Ho deciso di cambiare lavoro a 47 anni.
Esattamente un anno fa, nel 2021, ho aperto la Partita IVA, con l’intenzione di mettermi a lavorare come freelance. Complice il periodo storico, sopraggiunto d’improvviso a scombussolare i miei piani. Nonché gli incoraggiamenti del mio commercialista: “È da tempo che dici di volerlo fare, cosa aspetti, salta il fosso!”.
Il fosso l’ho saltato con timore e piacere al tempo stesso. Con piacere, perché la filosofia “lo stesso lavoro per tutta la vita” mi sta un po’ stretta, caratterialmente. Con timore, perché non è esattamente facile rimettersi in gioco professionalmente da over-40.
Appeso al muro, accanto alla mia scrivania, da un anno spicca un post-it con una frase che ho letto su una rivista, qualche tempo dopo il primo lockdown: “Chi non ha subito grandi traumi [durante il lockdown del 2020] ha avuto modo di progettare per il futuro”.
Ed io, che per fortuna non ho subito grandi traumi, ho avuto esattamente modo di ri-progettare il mio futuro, per seguire il mio sentire professionale più “vero”. Nonostante la paura di sottofondo, l’istinto di oltrepassare i limiti del noto, esplorare altre zone di me, provare a vivere di quel che amo, è stato, ed è tuttora, più forte di ogni incertezza. I tempi sono incerti comunque: allora, perché non provare a viverli facendo ciò che più amiamo?
Il coraggio di mettermi in discussione e aprire nuove porte, l’ho imparato negli Stati Uniti. Dieci anni fa, ho vissuto dieci mesi in Texas, a Dallas, dove ho fatto ricerca all’università, scoperto un nuovo mondo, conosciuto gente di ogni tipo. Una fase di vita che mi ha modificata completamente, rendendomi quel che sono oggi: una persona che non teme il cambiamento, che ha bisogno di rinnovarsi, di seguire il sentiero che sente più giusto per sé, anche se questo significa cambiare più volte.
Negli Stati Uniti sono stata testimone di storie di vita coraggiose: un amico che, a 40 anni, ha deciso di avviare una attività di e-commerce, dal nulla. Un altro, che a 60 anni, è stato ammesso a un dottorato di ricerca. Una donna che ha deciso di vivere (riuscendoci) di laboratori di scrittura per donne che vogliono ritrovare e nutrire il loro lato femminile. Un’altra che ha deciso di vivere (riuscendoci) come pittrice e insegnante di yoga prima, e come pittrice e istruttrice di tango poi. A costo di spostarsi a vivere di città in città: prima Dallas, poi Portland, e ora Los Angeles. Oltre che una donna coraggiosa, flessibile, direi. In Italia, alcuni anni fa ho conosciuto un uomo coraggioso che ha scelto di mollare una carriera sicura, di prestigio, a tempo indeterminato, per diventare libero professionista e fare della sua passione, un vero e proprio lavoro. Nel mentre, in questi anni di pandemia, ho letto, in vari libri e sul web, di moltissime altre persone, come lui.
Una delle parole d’ordine, in tutti questi casi, è “flessibilità”. Sapersi vedere e concepire come una persona “diversa” oltre “i soliti panni”. In uno degli articoli del suo blog, la psicoterapeuta Nicoletta Cinotti spiega che, in generale, “nei momenti di transizione, ci rendiamo conto quanto sia importante essere flessibili, e, nello stesso tempo, avere una struttura”.
Struttura, in che senso? Mi chiedo. “La struttura è quello che consente una sicurezza di base”, mi arriva in soccorso Cinotti nel suo articolo, “ma se questa struttura è troppo rigida diventa un ostacolo alla nostra crescita e alla nostra trasformazione. Abbiamo bisogno della struttura per dare forza ai nostri movimenti ma senza le articolazioni, che ci consentono flessibilità, non potremmo muoverci”. Nicoletta Cinotti ha ragione: servono punti di riferimento, all’interno di una visione flessibile della vita. “Abbiamo bisogno di avere una base sicura – emotiva e familiare – per sentirsi al sicuro quando ci muoviamo nel mondo”.
