Venite pure avanti, voi con il naso corto Signori imbellettati, io più non vi sopporto.

(Francesco Guccini – “Cirano”)

L’ascensore non arriva e ho intrattenuto quanto basta la cliente. Stretta di mano morbida. Otto piani. Scendo scale a piedi. Periodo natalizio, porte con ghirlanda. Nomi di famiglia ricamati tra muschio e palline, finta neve su piccole pigne, alberelli grassi e qualche abete che era vivo, nonostante siano passati pochi giorni dalle feste.

Alle mie spalle piazza Immacolata, con Madonna centrale. Una colonna esile ne esalta la verticalità. Inizio la salita, senza fretta.

Penso che, ultimamente, mi sveglio con versi in rima. Prendo il cellulare e appunto. Pagine che raccontano e di cui mi vergogno.

Oggi piove e sembra non accennare a smettere. É una giornata umida e fredda e dormirei se potessi. Stringendo braccia al petto, non riesco a scaldarmi.

Cammino e rimugino sul fatto che gli altri fingano di accettarmi. Puntellano presunzione, lavorano sull’istintiva prospettiva di cambiarmi. Nessun disaccordo, confronto, reale interesse ma, faticosa ricerca di affinità compagna, nella disperazione dell’inevitabile. Presunzione antica in cui rappresento un maggioritario riflesso. Immagine di uno su altro, falsa somiglianza a breve termine, preludio d’incomprensione. Non voglio dovermi spiegare. Mi limito ad essere, concedendo una visuale poco nitida.

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole
ed è subito sera.

(Salvatore Quasimodo – “Ed è subito sera”)

Guardo calzini sul pavimento, tazzina di caffè su radiatore, carte di cioccolatini su bracciolo di divano e accetto che sia tu. Se i calzini non fossero sul pavimento, la tazzina non sul radiatore e le carte neppure sul bracciolo, sarei io.

Cammino e mi chiedo se essere diversi sarebbe meno solitario se differenze fossero risorsa. Al mattino penso in rima e subito mi preoccupo. Penso che qualcosa in me non vada. Mi presumo sbagliata. Chiedo a lui, a lei, nella disperata ricerca di comunione, faccio quello che farebbe chiunque, per pochi secondi, poi scrollo il pensiero, e accetto.

Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato
Spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato (…)
Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali
Tornate a casa nani, levatevi davanti Per la mia rabbia enorme mi servono giganti
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco.

(Francesco Guccini – “Cirano”)

Rallento e mi specchio in una vetrina, dove un oggetto mi ricorda il Natale di un inverno passato.

Un inverno caldo.

Era il giorno in cui si fa l’albero. C’erano diciannove gradi, un sole tiepido. La mia vita nel duemila dieci era stata una schifezza. Laura e Santi si erano lasciati, Salvatore si era ammalato di cancro, avevo confermato che significhi essere soli.

La sera scendeva. Ancora una ventina di gradi. La luce si era fatta grigia. La pioggia, venuta giù per poco, aveva portato aria umida di temporali estivi. Era il giorno dell’albero di Natale ma, non lo sembrava affatto. Di lì a poco avrei dovuto accendere la luce e smettere di negare che ero giù di morale.

Natale era arrivato. La vigilia, da sola, già mi immaginavo a contemplare balconi di vicini, con luci intermittenti e alberi intravisti negli interni, di parenti urlanti. Zii escono a fumare, nipoti li raggiungono per un po’ di fresco, guance paonazze ove delusioni e dolore ancora non hanno lasciato traccia. Piccoli piedi, in piccole scarpe, su balconate, per guardare giù, quando da poco distante, una voce stridula, intima ritirata. Diretto all’interno della casa, ormai la combinazione di odore cibo-nonni ha infettato l’ambiente. La cugina, con troppo profumo, disturba. Un appuntamento, dopo cena. Non immagina che, si lasceranno. Gli ha comprato un regalo, e quando il rossetto si sarà sciolto sotto il calore dei baci di lui, glielo darà e lui l’amerà di più. Dalla cucina, olezzo di cibi pesanti e bollenti si fa forte. Vorresti un posto tuo. Il bagno, salvezza. Isola che ne ha vista di pioggia cadere, tra lacrime e piscio. Il nonno si assesta sulla poltrona, sulla quale resterà sino alla frase “è pronto a tavola”. Bussano alla porta.

“La pasta sarà buona. Non troppo cotta.”
Gli ultimi, frettolosi si levano i cappotti.
“Non sarò troppo elegante. È il vestito giusto.”
Si scrollano le ultime gocce di pioggia.
“Gli ombrelli fuori la porta!”
Qualche figlio scusa la madre, e sono tutti a tavola.
Mi sarei persa il Natale.

Mi veniva in mente: “Should I kill myself, or have a cup of coffee?