Si ritiene comunemente che le stragi della destra eversiva nel corso della strategia della tensione e i crimini compiuti dal brigatismo rosso, che hanno caratterizzato l’intero decennio degli anni ’70, anni non a caso definiti “anni di piombo”, siano stati fenomeni eversivi e criminali nati spontaneamente nel nostro Paese, come reazione alle spinte di cambiamento politico del Paese, a seguito delle lotte studentesche del 1968 e delle manifestazioni sindacali del 1969. La posizione geopolitica dell’Italia nell’epoca della guerra fredda era quella di confine a ridosso dei Paesi dell’Est europeo, caratterizzata inoltre dalla presenza del più forte partito comunista dell’Europa occidentale. Quest’ultimo, protagonista della Resistenza contro la presenza nazi-fascista in Italia dal 1943 al 1947, aveva avuto un ruolo fondamentale nell’Assemblea Costituente per la formazione della Costituzione e della vittoria nel referendum abrogativo della monarchia sabauda.
La netta vittoria della DC alle elezioni politiche del 18 aprile del 1948, determinò l’inizio della cosiddetta “conventio ad escludendum” del PCI, nonostante la sua forza elettorale che giunse a pervenire a metà degli anni ’70 al 35% del corpo elettorale ed il suo rigoroso rifiuto di ogni proposito eversivo. Tuttavia le esigenze di avviare un programma di riforme resero necessario allargare la maggioranza governativa al Partito Socialista già nella primavera del 1963. Decisione questa che non mancò di provocare nervosismo a livello atlantico, per il timore che la presenza al governo del PSI potesse costituire il cavallo di Troia per il successivo ingresso anche del PCI.
Nei primi anni ’70, anche a seguito del fallimento dell’esperienza cilena di Salvator Allende, il PCI abbandonò l’ipotesi di un governo a sua guida, anche in caso di conseguimento di vittoria elettorale, per ricercare il “compromesso storico”. Vale a dire la necessità della collaborazione e dell’accordo fra le forze popolari di ispirazione comunista e socialista con quelle di ispirazione cattolico-democratica, al fine di dar vita a uno schieramento politico capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato sulla base di un consenso di massa tanto ampio da poter resistere ad eventuali tentazioni di restaurazione conservatrice. Protagonisti di questo accordo furono il segretario del PCI Enrico Berlinguer (previa netta presa di distanza dal regime comunista dell’Unione sovietica,) e l’on. Aldo Moro, uomo politico di spicco della DC. Nel clima di Guerra Fredda dell’epoca, tale progetto fu fortemente avversato dal governo americano, che non mancò di esprimere il proprio radicale dissenso, al pari della NATO. La frase citata nel titolo venne pronunciata dal segretario di stato Henri Kissinger, durante la presidenza di Ronald Reagan, nel corso della visita ufficiale che l’on. Moro, quale Ministro degli Esteri, compì negli USA nel 1974.
“Lei la pagherà cara” non aveva solo un forte significato intimidatorio, ma annunciava con chiarezza la forza della reazione che la scelta di proseguire sulla strada del compromesso storico avrebbe determinato non solo a livello politico ma anche personale e diretto nei confronti dell’uomo politico che la perseguiva. Una vera e propria anticipazione di una condanna senza condizioni. Sembra di leggere il brano dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, quando i bravi di don Rodrigo minacciano il pavido don Abbondio con le parole: “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Una dimostrazione di forza del più potente Stato del mondo e nel contempo il richiamo alla situazione di dipendenza dello Stato italiano, considerato poco più di una colonia. Strumenti di controllo furono quelli della CIA, che aveva a Roma la più importante stazione dell’intera Europa, insieme a quelli della Chiesa cattolica, attestata saldamente contro l’ateismo bolscevico, e della Mafia, esattamente le forze che già alla fine della Seconda guerra mondiale avevamo composto la Santissima Trinità, insieme ai servizi alleati. Va richiamata a questo proposito la frase che l’agente CIA Victor Marchetti ebbe a pronunziare nel 1949: “La mafia, per il suo carattere anticomunista è uno degli elementi che la CIA usa per controllare l’Italia”. Successivamente, il quotidiano inglese L’Observer del 10 gennaio del 1993, riferiva che “dopo la guerra la CIA fu lieta di mantenere rapporti segreti con la mafia siciliana e in nome della lotta al comunismo in Italia e in Sicilia, gli americani abbandonarono di fatto l’isola al governo della criminalità che tuttora persiste”.
