Nel santo luogo di Kuruksetra due eserciti si fronteggiano. Nell’immobilità che precede lo scontro, un dialogo sacro, guida eterna per tutti gli uomini a venire.
Questa la scena dei primi versi dei settecento che compongono la Bhagavat-Gita, letteralmente “il canto dell’Essere Supremo- dell’adorabile” (Bhagavan-Dio, Bhagavata-l’Adorabile, Gita-canto).
Testo rivelato all’interno del poema epico Mahabharata, che narra la storia dei discendenti del re Bharata, fino ad arrivare ai tre figli del Re Vicitravirya: Dhrtarastra, Pandu e Vidura.
Arjuna è uno di questi, uno dei cinque figli di Pandu ed è protagonista di una narrazione che non ha nulla di contestuale, ma è immortale e sempre attuale al di là delle apparenze tangibili. La Bhagavat-Gita a tal proposito esce da bocca divina e viene tramandata per il bene delle generazioni future.
In quest’epoca nera, il Kaliyuga, è quanto mai luce tra le tenebre; e governato dalla luce del bene è il carro con cui Arjina combatterà dopo l’indecisione iniziale, poiché lui è la quintessenza del puro eroe e ne riassume in sé le prerogative più alte.
L’antefatto narra di una successione al trono tra due fratelli. Pandu il padre di Arjuna dovrà regnare al posto del primogenito Dhrtarastra affetto da cecità congenita. Ma Pandu muore prematuramente lasciando i suoi cinque figli nelle mani dello zio e dei suoi cento figli che cercheranno in tutti i modi di eliminarli per riappropriarsi del regno. I cinque, chiamati ad una sfida al gioco, (abuso del codice nobiliare) ingannati slealmente, saranno spogliati di ogni bene e costretti all’esilio. Dopo tredici anni torneranno per reclamare anche un solo lembo di terra. Ma Dhrtasastra non gli concederà nemmeno uno spillo di territorio. È giunto quindi il giorno della grande battaglia per il diritto al regno che vedrà coinvolte due opposte fazioni: i Pandava e i Kaurava.
Le opposte fazione rappresentano due umanità differenti: l’una governata dalle leggi del dharma: i Pandava, rispettosi delle norme divine e sociali e l’altra rappresentata dai Kaurava che seguono il sentiero dell’Adharma, pertanto restano soggiogati dalla nefasta potenza dell’instabilità e del disordine spirituale e sociale. Ed è in questa cruna che Sri Krsna (Visnu) si pone come consigliere dei giusti, quindi dei Pandava.
L’Essere Supremo, imperituro discende (avatara), ogni volta che l’umanità necessita di essere riportata sul giusto cammino quindi per manifestare la legge universale-cosmica che nei testi vedici è concettualizzata nel RTA mentre nella Bhagavat-Gita nella parola dharma (nozione traducibile ne “il giusto ordine delle cose create” o “del come le cose dovrebbero essere”, quindi nei doveri che un essere vivente deve compiere. A tal senso il dharma del fuoco è luce e calore. Il suo dovere-scopo è scaldare, illuminare). Disattendere questa legge divina significa sottostare al male, alla falsità e rinnegare il principio che governa il mondo ed il suo giusto fluire.
Arjuna è valoroso, per questo Krsna si pone al suo fianco. Appartiene alla casta (varna) dei Ksatriya, i guerrieri, gli amministratori-regnanti. Nel concetto induista, la suddivisione castale è indiscutibile poiché presuppone una irreversibilità de facto. Dallo smembramento del Purusa primordiale, ebbe origine il mondo manifesto e dal suo corpo i quattro ordinamenti umani. Dalle braccia di questo essere cosmico, presero assetto i guerrieri. Ciò che è stato deciso dall’ordine divino non è passibile di modifica. Ogni individuo ha un compito da rispettare e la sua natura è correlata con la sua posizione nella scala sociale.
Arjuna ottiene di appartenere alla casta dei guerrieri per meriti legati a quella che la tradizione chiama Guna (qualità-tendenza) Karma. Quindi per azioni degne compiute in accordo con la propria natura innata, così come viene determinata dalle azioni compiute nelle precedenti incarnazioni.
