Era il 2014 quando tanti media nel mondo annunciarono la conclusione di una lunga ricerca durata ben 4 anni ed eseguita dall'Università di Southampton su oltre 2 mila persone sopravvissute ad un arresto cardiaco, in oltre 15 ospedali situati negli Stati Uniti, in Austria e in Gran Bretagna. I risultati della ricerca lasciarono il pubblico e gli scienziati basiti: quasi la metà dei sopravvissuti (il 40% circa) aveva vissuto una cosiddetta “near death experience” in piena regola, una cosiddetta esperienza extracorporea che ha portato a concludere (e questo è comunque il dato scientifico incontrovertibile) che il cervello continuerebbe a mantenere una certa consapevolezza anche per diversi minuti dopo l'ultimo battito del cuore, quindi ben dopo l'annuncio dell'evidente e manifesta morte clinica.
Tra coloro che hanno vissuto questa esperienza extracorporea, secondo la ricerca, si ripetono alcune sensazioni e ricordi che formano una sorta di mappa di temi ricorrenti: un generale senso di benessere e serenità, una sorta di accelerazione o controtendenza del tempo, una dilatazione spaziale, la visione di una grande luce.
Certo, dal punto di vista scientifico questi effetti possono essere valutati, di primo acchito, come conseguenti all’assunzione di sedativi e di medicinali.
Ben poco spiegabile è invece il caso di coloro che hanno vissuto, durante il periodo di presunta incoscienza dettata dalla morte clinica, esperienze concrete di “osservazione” del mondo circostante, spesso da un punto di vista diverso rispetto al proprio corpo, disteso e inanimato. Vari soggetti hanno spiegato con dovizia di particolari e con la conferma del personale medico presente in quegli istanti, particolari inimmaginabili e altrimenti indescrivibili della sala operatoria o di rianimazione come, per esempio, i suoni particolari e precisi dei macchinari, le manovre eseguite, le persone presenti e via dicendo.
Come molti di voi sanno io quest'esperienza l'ho vissuta a 12 anni, quando mi capitò un incidente che definire inconsueto è poco. Per chi volesse approfondire l’episodio può scrivermi in privato o procurarsi il libro Davide Foschi: l’artista tra luce e mistero che il giornalista de La Nazione Alberto Sacchetti ha voluto scrivere e pubblicare sulla mia storia. Quello che posso affermare qui, molto in breve e con certezza, è che quel tipo di esperienza l’ho vissuta sia con una certa dovizia di particolari sia senza alcuna assunzione di sostanze. I ricordi, al risveglio, sono stati immediati, senza la normale e umana corruzione del tempo che la nostra memoria subisce, gioco forza, nel corso dei giorni dei mesi e degli anni. Non solo “vidi” ciò che mi stava capitando intorno da un punto di vista diverso, addirittura lontano dal mio corpo inanimato, riconoscendo al risveglio tanti particolari che avevo visto durante quei momenti di incoscienza ma spaziai nello spazio e nel tempo, venendo a conoscenza di tanti episodi del passato (anche di un passato remotissimo) e del futuro che avrei poi vissuto crescendo, annunci senza i quali, molto probabilmente, non avrei avuto la possibilità di sopravvivere negli anni seguenti.
Non vi tedierò qui con altri particolari di quell’episodio ma posso tranquillamente affermare che l’esperienza che ho avuto io e che come me altri vivono, con quel grado di oggettività che non lascia adito a dubbi, traccia una scia indelebile nella nostra psiche, nella nostra anima, nel nostro modo di vedere e vivere il mondo e la vita.
Ci si rende conto, per esempio, che esiste un “prima” e un “dopo”: sicuramente ognuno vive tutto ciò in modo del tutto personale, con una profondità dell’esperienza più o meno particolareggiata. Quel “prima” e quel “dopo” fanno sempre e comunque la differenza rispetto al modo di vivere, sentire e pensare alla nostra vita.
L’allargamento della dimensione spazio/temporale gioco forza modifica le nostre prospettive: ogni azione, ogni idea, ogni sensazione perde da quel momento la caratteristica della “casualità” degli eventi e acquista quella della “causalità”.
Si inizia quindi a diversificare il concetto di “causalità” (in realtà ben poco scientifico) da quello di “impossibilità di previsione di un evento per mancanza di dati disponibili”; si inizia a comprendere che la “causa” di un evento può essere collegata da un punto di vista temporale antecedentemente o successivamente al verificarsi dell’evento stesso e che quindi il tempo, così come lo percepiamo istintivamente, è del tutto illusorio nel suo apparente procedere unidirezionalmente.
Si comprende come il futuro non sia già scritto e che la nostra libertà è sì limitata ma comunque esistente e che il verificarsi di certe condizioni e processi, se non modificati in tempo, già vanno a creare l’immagine di ciò che si trasformerà inevitabilmente in sostanza e che quindi, essendo tale, è già presente anche se non ancora visibile ai nostri occhi.
Si impara anche che, se il crearsi di certe condizioni non viene evitato in tempo dal nostro libero arbitrio, del problema torneremo ad occuparcene, magari fra secoli.
Impariamo a morire. Impariamo a rinascere. Scopriamo che una vita, anche una sola vita, ha un’importanza infinita per ogni altro essere umano, anche da essa lontano nello spazio e nel tempo.
Si imparano molte cose da questo tipo di esperienze: forse, ed è questa la cosa più importante, si apprende che non dobbiamo temere nulla, se non la paura stessa.