Prima di passare al caso Moro, è necessario ricordare come siano ancora non del tutto chiari non solo la dinamica e le modalità della strage di via Fani del 16 marzo del 1976 e del sequestro dell’uomo politico, ma le motivazioni interne ed esterne di quella vicenda. Resta ormai esclusa la possibilità che tutto si riducesse all’iniziativa delle BR, la cui estinzione coincise di fatto con l’uccisione dello statista. Restarono a lungo avvolte dal mistero le effettive motivazioni di quell’impresa criminale, i partecipanti, gli ispiratori, gli appoggi esterni, inspiegabile inoltre la disponibilità che avevano le BR di mezzi economici, di autovetture, persino di un elicottero, di appartamenti a Fregene e in altre località del litorale laziale. Su tali aspetti i processi (ben cinque anche se il primo e il secondo furono unificati) non hanno raggiunto risultati soddisfacenti, e, in conclusione la giustizia ha finito con l’adagiarsi sulla “verità” offerta dagli stessi brigatisti con il memoriale del duo Morucci-Faranda, alla cui redazione partecipò il giornalista democristiano Remigio Cavedon. Sergio Flamigni, il senatore del PCI, che ha dedicato la sua lunga attività allo studio ed alla ricerca di tutti gli aspetti del caso Moro, ha definito quel memoriale il “patto di omertà” con il quale le menzogne e le reticenze di quel documento sono divenute verità di Stato. In particolare, veniva accuratamente occultata la matrice atlantica dell’operazione Moro. Il diktat di Kissinger venne attuato con l’adesione incondizionato dello Stato italiano, dei suoi apparati di sicurezza, dei suoi governanti, che hanno sovrinteso alla sua pianificazione, organizzazione ed esecuzione. I sedicenti “brigatisti”, così almeno i loro registi dei piani superiori, offrirono solo una copertura politica, quando non erano essi stessi una creatura dei servizi. Moro, pertanto, non aveva alcuna possibilità di essere liberato essendo destinato in partenza ad essere ucciso, non foss’altro perché, se liberato, avrebbe potuto dare notizie utili per conoscere chi aveva dato il suggerimento di passare da via Fani quella mattina, la ricostruzione dell’eccidio della scorta, quali erano stati i luoghi della sua prigionia.
A rafforzare la convinzione di una regia superiore sta inoltre il fatto che quella mattina, in via Fani vi erano delle presenze che danno la certezza della pregressa conoscenza di ciò che sarebbe accaduto. Era presente il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio nella VII Divisione del SISMI, nonché istruttore presso la base Gladio di Capo Marrangiu. Alla richiesta di spiegare il motivo della sua presenza riferì, con raro sprezzo del ridicolo, che era stato invitato a pranzo da un amico, abitante nei pressi di quella piazza, e precisamente da un collega, il Colonello D'Ambrosio, il quale, smentì di esservi mai stato un invito a pranzo; menzogna che finisce per convalidare la sua pregressa conoscenza del sequestro, della data, dell’ora e della località in cui sarebbe avvenuto, proprio per la sua appartenenza al SISMI.
I servizi segreti non furono i soli ad essere tempestivamente informati. In un verbale dell’8 settembre 2016, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, dichiarò davanti al magistrato Guido Salvini e al tenente colonnello Massimo Giraudo: “Rocco Musolino, [noto esponente della ‘ndrangheta calabrese], mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato, capo della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”. Accertata anche la presenza di un appartenente alla ‘ndrangheta, Antonio Nirta, esponente di spicco della omonima cosca di San Luca (RC). La sua presenza venne riferita nel 1993, ai magistrati della procura di Milano dal collaboratore di giustizia Saverio Morabito. Resta da capire come e da chi il Nirta, presente alla scena non certo a caso, fosse stato informato di quello che sarebbe avvenuto e questo sia se vi fosse andato di sua volontà, sia se vi fosse stato inviato dal colonnello Delfino, di cui era confidente.