La natura materiale è formata dai tre guna: Virtù, Passione e Ignoranza. Quando l’essere individuale, imperituro, entra in contatto con la natura materiale, o Arjuna dalle braccia possenti, diventa condizionato dai tre guna. Arjuna senza peccato, sappi che la Virtù, il più puro dei guna, illumina l’essere e lo libera dalle conseguenze di tutti i suoi atti colpevoli…
(B.G.CapXIV, Vv 5,6)
Arjuna possiede la virtù dell’essere guerriero, è questa la natura insita nel suo animo benevolo e suo dovere dettato dalle leggi divine-dharma, è quello di governare e lottare.
Lui è il grande valoroso, ma come tutti gli eroi ad un certo punto tentenna, la sua certezza viene meno. Di fronte ai suoi avversari cede ai dubbi. Il suo cuore è buono, ma condizionato dalle leggi umane. Di fronte a lui, sull’altra sponda del campo di battaglia, vi sono i suoi parenti ed amici. È in questo istante che si spoglia dei suoi attributi e piange. Il suo è un dolore fecondo, iniziatico, lo stesso che hanno patito altri eroi. È un pianto che in sé ha sapore di compassione per i suoi simili, ma in realtà è liquido che potrebbe allontanarlo dal suo giusto destino se non avesse Krsna vicino.
L’eroe è dubbioso poiché conosce le sacre scritture: i Veda, e sa quindi che non si può lottare contro i propri familiari poiché distruggendo le tradizioni familiari la società perderebbe il suo equilibrio. È in questo istante che Krsna, con vigore, inizia ad istruirlo sul suo dovere. Lui gli è amico e parente stretto. Kunti (o Prita) la madre di Arjuna ne è la zia. L’eroe è semidivino.
Nell’incertezza che lo coglie, l’Essere Supremo Krsna lo ammonisce dicendogli che sta basando tali considerazioni solo su una contingenza temporale. L’anima non muore, lo istruisce, solo il corpo cade sul campo di battaglia ed un vero guerriero non può sfuggire ai suoi doveri perché così facendo eluderebbe al volere divino e non adempierebbe alla legge del dharma. Per questo Arjuna chiama Krsna con l’appellativo di Madhusudana: l’uccisore del demone Madhu, il dubbio, poiché richiamando Arjuna all’azione, li dissolve spronandolo a compiere il giusto atto senza incertezze giacché non facendolo volterebbe le spalle ai bisogni del popolo.
Non devi dunque piangere per nessuno. Tu conosci inoltre i tuoi doveri di Ksatriya: essi ti ingiungono di combattere secondo i principi della religione, non puoi esitare. (…) Combatti per dovere, senza considerare gioia o dolore, perdita o guadagno, vittoria o sconfitta; così non incorrerai mai nel peccato.
(B.G Cap II, Vv30-40)
Arjuna è chiamato ad essere il baluardo di legalità, ordine, giustizia e lealtà affinché la società-mondo non precipiti nel caos. Non combattendo a causa dei suoi egoistici dubbi, lascerebbe la collettività in mano ad individui violenti, aggressivi, più forti economicamente e dediti a far scempio dei più deboli. Il malvagio non deve vincere sembra dirgli Krsna. Arjuna non deve lasciare lo stato nelle mani di Dhrtarastra affetto oltre che da cecità congenita, da cecità spirituale come la parte di umanità che per lui parteggia.
Ma il puro eroe non deve lottare con il fine di conquistare il trono o per la gloria personale o per il successo, bensì deve farlo come offerta a Krsna! Il dovere dell’essere vivente è quello di servire il Signore Supremo. Così è nella natura dei giusti e Arjuna lo è, lui è un bhakta, in termini occidentali diremmo un uomo di fede e la bhakti (bhay-condividere. Concetto che indica la partecipazione dell’uomo al principio divino, la comunione totale con Dio, nel perfetto ideale devozionale) è opera nel mondo, quindi azione. Ma gli obbiettivi del bhakta non sono mondani e/o personali. La sete del mondo deve divenire sete di Dio. Come il fuoco ha la funzione di scaldare, l’essere vivente ha l’incarico di servire Dio, poiché è Uno con Dio ma ne è distinto giacché mantiene la sua individualità. Per descrivere questo legame, potremmo immaginare una corda che si allontana dal principio increato per vivere nella realtà materiale, per tornare poi al principio divino, ricongiungendosi ad esso.
