Coraggio, Ferdinand, ripetevo a me stesso, per tenermi su. A forza di essere sbattuto fuori dappertutto finirai di sicuro per trovarlo il trucco che gli fa tanto paura a tutti, a tutti gli stronzi che ci sono in giro, deve stare in fondo alla notte. È per questo che non ci vanno loro in fondo alla notte…
Da Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline
Credo che Céline mi presterebbe questa frase per presentare il personaggio che intervistiamo oggi: Sandro Luporini. Qualcuno potrebbe chiedersi se si tratta del noto pittore che già negli anni Sessanta esponeva alla Galleria Bergamini di Milano, come rappresentante del Realismo esistenziale. O se si tratta, invece, del compagno di scrittura di Giorgio Gaber, lo storico amico e coautore con cui il Signor G ha prodotto tutto il Teatro-Canzone. Ebbene, anche se sembra difficile che un solo uomo e per giunta indolente – come lo definisce affettuosamente il suo gallerista e amico storico Adriano Primo Baldi – possieda entrambe i talenti, si tratta invece della stessa persona. Osservando i suoi dipinti e guardando il suo Teatro ci rendiamo conto che la Metafisica del Quotidiano pervade entrambe queste forme d'arte raggiungendo forse l’acme ne Il Grigio.
Vorrei fissare l’attenzione sulla filosofia dell’Uomo affetto senza dubbio da quel genere di pigrizia collegata con il concetto di ozio creativo del sociologo De Masi e che trova le sue radici ne L’Elogio dell’Ozio di Bertrand Russell e ancor prima nel carpe diem di Orazio. Si tratta di un Uomo che attraverso i suoi dipinti manifesta la volontà di guardare liberamente (il gabbiano) dal proprio personale unico e irripetibile punto di vista (la finestra) la profondità del sommerso (il mare) inteso sia in senso individuale (l’uomo qualunque) o collettivo (il gruppo di uomini da scena felliniana… Ma sentiamo cosa ha da dirci: lo abbiamo intervistato nel suo studio a Viareggio.
Il mare, Sandro, è uno sfondo ricorrente nei tuoi dipinti. Ed è sempre calmo, forse un po’ grigio come si presenta spesso d’inverno… «… il mare, com'è naturale, immobile e piatto è quasi perfetto sta lì sempre uguale». Cosa germoglia in te mentre fissi la linea dell’orizzonte? Laddove il mare e il cielo si tendono la mano?
Sandro Luporini: Ormai non ho più neanche bisogno di guardarlo, il mare. È dentro di me e mi serve a pensare senza pensare. Avrei potuto dir meglio a pescare senza pescare nel senso di lasciare che una lenza vaghi libera senza avere la volontà di prendere qualcosa. Quando penso al mare, naturalmente, non penso al mare d’estate con le sue spiagge troppo affollate. Quello non mi appartiene.
La nave, sia veliero sia petroliera, per la tua lente di pittore è un’apparizione… «… una nave grande, enorme, che va, va, va. Non si sa dove va, non si sa quando è partita…». Nella Pittura come in Teatro… come reagisce il tuo immaginario quando un’imbarcazione scivola sull’acqua?
Quando penso a una nave non mi viene in mente il viaggio. Io non amo viaggiare, nel senso dello spostarsi da un luogo a un altro. Quello che per me è importante è andare, meglio se non si sa dove. Ecco, la nave mi evoca questa immagine, che in un certo senso assomiglia alla vita.
Spesso un Uomo di spalle nei tuoi quadri contempla il mare. Sono «le spalle comuni di un uomo qualsiasi, il grigiore quotidiano del capofamiglia che va al lavoro, o al suo focolare... »? Che relazione esiste tra la figura dipinta e l’uomo creato, con l’aiuto di Giorgio, ne Il Grigio? È nata prima l’immagine sulla tela o l’uomo qualsiasi del monologo?
L’immagine dell’uomo di spalle, che appare in molti quadri, è nata prima e penso che rappresenti semplicemente la piccolezza dell’uomo di fronte all’immensità del mare. Invece l’uomo di spalle de Il Grigio nasce da una lettura di Fernando Pessoa, uno scrittore eccezionale che non mi vergogno di aver copiato molto.
