La Luna è una severa maestra titolava lo scrittore Robert A. Heinlein nel 1965. Forse è severa, di sicuro è una maestra (ma non sembra che abbia voglia di insegnare) tanto che quando, oltre un secolo fa, si beccò nell’occhio destro una navicella spaziale lanciata maldestramente dai terrestri sussultò di sorpresa e irritazione per presto recuperare l’atteggiamento abituale. Maestosa e imperscrutabile in eterno, pur con il proiettile conficcato nella faccia, grazie al ritratto che le fece in Le Voyage dans la Lune (1902) Georges Méliès che, da cineasta maestro di illusioni quale fu, ebbe con lei un colloquio preferenziale.

Quella di Méliès è una delle lune che splendono nel cielo di Franco Piersanti. Delle altre non sappiamo: il musicista le custodisce nel suo firmamento privato, ma, come vedremo - e vedremo pure della sua ‘amicizia’ di lunga data con Méliès - qualche volta lascia che appaiano.

La Roma natale ha risparmiato a Piersanti il sussiego e l’auto-celebrazione che non fa capolino nemmeno sotto mentite spoglie, come a volte succede ad artisti accorti che, pur consapevoli dell’eleganza di tenerla a bada, si tradiscono.

È compositore di molta musica che ci gira intorno dalla metà degli anni Settanta, di decine e decine di colonne sonore per i film di Moretti, Olmi, Lizzani, Bertolucci, Amelio, von Trotta, Mazzacurati, Crialese, Giordana e una miriade di altri, per la serie televisiva Il Commissario Montalbano di Sironi tratta dai romanzi di Camilleri e, come questi, fortunatissima (scorrere la lista delle locandine di Piersanti è un’immersione, consigliata, nel buio di una sala cinematografica aperta da un quarantennio).

Renata Scognamiglio, musicologa e collaboratrice di Radio3 ce lo descrive: “Autore curioso e coerente, capace di sfoderare ironia tagliente e angolosità stravinskijane quanto di sciogliersi in un lirismo misurato, malinconico e disarmante, Piersanti si è distinto per un idioma personale ed evocativo, fatto di mezze tinte, preziosismi costruttivi e suggestioni timbriche, che da una parte lasciano trasparire l’eredità (decantata) del Novecento storico, dall’altra attingono al vasto patrimonio delle musiche del Mediterraneo”.

Io sono un autarchico (1976) di Nanni Moretti è stato il tuo primo film?

Sì, il mio debutto con le immagini. Avevo finito il Conservatorio nel ‘74-’75 e, pur con l’intenzione di scrivere musica, non sapevo che cosa significasse fare il compositore e vivere di quello. Avevo vissuto in maniera un po’ così (erano tempi diversi), suonando in orchestra il contrabbasso, scribacchiando per il teatro, ma senza centrare bene la faccenda, lavorando per la RAI in maniera saltuaria.

Io sono un autarchico mi ha messo in contatto con un futuro ancora molto in là da venire. Era il ’75 quando ci siamo conosciuti con Nanni. All’epoca insegnavo e pensavo... Guarda, non so neanche quello che pensavo: ti ritrovi nelle cose. Io, almeno, non ho mai avuto un obiettivo preciso da seguire: sono capitato nel cinema, mi è piaciuto ed evidentemente mi ci sono riconosciuto.

Ci è voluto tempo perché l’orizzonte si definisse?

Stiamo parlando di anni: dal ‘75 all’85. Dieci anni per maturare un’idea di lavoro, per conoscere persone che mi hanno fatto capire che incontri significativi potevano dare un senso allo scrivere musica per il cinema. Con Nanni abbiamo fatto altri due, tre film; c’è stato l’incontro con Gianni Amelio e anche il teatro è diventato più importante. A quel punto, lasciando l’insegnamento e buttandomi in questa avventura, devo dire che ho provato il dualismo dei compositori che hanno scritto musica su commissione. Tanti, ma proprio tanti, hanno avuto sempre il conflitto, più o meno pronunciato, fra l’essere musicisti tout-court, che poi è un concetto astratto, e scrivere musica applicata al cinema.

Tutti quanti hanno pensato al cinema come un ripiego, invece non lo è, tant’è vero che arriviamo all’altezza di esperienza e alla genialità di Ennio Morricone. Venendo da un’educazione molto accademica, anche lui negli anni Cinquanta credeva ci fosse la musica assoluta e l’altra, ma alla fine ha detto che la musica per il cinema è "tutta" la musica. Eppure, troppi hanno patito la doppia veste che poi era quella per cui mangiavano.

Anche i sommi degli anni Trenta, Quaranta.

La musica in generale è quasi tutta nata su commissione.

Come tanta pittura.

[Sorride] È la celebrazione della committenza.

Averne di committenze, no?