Se siamo quindi chiamati a vivere nel mondo, nel ciclo delle incarnazioni, dobbiamo prenderci la responsabilità dell’azione. Nella Bhagat-Gita questo aspetto fondante viene espresso nell’immagine del perfetto yogi, colui che non agisce per il piacere dei sensi, quindi per mero godimento personale, ma riesce attraverso la pratica yogica a dominare la mente, ad educarla affinché l’anima condizionata si liberi dall’ignoranza quindi si stacchi dai vincoli del mondo fenomenologico o illusorio, dal velo di maya, giacché nel mondo creato siamo schiavi della mente e dei sensi. Lo yoga, il Karma yoga cui è dedicato il III capitolo del Canto, aiuta ad immetterci sulla via della liberazione suprema e questo può avvenire solo se la mente si concentra su Krsna (su Dio-l’Uno oltre il molteplice), seguendo la via dell’azione. L’occidente secolarizzato ha spogliato questa sacra dottrina della sua peculiarità originaria. Lo yoga non è pratica di rilassamento ma significa letteralmente ‘mettere il giogo, aggiogare’, porre sotto controllo totale la mente e lo yogi è colui che mette il giogo al proprio respiro. ai propri sensi e ai propri pensieri per guidarli in direzione dell’unione mistica con Dio-luce. È infatti Vivasvan deva del sole che ha trasmesso questa conoscenza, successivamente andata perduta a causa delle speculazioni interpretative che hanno portato adepti-praticanti sul sentiero sbagliato, falsificando la vera dottrina yogica e la sacra sapienza della Bhagavat-Gita.
Il Signore Beato disse: “Ho rivelato questa scienza imperitura, la scienza dello yoga, a Vivasvan, il deva del sole, e Vivasvan la trasmise a Manu, padre dell’umanità, e Manu l’insegnò a Iksvaku.
Questo spiega Krisna ad Arjuna nell’attimo eterno e immobile che precede la battaglia, specificando che il vero yogi non è colui che non accende il fuoco e che si sottrae all’azione. Krsna non prende in considerazione l’afflato contemplativo, ma il potere che si manifesta nell’agire. La Bhagavat-Gita è la via dell’azione. Ma fai attenzione, sembra ammonirlo L’Essere Supremo: l’agire nel mondo così come si conviene ad un guerriero, non è rinuncia al mondo, bensì a kama inteso non nella sua accezione benevola ma nel significato negativo di egoismo nel godimento e attaccamento, a questo si deve rinunciare, non al mondo. La mistica induista si rivela nell’equilibrio dei suoi concetti madre.
Quindi se l’eroe decide di non agire, non raggiungerà mai la perfezione, poiché è solo l’azione che porta l’eroe alla compiutezza. In questo modo Arjuna vive in Krsna e per questo l’eroe riceverà l’Investitura, la stessa su cui si sono forgiati gli uomini dei diversi ordini cavallereschi nell’occidente cristiano. La sfida è la medesima ed è sempre attuale:
“Cavalleria” si configura, quindi, come Via dello spirito e veicolo di santificazione mediante il retto agire. In quanto tale e date le difficoltà che il percorso presenta, l’essere cavaliere richiede una previa consacrazione della persona e l’assistenza di Dio.
(Mario Polia, Cavalleria, una via sempre aperta, Città Ideale Edizioni)
Il Cavaliere appartiene per merito alla casta dei guerrieri che compiono il dovere per volere del Padre Celeste, non per onori personali. Ogni cavaliere è “un” Arjuna. L’uomo sulla via della cavalleria possiede un carisma particolare e una grazia speciale e riceve quella Grazia, elargita da Dio, al momento della sacra investitura.
Questo aspetto fondante quindi, si evince come perla incastonata nel cuore di una umanità che resiste ed è simbolicamente figlia di quei figli Pandu che rappresentano i pochi giusti, nell’epoca del disordine e della malvagità, quelli che con tenacia cercano di rispettare il divino ed il dovere del giusto agire, cercando di essere così come Krsna vuole. Nella Bhagavat-Gita questi giusti sono descritti in questi versi:
Il Signore Beato disse: “Assenza di paura, purificazione dell’esistenza, sviluppo del sapere spirituale, carità, controllo di sé, esecuzione dei sacrifici, studio dei Veda, austerità e semplicità, non violenza, veridicità, assenza di collera, rinuncia, serenità, avversione per la critica, compassione, assenza di cupidigia, dolcezza, modestia e ferma determinazione, vigore, perdono, forza morale, purezza, assenza di invidia, e di sete di onori - queste sono, o discendente di Bharata, le qualità spirituali degli uomini virtuosi, degli uomini di natura divina”.