Il rebus della presenza di Nirta sulla scena di via Fani tornò prepotentemente alla ribalta il 21 gennaio del 2016, a quasi trentotto anni di distanza dal fatidico 16 marzo del 1978, quando il quotidiano Il Messaggero pubblicò una vecchia foto, della quale si erano perse le tracce, scattata poco dopo la strage dei cinque uomini di scorta dell’on. Moro, nella quale si vede con sufficiente chiarezza un uomo, dai capelli scuri, folti e ricci, intento a fumare e ad osservare la scena con aria indifferente in posizione sopraelevata rispetto al piano stradale. L’immagine dell’uomo appare cerchiata di rosso e il giornale indica in Antonio Nirta l’uomo ritratto nella foto. L’identità dell’uomo venne in seguito confermata da altri elementi probatori e da accertamenti tecnici eseguiti dal RIS dei Carabinieri.
Del tutto fuorviante deve infine definirsi la possibilità, a sequestro avvenuto, di una trattativa (che gli apparati statali che avevano presieduto al sequestro avrebbero dovuto condurre con sé stessi). Altrettanto fuorviante è la richiesta del pontefice Paolo VI rivolta agli uomini delle Brigate Rosse, di liberare l’ostaggio “senza condizioni”, invito non privo di ambiguità potendosi intendere come un rifiuto a stabilire una trattativa di carattere economico… (si era parlato infatti di una ingente somma di denaro, 4 o 5 miliardi di lire, che la Santa Sede sarebbe stata disposta a consegnare per la liberazione dell’ostaggio). Ancora più ambiguo il ruolo di Steve Pieczenik, lo psichiatra inviato dagli Stati Uniti, come esperto nelle trattative e per la liberazione di ostaggi, il quale, nel libro Nous avons tué Aldo Moro, ammette pacificamente che il suo compito era quello di far fallire la trattativa per non lasciare ai sequestratori altra scelta se non l’uccisione del loro prigioniero. Una vittoria facile, quella di Pieczenik, dal momento che c’era assai poco da trattare visto che al sequestro dovesse necessariamente seguire la morte era già stato deciso in partenza. Moro doveva morire!
Sfuggì agli osservatori del tempo la continuità sostanziale della stagione terroristica attuata tra il 1969 ed il 1974 dalla destra eversiva di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, e quella delle BR. La prima ebbe il compito di compiere stragi da attribuire alla sinistra (all’interno della quale collocare la falsa pista anarchica), la seconda di proseguire in quel compito, cui contribuì Rossana Rossanda, quando a proposito delle BR affermò che facevano parte “dell’album di famiglia”.
In conclusione, i retroterra del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro entrano a pieno titolo a far parte del fondo oscuro e melmoso della Repubblica, espressione dell’eversione atlantica che ha investito il nostro Paese negli anni della strategia della tensione. Un vero e proprio doppio-Stato, all’interno del quale sono maturate tutte le tragedie di fine secolo scorso da quelle della strategia della tensione al sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Da allora può dirsi concluso, o comunque interrotto, il percorso del progetto democratico-costituzionale, dopo il quale intervenne una fase di “deriva della democrazia”, fatta di governi a forte componente personale, come il craxismo e il berlusconismo. Inizia una fase di declino civile e politico del Paese, durata quasi un ventennio, caratterizzata dalle stragi del ’92 di Capaci e di via d’Amelio e da quelle del 1993 sul continente. Cosa Nostra voleva riprendere il suo tradizionale ruolo di partner privilegiato del potere economico e politico del Paese, non più attraverso il dialogo ma con la violenza stragista. Lo scopo finale della mafia, come dichiarato dal collaboratore Leonardo Messina alla Commissione Antimafia nel dicembre del 1993, era quella di “farsi Stato”. L’avvento dei partiti populisti e sovranisti segna attualmente una ulteriore svolta che rende attuale una nuova minaccia per la democrazia italiana.