Averne! Si apprezzano anche le committenze di tipo più “scacio”. Diventa un gioco molto divertente far coincidere le due voci con la stessa qualità. Io quello che ho scritto per il cinema alla fin fine me lo ritrovo per una sala da concerto. Diversamente strutturato, ovvio, però ho cercato sempre di portare dentro l’immagine l’intelligenza e l’ispirazione che avevo nella musica assoluta. Certo, c’è stata la discreta fortuna di incontrare registi che lo hanno permesso.

Se guardi indietro c’è una tua musica da film che ti è particolarmente vicina?

No, tutti i film che ho avuto l’occasione di fare li ho fatti volentieri. Sono parecchi i film ai quali sono legato e che mi ricordo benissimo, ma ogni film ha significato la volontà di lasciare un segno né più né meno di quando scrivo fuori dalle immagini.

Ad esempio, ho composto per film in costume dove la musica non era così giusta e allora si doveva cambiare la prospettiva: spiazzare è l’aspetto più interessante. In questi scatti ritrovo l’interesse ed evito di cadere nella routine di una scrittura. Penso anche al livello diverso di cinema e televisione. In televisione è sempre richiesta una maggior semplicità di linguaggio perché la produzione teme molto la fuga dello spettatore, quindi, cerca di essere comprensibile. Lo sperimentalismo è una lingua difficile da parlare in TV. Con delle eccezioni. Montalbano per me è stato proprio la sfida vinta: la ricchezza di un linguaggio televisivo in un panorama che si andava sempre più impoverendo. E questo grazie al regista Sironi e, soprattutto, alla verticalità di scrittura di Camilleri che accoglie le mie idee.

Altri lavori televisivi non hanno fatto storia, per quello che mi riguarda, perché la mia era solo una partecipazione superficiale.

C’è un Piersanti, sempre lo stesso, che si dedica a scultura e pittura. Nel catalogo della mostra Planetario segreto. Opere in latta cartapesta e smalto (dicembre 2017-gennaio 2018) colpisce una tua frase: “Quando scrivo musica, lavoro con il pensiero e l’orecchio. Lavorare con le mani e con gli occhi mi porta da un’altra parte, dove dissonanza, tonalità, melodia e ritmo assumono aspetti diversi. Entrambe queste attività sento che mi proteggono”.

In una realtà sempre più cinica, sempre più difficile da vivere, dove devi districarti per capire quali sono le vere intenzioni di quello che ti sta parlando, di quello che ti ha parlato, a me sembra che l’Arte, pur nelle sue contraddizioni e perfino nelle sue menzogne, sia espressione soltanto di bene. Quindi sentirmi in questo ambiente è fondamentale e determina la responsabilità sull’autenticità di ciò che devo fare. Io non posso fare una cosa tanto per fare. Ci sarà il mestiere, sì, ma c’è la fede totale e il rispetto delle persone che so che sentiranno o guarderanno.

Queste sculturine, questi Teatri del sonno hanno occupato nel tempo un posto sempre maggiore nella mia vita. All’inizio era come un gioco e potevo fare quello che mi pareva perché non li vedeva nessuno, era lontano dallo scrivere la musica e sapere di essere sottoposti a un giudizio estetico, poetico, dei critici e del pubblico. Poi ho cominciato a farne tante, con tecniche sempre più acquisite, non con lo studio ma seguendo ciò che mi interessava, e mi sono reso conto che era inevitabile metterle assieme fisicamente: la musica accanto anche soltanto a un foglio con degli acquerelli.

Dal progetto iniziale per un’opera tradizionale, seppure con una visione contemporanea di struttura, di organico, di linguaggio, sono arrivato a un’opera fatta con delle proiezioni di cose mie, che animo, che sono in relazione con il palcoscenico, che hanno a che fare con il cinema e, soprattutto, create dalla musica.

S’intitola?

Al momento, e non credo che cambierò, A Georges Méliès, mago e cineasta. Ho cominciato, mi vergogno a dirlo, vent’anni fa. In vent’anni Wagner ha scritto la Tetralogia e io ancora sto lì con un’operina che doveva durare un’ora e un quarto, ma ho patito molto per il libretto.

Non sei tedesco…

[Ride] Soprattutto non sono Wagner. Più di vent’anni per un’opera con due, tre personaggi. È una vicenda inventata su Méliès: un’idea mia, un’idea folle che però mi è piaciuta tanto. E sono andato avanti e si è trasformata perché son cambiato io. Soltanto cinque anni fa non avrei mai potuto disegnare la figura di Méliès né animarla.

L’hai finita?

Penso di essere agli sgoccioli. Nel marzo del 2020 dovevo presentarne quindici minuti ed è stato sospeso il concerto. Dentro di me ho detto: vedi, posso continuare a lavorarci.

Una limatina ancora.

Esattamente! Dopo che me la sono portata avanti per vent’anni che faccio?

Ora che hai svelato il Planetario segreto che sfuggiva al giudizio altrui, hai un altro luogo, nuovo, dove nessuno può guardare?