(Bv Cap XVI Versi 1-3)
Krisna sceglie Arjuna per trasmettere la vera e primigenia conoscenza spirituale, lo designa, poiché l’eroe della Bhagavat-Gita, oltre a possedere le qualità sovra elencate, sa che il dovere dell’essere vivente è servire il Signore Supremo. L’ anima di Arjuna si è sottomessa a Lui, devoto e discepolo senza riserve poiché ha compreso che Krisna (Dio) è colui che dirige ogni cosa.
L’eroe viene quindi investito-abbagliato dalla divina scienza spirituale; procedimento che non ha nulla a che vedere con il metodo di apprendimento nozionistico. La consapevolezza spirituale non si basa su dato empirico ma sull’ abbandono totale e fiducioso (fede) alla conoscenza divina assoluta e perfetta. Solo nel pieno affidamento ne veniamo avvolti fino ad assorbire quella conoscenza stessa diventandone parte, ricongiungendoci al Supremo Essere, causa e agente di ogni cosa. Solo in questa forma veniamo assorbiti dalla coscienza divina. Tale è l’opera sacra che Krisna attua in Arjuna, l’eroe di pura luce.
Questa è la veste (interiore ed esteriore) che lo differenzia dagli altri eroi. Gli esseri misticamente perfetti irraggiano luce. Colui che è stato assorbito dalla divina coscienza, risplende. La vera forma di Krisna è ignea. Nel capitolo XI Versi 9-12, ne viene specificata la forma universale:
Se migliaia e migliaia di soli, insieme, si levassero nel cielo, il loro sfolgorio si avvicinerebbe forse a quello del Signore Supremo in questa forma universale.
Arjuna risplende in Lui. La sua è una trasfigurazione in uno stato superiore dell’essere, nel corpo di pura luce. Così l’eroe irraggia luce- diamante.
Il cavaliere Arjuna sprona gli uomini di ogni tempo ad impugnare un’arco-spada simbolica e reale, a salire su un auriga luminosa che spinge fino al cielo, fino al divino, ed esserne il conducente significa trascendere le contraddizioni del non-controllo- allineamento.
Sappi che il Sé è il padrone del carro ed il corpo è il carro, sappi che l’intelletto poi è l’auriga e la mente le redini. I cavalli sono i sensi, gli oggetti dei sensi sono l’arena. I saggi chiamano “colui che prova piacere” l’insieme di Sé, di sensi e di mente. Colui la cui mente è instabile, ha i sensi indocili, come un auriga che abbia cavalli bizzarri. Ma colui che possiede la ragione e ha la mente sempre presente, costui ha i sensi docili, come un auriga che abbia cavalli docili.
(Khata Upanisad, Terzo canto, Vv 3,4,5)
Il guerriero deve impegnarsi nel suo dovere perché questo lo eleverà, poiché quel dovere è volere divino. Il dovere è ordine, disciplina, discernimento. È corazza contro il mondo dei sensi che deviano dalla strada del dharma. Il sentiero è deciso da Dio. Nel non combattimento non c’è valore, nell’azione tesa all’obiettivo così come l’arco tende la freccia, c’è onore. Non si fanno speculazioni intellettuali quando si è guerrieri, si agisce per il bene supremo. Occorre quindi situarsi su altura diversa, vincendo sui malvagi e sul desiderio delle cose materiali, caduche. L’essere vivente ha infatti due scelte: servire Krisna (Dio) o subire il fascino degli elementi materiali.
Ed ora, pregno di sapienza, nell’attimo eterno che precede la battaglia tra i giusti e gli iniqui, l’esercito dei Pandava, capeggiato da Krsna e dall’arciere Arjuna, soffia fiato dentro le conchiglie. L’esercito avversario ne è terrorizzato. Il suono che si spande diffondendosi in tutte le direzioni, rappresenta la gloria del dharma! È il suono vittorioso dell'insegnamento sacro che raggiunge le differenti nature, predisposizioni e aspirazioni spirituali e che risveglia dal baratro dell'ignoranza e della sofferenza.
La Bhagavat-Gita descrive una battaglia che mette in scena l’eterno conflitto delle forze cosmiche, nonché la lotta interiore che si svolge in ognuno di noi. Arjuna è il potere della verità. Siamo chiamati ad ascoltarla, nel totale abbandono cosciente all’Uno. Così è scritto nel Brihan Naradiya Purana (3.8.126).
In quest’era di discordia e ipocrisia, il solo modo di liberarsi è cantare il santo nome del Signore. Non c’è altro modo. Non c’è altro modo. Non c’è altro modo.