Penso alla mia, di struttura, che associo a una qualche forza interna che tiene magicamente assieme tutte le diverse parti di me. Una base emotiva, dentro di me, ma anche relazionale, al di fuori di me (la famiglia, la rete di persone fidate che restano, anche nella distanza, nella mia vita flessibile). Quelle radici interne che mi porto appresso ovunque io finisca a vivere e lavorare, che mi rendono sempre la stessa persona, la stessa anima, nonostante tutta la diversità che sperimento.
Penso ai giovani di oggi, che, rispetto a me, si trovano a vivere nella società liquida per eccellenza (quella di cui parlava il sociologo Bauman): quanto sanno essere flessibili, loro? Lo scopro in un articolo dell’8 gennaio 2022 di Cristina Lacava, dentro la rivista Io Donna. Racconta di una indagine, chiamata “Next Gen 2030”, condotta da Bnp Paribas Cardif su un campione di 1000 giovani italiani tra i 15 e 30 anni. Quel che mi colpisce è l’apertura dei giovani verso la flessibilità, come se fosse uno stile di vita “normale”, scontato, assodato. Essere flessibili, leggo nell’articolo, per i giovani contemporanei equivale a una identità che resta solida, indipendentemente dalla liquidità in cui sono immersi. Vuol dire vivere secondo i loro ritmi personali, unici. Essere in grado di esprimersi, per quel che si è e si sente, di volta in volta. Per cui, continua l’articolo, la carriera non è più concepita come una scala da salire dal basso verso l’alto, con delle tappe da raggiungere in verticale. La carriera, la si vive sul piano orizzontale, spostandosi “lateralmente”, di professione in professione, seguendo il proprio sentire, di esperienza in esperienza. Se non mi riconosco più in un certo lavoro, perché restarci?
La psicoterapeuta Nicoletta Cinotti, nell’articolo già citato, ci dà un ulteriore consiglio su come gestire struttura e flessibilità: “Se siamo molto timorosi potremmo esagerare con il bisogno di sicurezza, se siamo troppo esplorativi potremmo esagerare con la flessibilità. In ogni caso la nostra salute e la nostra crescita dipendono dal dialogo tra questi due elementi”.
Fare dialogare flessibilità e sicurezza – mi sembra complesso ma non impossibile, una strategia per stare (bene) dentro questo universo liquido. Cinotti suggerisce di farci qualche domanda, per vivere al meglio le nostre fasi di transizione: “[…] quanto sono flessibile? Quanto ho bisogno di punti fermi? La risposta che troveremo ci permetterà di essere intimi con noi e di capire la misura in cui coraggio e paura organizzano le nostre scelte. La misura in cui stabilità e cambiamento disegnano la nostra crescita”.
Ma, indipendentemente dalle nostre risposte a queste domande, per Cinotti una cosa è certa: “Per crescere abbiamo bisogno di tendere verso qualcosa. Per non crollare abbiamo bisogno di avere radici che ci tengano legati al terreno: in fondo siamo tutti un po’ equilibristi tra coraggio e paura, tra stabilità e cambiamento, tra continuità e discontinuità”.
Il bisogno di tendere verso qualcosa: ecco perché ho deciso di cambiare lavoro a 47 anni. Necessità sempre più condivisa da altre persone attorno a me. Che siano questi tempi, non sempre semplici, a spingerci a cercare quel senso di crescita, ancora? Credo che, come società, ci aspetti un gran lavoro da fare, fin da oggi: non solo sul piano dell’istruzione e dell’educazione, ma soprattutto quello culturale. Avremo, nel breve e medio termine (la vita liquida è sotto i nostri occhi) una cultura, una società, una mentalità, dei luoghi di lavoro e chi li dirige, disposti ad accogliere chi, a una certa età, vuole rimettersi in gioco e cambiare lavoro?
A volte, solo a volte,
ritirarsi non è arrendersi
Cambiare non è ipocrisia,
disfare non è distruggere.
Essere soli non è allontanarsi,
e il silenzio non è non avere niente da dire.
Restare fermi non è pigrizia,
né vigliaccheria, è sopravvivere.
Immergersi non è annegare,
retrocedere non è fuggire.
A volte, solo a volte,
occorre allontanarsi per vedere,
abbandonarsi, lasciare che scorra, che il vento cambi,
chiudere gli occhi e tacere.
A volte bisogna ascoltarsi.(Maria Guadalupe Munguia Torres)