Dipingi abbracci di amanti e un gabbiano che spalanca le ali sul loro incontro. «Una sola cosa so della Donna, che è molto meglio cadere nelle sue braccia che nelle sue mani». Oggi, dopo quarant’anni di riflessioni, hai compreso qualcosa di più del Mistero della Donna? Che cosa rappresentava quel gabbiano allora e come vola adesso?
Dopo quarant’anni di riflessioni e di esperienze, anche amorose, di fronte al mistero della donna penso di essere un analfabeta. Per quanto riguarda il gabbiano, come è già stato detto per l’albatro, è un animale assai ambivalente: piuttosto goffo se coi piedi per terra e bellissimo in volo. Come il poeta.
L’Amore, il rapporto di coppia, la relazione, sono temi centrali nel Teatro-Canzone: « …vorrei riuscire a penetrare nel mistero di un Uomo e una Donna nell’immenso labirinto di quel dilemma». Cosa ti aspetti dalle tue relazioni? Al di là delle donne, come hai vissuto la relazione di amicizia e collaborazione con Giorgio?
Sui rapporti d’amore credo di aver risposto nella domanda precedente parlando di analfabetismo. Dell’amicizia credo di aver capito qualcosa di più. Per esempio in quella con Gaber, oltre l’affetto, sono certo che ci sia stato un forte desiderio di crescita insieme. C’è un’altra cosa in cui l’amicizia si differenzia dall’amore: non conosce il tradimento.
Nel monologo Il Grigio addirittura l’Amore diventa La Cosa: « ...sarà sempre una parola che vola, una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza... ». Ci racconti come è nata l’idea del topo? Del doppio? E de La Cosa? È stata una trovata di Giorgio? O un’intuizione tua sapendo come l’avrebbe potuta interpretare Giorgio?
Circa La cosa ti posso dire solo che c’era in noi la volontà di togliere dalla parola Amore tutto ciò che c’era di poetastrico e risaputo. Per quanto riguarda la nascita de Il Grigio la faccenda è più complicata. Un comune amico ci raccontò di quando casa sua era stata invasa da un’enorme quantità di piccoli topi. Questo ci diede lo spunto per raccontare, in tono ironico e paradossale, i vari tentativi – sempre fallimentari – di una guerra tra l’uomo e quegli astutissimi animaletti. Ma questo non era sufficiente per un lungo monologo teatrale o, meglio, non era abbastanza emblematico. Però un bel giorno un altro amico mi raccontò che sua madre, in una cucina con soffitto a vetrata, vide una grossa ombra scura che si muoveva sopra di lei e scoprì poi che si trattava di un grosso topo. Ecco la scatola teatrale giusta: il nemico.
Come ti ha influenzato questa poesia di Montale « …com’è tutta la vita e il suo travaglio/in questo seguitare una muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia»? Dove, nei tuoi scritti e dipinti, sottolinei l’atmosfera di grande incomunicabilità dell’esistenza? Come si svolgevano le conversazioni con Giorgio su questo tema?
Dai diciassette ai vent’anni, come molti adolescenti, ho scritto centinaia di poesie. Ero innamorato del Montale e lo copiavo senza accorgermene. Questo però non c’entra col teatro che, come sai, è molto successivo. La parola incomunicabilità è stata molto dibattuta da me e Giorgio, soprattutto in riferimento ad alcuni film di Antonioni e di Bergman.
Nella scacchiera esistenziale che spesso rappresenti nei tuoi quadri presumo che il Signor G sarebbe posto tra i pedoni. E la classe politica italiana, da quale pezzo o pezzi sarebbe meglio rappresentata e perché? Quali sono le tue regole nel gioco degli scacchi e quali mosse preferisci?
Nella mia scacchiera Gaber sarebbe la regina che si muove in tutte le direzioni. Basta guardarlo recitare. Il signor G, invece, sarebbe più il re, che si muove a piccoli passi ed è sempre circondato. Sono i rappresentanti della nostra classe politica ad assomigliare di più ai pedoni, che si muovono poco e, solo all’inizio, con lo slancio di due case. Io come scacchista valgo poco, però mi piacciono le mosse d’attacco. Qualche mossa del genere a volte l’ho fatta nel teatro, per poi riscivolare subito nel mare del dubbio.
