È sempre bene lasciare un messaggio prima di essere “vaporizzati”. Potrebbe infatti restare deluso chi attende la dissolvenza del mondo mediante catastrofi riconoscibili, che siano roboanti crepature del terreno, collisioni meteoritiche o asfissie della Terra per gli scarti di Homo demens.
L’evento che chiamiamo “apocalisse” potrebbe arrivare silente insieme al trapasso del linguaggio, il cui decesso non conclamato, ma solo perpetrato nell’adesso, renderebbe impossibile il suo riconoscimento. Una “fine” cioè potrebbe non arrivare mai, perché già qui, mentre nessuno l’attende nei luoghi deputati al controllo del linguaggio.
Nel mondo distopico di 1984 di George Orwell, dove la “fine del mondo” è una responsabilità del tutto umana, Syme è un filologo “ortodosso” che lavora per la compilazione dell’Undicesima edizione del dizionario della Neolingua o Newspeak, la lingua che va realizzando ed imponendo l’unico Partito al potere, l’Ingsoc.
La caratteristica principale della compilazione del dizionario è che ogni sforzo da parte di esperti come Syme è volto non all’ampliamento del numero delle parole, come si potrebbe credere, bensì alla loro sempre più drastica riduzione.
La contrazione del lessico, afferma entusiasticamente il filologo, porterà in breve tempo alla necessaria e favolosa riduzione del pensiero e della coscienza. Gli individui non dovranno così più sforzarsi di “pensare” e ciò in ragione del fatto che il Partito, nella sua poderosa e generosa efficienza, permetterà loro di non sentirne più semplicemente il “bisogno”.
Che cosa sia la Neolingua è facile capirlo grazie all’oppositrice da debellare: l’Archelingua o Oldspeak. Quest’ultima reca infatti ancora termini “opposti”, oppure sinonimi che esprimono significati “vaghi”, accostabili ad altri ma non identici a causa delle loro inutili “sfumature” di senso.
La bellezza della Neolingua, a detta di Syme, è che conterrà solo parole in grado di esprimere significati “esatti” che non potranno dare adito a pensieri affini, accostabili, indefiniti, cioè discutibili e complessi. Lo scarto tra parola e cosa sarà così finalmente eliminato, nel senso che rimarrà solo la parola e con questa l’espressione della “sola cosa” che l’Ingsoc ha stabilito avere diritto di esistere. D’altronde, questa la grande scoperta del Partito, può essere pensato solo ciò che può essere detto.
Non ci sarà più quindi la necessità di avere uno o più vocaboli per esprimere il contrario di “buono”, come “cattivo”, ad esempio. Sarà sufficiente far precedere la parola “buono” da un prefisso negativo, ed ecco che l’aggettivo “sbuono” (“ungood”) supplirà tutti gli inutili aggettivi “contrari”.
La grammatica della Neolingua sarà inoltre “semplificata”. Per amore dei parlanti naturalmente. Le diverse parti del discorso diventeranno intercambiabili. Qualsiasi parola potrà, cioè, essere usata indifferentemente come verbo, nome, aggettivo o avverbio, e per rendere la vita ancora più facile sarà semplificata anche la pronuncia.
Per sopprimere tutte le inutili varianti e sfumature presenti nell’Archelingua si ricorrerà a lunghe parafrasi. Del resto, “tutta la letteratura del passato sarà distrutta”. Le opere di Chaucer, Shakespeare, Milton e Byron esisteranno solo nella versione in Neolingua. Saranno, cioè, non semplicemente mutate in qualcosa di diverso, ma saranno trasformate in qualcosa di “opposto” a quello che erano all’origine.
Orwell giunge quindi ad affermare che “l’ortodossia”, che egli descrive così bene come insieme di processi di dominio del linguaggio connesso al pensiero, “nel senso più pieno del termine richiede un controllo completo dei propri processi mentali, simile a quello che un contorsionista ha del proprio corpo”.
