi questi mocassini di pelle, ma hanno 30 anni e sono gli ultimi rimasti.
È una filosofia di amore e di calma. Ogni tanto perdo la pazienza, ma invece la voglio coltivare perché chi ha fatto la scelta vegana non può non avere rispetto verso l’essere umano. Mi accorgo che spesso sbaglio e di fronte alla violenza rispondo con altrettanta violenza.
La televisione di questi anni di pandemia e guerra fatta di domande sbagliate, risposte non attinenti, atteggiamenti di superficialità, arroganza, prepotenza, con tanti giornalisti ed esperti che possiedono la verità… mi prendono delle rabbie che darei cazzotti all’apparecchio.
Sgrano il rosario per placarmi.
1 Per il Videoclip di Sulle ali di un angelo di Ciro Formisano, il 30 maggio 2022 Daniela Poggi ha ricevuto il "Premio Romavideoclip. Il cinema incontra la musica".