Il Signor G può essere considerato un Uomo senza qualità alla maniera di Musil? E in questo caso, quali sono le qualità che non ha?
Il signor G è un uomo del dubbio, ma questo non lo porta mai a una forma di nichilismo o di paralisi, come accade invece all’Ulrich de L’uomo senza qualità.
Secondo Sgarbi sei «un combattente dell’arte dell’illusione e dell’immagine» e ti riconosce «uno status di intellettuale pluridisciplinare d’altri tempi». Secondo te che Uomo sei? E che Uomo saresti voluto essere?
Vittorio, per una volta nella sua vita, è stato troppo buono. Che tipo di uomo io sia veramente non lo so proprio. Una volta avevo qualche aspirazione, ora mi accontento di essere un uomo. Ma forse è proprio questa la più alta – e difficile – delle aspirazioni.
È interessante il concetto di egoismo sublimato che hai coniato a proposito di Giorgio nel tuo libro G. Vi racconto Gaber… Come si esprime in te questa forma di egoismo?
Mi piacerebbe molto che, senza volerlo, il mio egoismo – se per egoismo si intende l’innata pulsione verso la realizzazione del proprio sé più autentico – andasse a coincidere con il dare qualcosa agli altri. Ma anche per fare questo bisognerebbe essere qualcosa come un uomo, altrimenti si rischia di cedere alle lusinghe dell’altro egoismo, quello non sublimato; quello che, invece di mirare alla realizzazione del sé, vuole solo che il nostro io prevalga e si affermi su quello altrui.
In quale modo Proust ha influenzato la tua opera pittorica? E quella creativa in genere? Quando hai ritrovato il tuo tempo?
Proust è stato la mia seconda cotta giovanile e ha influenzato la prima parte del mio lavoro pittorico: il realismo esistenziale. La seconda parte, quella della Metacosa, ha più a che vedere con la lettura di Thomas Mann. Mi spiego meglio: mentre secondo me Proust coglie le cose e le persone in flagrante, Mann le blocca quasi nell’assenza di tempo. Questo assomiglia di più a quella certa metafisica del quotidiano che c’è nei miei ultimi quadri.
Se per il Teatro il tuo riferimento era Giorgio, per la Pittura era ed è Adriano: ci racconti della tua collaborazione con Adriano Primo Baldi? Da quanto dura? Ci descrivi le condizioni del vostro “Contratto”?
Con Adriano ci conosciamo fin da quando organizzò a Modena una mostra di pittori che ancora non sapevano che di lì a poco avrebbero formato il gruppo della Metacosa, il che vuol dire da più di quarant’anni. Vorrei che Adriano fosse qui ora per ridere insieme a me della parola contratto. Siamo solo in un forte rapporto di amicizia in cui se io non faccio quadri e lui non fa mostre nessuno si lamenta. Mi è anche capitato di avere proposte da altri galleristi, ma le ho rifiutate. Come ti dicevo prima, l’amicizia non conosce il tradimento.
Cosa rappresenta il Tempo per il Pittore Luporini? E lo Spazio per il Luporini paroliere?
Per me il tempo è uno dei concetti più inquietanti in assoluto. Non sono mai riuscito ad assorbire fisicamente il senso del prima, ora, dopo. Il concetto di spazio, invece, non mi dà nessuna inquietudine. Riesco a percepire fisicamente il vicinissimo come il lontanissimo, e forse persino l’infinito, anche se questo probabilmente è accostabile alla categoria tempo.
La tua opera è pervasa «di un gran senso religioso ma non di religione», qual è il tuo approccio spirituale alla vita? Se tu fossi Dio… oggi… cosa diresti alla nostra classe politica attuale… ?
Oggi una canzone come Io se fossi Dio non avrei certo il desiderio di riscriverla e, se fossi Dio, non avrei alcuna voglia di parlare della classe politica. Il mio senso religioso, se c’è, è il desiderio di avere ancora una certa intenzionalità della vita e della storia.