Questa è una bella domanda. Un racconto dice che bisogna sempre avere un segreto che nessuno conosce. Ce l’ho, sì. Ma può essere anche uno spostamento millimetrico di qualche cosa che già esiste.

C’era un maestro di lacca cinese che era ricercatissimo finché l’imperatore non lo obbligò a rivelare il segreto della sua lacca. Andava a laccare in mezzo a un lago con certe condizioni atmosferiche e questo era il suo segreto. Una volta scoperto, non realizzò più niente per anni.

Stai laccando qualcosa, ma non ce lo dici.

Sai, quello che fai a un certo punto credo valga soltanto per te. Ci sono cose destinate a non essere esibite.

Non è che le facessi di nascosto, semplicemente non le mostravo, ma sono diventate così tante e le persone che venivano a casa le vedevano, mi chiedevano. Io non gli davo importanza perché anche con la musica mi sono sempre schermito.

L’idea di entrare nella Storia non ce l’ho mai avuta. Anzi, il fatto di comporre musica su commissione a me piace perché mi fa stare con i piedi per terra. So che serve, soprattutto che mi fa guadagnare per vivere e quindi questi affari pratici sono benedetti. Se la mia musica la vogliono tagliare con un pezzo di pizza, facessero pure. Non starò a far storie né con i legali né con l’anima.

È una libertà non desiderare l’ingresso nella Storia?

Non lo so, se è una libertà. So che ho sempre pensato così. D’altro canto, forse a differenza di tanti che ho conosciuto, che conosco e che fanno lo stesso mestiere, la musica per il cinema è stata una parte che riconoscevo in me. Ha a che fare anche con una sorta di pigrizia nell’approfondimento di un lavoro: so di avere delle buone idee però per far diventare una cattedrale quella buona idea ce ne vuole. Io non ho quella capacità. Mi accontento di avere la buona idea e di riuscire a usarla, perché fortunatamente le mie idee non restano nel cassetto. Sai, fare il compositore e avere tutto quello che scrivi realizzato ed eseguito mica è una cosa da poco.

Quando ancora scribacchiavo senza pensarci troppo, vedendo i musicisti già inseriti nella professione, davo per scontato che il destino del compositore fosse quello di scrivere senza ascoltare mai la propria musica. Suonavo il contrabbasso nel complesso di musica da camera I solisti aquilani che aveva molto repertorio contemporaneo. Parlo dei primi anni ’70, il momento della ‘musica moderna’, come si chiamava allora, che ti faceva vedere i sorci verdi, e ricordo che i compositori venivano da noi con l’affanno, i rossori perché un pezzo eseguito a un concerto era come la festa di San Gennaro a Napoli.

Perciò a te è andata bene.

È andata molto bene!

Un film degli anni Trenta o Quaranta con una musica bellissima?

Citizen Kane. Bernard Herrmann è il nome assoluto fra i musicisti che hanno lavorato per il cinema: è stato il compositore di Hitchcock per sette, otto film, tra i quali Vertigo, Psycho, Intrigo internazionale. È uno che ha sofferto molto della dualità della quale parlavamo poco fa. Lo so perché ho letto tanto della sua vita: mi interessava come musicista e come figura, ho scritto anche un saggio su di lui per un convegno. Era l’incarnazione dell’amarezza del compositore di musica per il cinema, diceva: “Hollywood mi ha rubato l’anima” e l’unico quartetto per archi che ha composto al di fuori del cinema s’intitola Echi dove ci sono il perduto amore e le perdute occasioni, anche perché questa grande, eccezionale epopea vissuta con Hitchcock si è conclusa malissimo. Il regista gli disse che non serviva più la sua musica alla Strauss, musica potente, non soltanto fonicamente, perché Herrmann andava davvero nel profondo e ha scritto partiture straordinarie sul piano sinfonico: la cantata Moby Dick, credo del ’38, anticipa, se questo avesse importanza, il Britten del Peter Grimes. C’è tutto il mare dell’inconscio in Moby Dick.

Hitchcock gli disse, insomma, che dovevano adeguarsi ai tempi, lui non lo è stato a sentire e dopo dieci minuti che stavano registrando i titoli di testa del Sipario strappato con Paul Newman e Julie Andrews Hitchcock l’ha protestato. Herrmann allora ha lasciato New York, se n’è andato a Londra e tutti pensavano fosse morto. Ha vissuto facendo dei filmetti di serie B e ormai era molto amareggiato finché Brian De Palma non girò il thriller psicotico Sisters e il montatore gli disse: “Sai che stanotte ho visto Psycho in TV? C’erano delle musiche stupende, ho provato a montarle e succede un pandemonio!”.

Allora l’hanno cercato, hanno visto che era vivo, sono andati a trovarlo e gli hanno chiesto le musiche per Sisters e in seguito per Obsession, una specie di celebrazione hitchockiana sempre di De Palma.

Soprattutto, l’ha poi chiamato Scorsese per Taxi Driver. Alla fine della registrazione è morto, la sera di Natale. Meglio di così.