Ebbene, in quella letteratura del passato ad opera di filosofi, poeti, giuristi, uomini di scienza che, ahimè, come paventava il grande scrittore britannico, sarà - perché già è - archiviata e sfigurata a favore di qualcosa di diverso purché accettabile dall’ortodossia dominante, il corpo del testo scritto o verbale, alla lettera il corpus, era stato sapientemente accostato al corpo anatomico umano, così come al corpo dello Stato e della Città, poiché tutti ritenuti misteriosi depositari degli stessi processi di azione.
Oggi sappiamo, grazie all’avanzamento nelle scienze cognitive, che molte migliaia di anni fa il linguaggio verbale ha preso ad un certo punto a “vampirizzare” le aree cerebrali che in Sapiens erano anticamente deputate al movimento. Tra corpo e parola esiste dunque un legame inscindibile e per lo più ancora sottostimato dall’automatismo dualista della cultura in cui siamo immersi e a cui oggi cerca di porre riparo il concetto di embodied mind, la mente “incarnata”.
Non a caso le ferite alla libertà del pensiero e del linguaggio dei personaggi di 1984 si incarnano sui loro volti, sui loro corpi, sulla loro laringe. Così il Partito, con il suo potere ipnotico, ha congelato (frozen) il corpo di Katharine che si offre con desolante automatismo al marito, il protagonista Winston Smith. Il piacere individuale non è infatti più concesso per legge. Anche il corpo è diventato muto. Il linguaggio è corpo.
Tra i reati più gravi c’è quindi il “voltoreato”. Il volto non deve mai tradire emozioni dissidenti rispetto alla versione dominante offerta dai “cinegiornali”. La maggior parte degli individui perciò non “parla” più nel senso pieno del termine. Semplicemente, esprimendosi in Neolingua, emette meccanicamente rumori mediante la laringe, producendo da un lato un suono simile allo starnazzare di un’anatra e compiacendo dall’altro il bipensiero o doublethinking.
Quest’ultimo, che si configura come un processo di connessione illogica di due enunciati, fa in modo che gli individui, in ragione dell’autorità del Partito e attraverso il brainwashing dei cinegiornali, siano ormai divenuti assuefatti a subire e quindi ad “affermare, con la massima impudenza e a dispetto dell’evidenza, che il nero è bianco”. E, come Orwell ci spiega, l’abitudine ad affermare che una cosa coincide con il suo contrario finisce con il diventare abitudine a credere e in ultimo a sapere che una cosa è il suo contrario. Il linguaggio è consapevolezza.
Di questa reductio ad unum del pensiero e del linguaggio, nella sua declinazione perversa in cui tutte le possibilità articolatorie connesse alla coscienza e alle sue manifestazioni linguistiche sono asservite al compiacimento ipnotico di un’auctoritas, si trova traccia anche nella corrente deriva dei sistemi di istruzione e di comunicazione. In modi innumerevoli e soprattutto insospettati.
Attraverso le deforestazioni di parole che falciamo a mazzi dalle loro “radici” mediante programmi che liquidano lo studio delle lingue antiche con un: “A che serve?”. Portando quindi i giovani a guardare alberi abbattuti che con insipienza ci ostiniamo ancora a chiamare foresta. Attraverso le mappe iper-semplificate in cui offriamo il miraggio del “semplice” vendendo l’illusione per la quale la meta non ha alcun bisogno del viaggio. Attraverso la contrazione della coscienza mediante l’invito a sfoltire il pensiero riducendone le dimensioni pur di farlo entrare nella casella di una risposta multipla come si fa con un bagaglio low-cost. Attraverso le nostre trame in breve, le edizioni senza testo a fronte, le letture in parafrasi, le comprensioni del testo in cui spacciamo per conoscenza del corpo quella che altro non è se non autopsia su cadavere. Attraverso manuali che assottigliamo sempre di più scambiando per riflessione quanto invece è slogan e per i quali riassumere significa omettere.
E di fronte alla riduzione che avanza con il suo ghigno facilitatore non resta che invocare un plotone di filologi “eterodossi” capaci di accorrere per una nuova rivoluzione. Che riuniscano il corpo alla mente, l’opera all’autore, le parole alle cose. Che salvino i libri da una fine che non arriva perché è sempre qui, costantemente tra noi.
Ed è per questo che possiamo batterla sul tempo.