Mentre la filosofia classica elaborava pensieri raffinati che potevano spiegare all’uomo come perfezionare la propria natura, Diogene invitava a godere della pienezza dell’attimo, con i piedi ben piantati sulla terra… Nel tuo Diogene, invece, quale messaggio intendi trasmettere?
Quello che mi piacerebbe trasmettere è il desiderio di trovare una certa interezza, un equilibrio tra corpo e mente. Per questo motivo non trovo molta contraddizione tra pensieri raffinati e piedi sulla terra.
Secondo il sociologo francese Alain Touraine «siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto». Stato, Società e famiglia collassano con il tramonto del capitalismo industriale e per dirla con Marcuse ora più che mai dilaga L’uomo a una dimensione. Secondo te quali margini di libertà ci sono rimasti?
La frase di Touraine è molto bella e suggestiva. Avrei voluto rubargliela. Sarebbe stata bene in un teatro pieno. Per quanto riguarda il concetto di massificazione – tanto caro ad Adorno e Marcuse –, io e Giorgio ne siamo stati talmente interessati da costruirci intorno quasi un intero spettacolo, Libertà obbligatoria. A differenza dei filosofi della scuola di Francoforte, però, credo che l’individualità di ogni essere umano sia irriducibile. Per questo i margini di libertà dell’uomo sono sempre, anche oggi, molto ampi. Nella storia ci sono sempre stati dei momenti in cui si è cercato di reprimere il pensiero e l’individuo, ma pensiero e individuo sono sempre risorti.
«La luna continua a essere immobile e bianca, come ai tempi in cui c'era ancora l'uomo», dov’è finito l’Uomo o Sandro? Dove lo possiamo ancora cercare? Di che cosa hai una grande Paura?
Parlare di paura mi sembra eccessivo, ma potrei dirti che mi preoccupano il qualunquismo e la poca profondità e acutezza di pensiero. Perché se è vero che oggi ci sono alcuni segnali di rifiuto verso il nostro vecchio mondo, è anche vero che mancano ancora la chiarezza, l’individuazione del nemico vero, una certa consapevolezza e, come dicevo prima, una forte intenzionalità della vita e della storia. Ma forse è solo che l’uomo è ancora in incubazione.
Cosa fermenta ancora nell’antica cantina delle tue idee?
Alla mia età, in genere, si partorisce poco o niente. Tutt’al più c’è una rielaborazione e forse anche chiarificazione di alcuni concetti già espressi. È abbastanza difficile fare il famoso scatto oltre.
Come immagini che sia il fondo della Notte?
Pur essendo un grande estimatore di Céline, credo di averlo apprezzato più per il suo linguaggio che per le sue conclusioni sempre catastrofiche. Contrariamente a lui, io vedo il fondo della notte come quell’attimo che abbraccia l’alba come una rivelazione.
Come potrei concludere questa intervista se non con le stesse parole di Luporini? O forse sue, ma anche un po’ di Gaber… Sono certa che il Signor G me le presterebbe volentieri, anzi, uscirebbe lui stesso dal Sipario dietro al quale ci osserva e direbbe: « …ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente
lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo».
Sembrerebbe una conclusione spietata e senza speranza… Ma io scrivo fiabe e costruisco sogni, immagino mondi migliori e faccio volare i gabbiani della Fantasia. Nella mia scacchiera giocano fate ed elfi, cavalli alati e baldi cavalieri, il re e la regina si salvano sempre dallo scacco e i pedoni non sono mai solo bianchi e neri. Alla fine della partita i principi e le principesse contraggono matrimoni e i vinti si trasformano in vincitori, e nella fiaba, anche se è a lieto fine, c’è sempre un conflitto, una difficoltà, una criticità da affrontare e un percorso da fare per sciogliere i nodi irrisolti… La "cosa" è trasformazione, percorso, crescita insieme... sì, per diventare un insieme solido, indistruttibile. Una radice profonda... Quello di Luporini, quindi, è stato solo un percorso di crescita insieme per darci ancora la speranza di trovare l’Uomo… E ora… siamo giunti al termine dell’Intervista… ed è il momento di calare il sipario. E questa per Luporini è la parte preferita…