So che ogni generazione ha i suoi problemi, ma oggi vorrei dire qualcosa sulla mia: parlo nello specifico di chi è nato in Italia, che oggi ha circa 30 anni e che si deve confrontare con un mercato del lavoro frenetico e stantio allo stesso tempo, così contraddittorio che spesso mette spalle al muro.
Chiunque abbia un sogno e sia nato dopo il 1989 si rende conto abbastanza rapidamente di essere carne da macello. E, come carne da macello, le tue opzioni sono fondamentalmente queste due: mimesi o martirio. Per mimesi intendo diventare, di fatto, come il tuo aguzzino.
Ci sono naturalmente delle varianti, a seconda del raggio d'azione o della capacità di mentire della persona. Diciamo che si rientra nella categoria quando, per salvare il proprio interesse, si silura un collega. O quando si esagera solo per compiacere chi è in quel momento il capo. O quando, in qualsiasi forma, si cede alla logica del: "È un mondo crudele, bisogna mangiare per non essere mangiato".
La parte più estenuante di questo processo è cercare di mantenere il mito di essere effettivamente una brava persona.
La seconda categoria è vuota, nel senso che chiunque vi appartenga ha smesso di provarci o si è suicidato. Non voglio sembrare drammatica: è, purtroppo, quello che succede.
Perdere fa male, per questo la gente non ne parla. È un istinto biologico, e certamente più che comprensibile. Il problema, però, è che non c'è dolore che non lasci traccia. Che sia individuale o collettivo, personale o di altri, ignorare questi segni non li farà sparire. Al contrario.
Il dolore, come ogni tipo di energia, ha bisogno di essere trasformato, e infatti sono qui a parlarvi perché dobbiamo parlare di perdita, e solo un perdente può farlo. Queste parole non avrebbero senso se io e le persone che le hanno ispirate fossimo persone felici oggi. E non avrebbero nemmeno senso se avessimo smesso di provarci. Ha senso solo perché abbiamo perso fino ad oggi.
È il mio canto del cigno? Un testamento? Una preghiera? Una bestemmia? Solo un atto di terapia?
Per quanto ne so, è soprattutto l'unica cosa che mi è venuta in mente. Che, tra l'altro, non è nemmeno venuto in mente a me.
Perché sto parlando? Per creare una terza categoria, quella di coloro che hanno perso ma non sono sconfitti. Che differenza c'è, direte voi? Apparentemente, nessuna. Ma ne La nobiltà della sconfitta Ivan Morris fornisce una definizione interessante dello sconfitto:
L'uomo la cui profonda onestà vieta le operazioni e i compromessi così spesso necessari per la gloria terrena. [...] Gettandosi nel suo doloroso destino egli sfida i dettami della convenzione e del buon senso fino al momento estremo in cui viene sconfitto dal suo nemico.
La sconfitta diventa così una prova di innocenza, capace di suscitare il rispetto di "quegli uomini che non possono o non vogliono inchinarsi davanti alla divinità degradata del successo". Parlo dunque come un atto di resistenza. La resistenza definisce coloro che stanno perdendo ma non si sono arresi. Vogliamo vincere come diciamo noi. Ecco perché perdiamo miseramente.
Potrebbe non essere un lieto fine. Ma non è nemmeno una fine.