Ho avuto la possibilità di lavorare, come curatrice, con un giovane fotografo di origine sarde, Stefano Laddomada, ma profondamente cosmopolita nel suo approccio al mondo visuale e fotografico. Insieme porteremo in scena (in data da destinarsi), Batedo, sua ultima ricerca visiva - un viaggio nella Bologna delle acque, un progetto espositivo che troverà luogo negli spazi dell’Opificio delle acque - centro didattico documentale e promosso dai Canali di Bologna.
Seppur giovanissimo, da ormai molti anni pratichi la fotografia. Come ti sei avvicinato a questo mezzo? Hai un primo ricordo? E come definiresti, in maniera più personale che professionale, il linguaggio fotografico?
La fotografia, o meglio la macchina fotografica, è sempre stata presente a casa mia e da quando riesco a ricordarmi io ne sono stato il custode e portatore in tutti i viaggi e gite della domenica. Non credo ci fosse una particolare intenzione dietro, ma la fotografia nascondeva quella curiosità infantile che ha fatto poi sì che 20 anni dopo io riesca ancora a trovare divertimento nel praticarla. Forse in quanto Stefano direi semplicemente che la fotografia per me è un linguaggio che deve portare ad una scoperta il quanto più soggettiva possibile.
Ci racconti brevemente la tua formazione? E che rapporto hai con la fotografia analogica rispetto a quella digitale? Con cosa ami scattare di solito?
Ho studiato fotografia e nuovi media all’Accademia di Firenze e in seguito un biennio in Media Spaces alla University of Applied Arts di Berlino che mi ha non poco confuso le idee (nel senso buono, ovviamente). Lungo questi anni di studio l’analogico è sempre stato presente, alimentato soprattutto da quella curiosità di cui ho parlato qualche riga fa e l’approssimazione delle immagini analogiche ha influenzato enormemente, poi, la mia percezione nell’uso della fotografia digitale. Tendo a cercare sempre molti modi di rielaborare le immagini che produco, anche se tendenzialmente prediligo il digitale per una questione di spazi, risparmio e comodità. Scatto con qualsiasi cosa sia in grado di creare un’immagine, davvero.
Se dovessi stilare una top ten delle tue ispirazioni artistiche (e penso anche al cinema, alla musica, all’architettura, e alle altre arti) quali sarebbero? Hai figure di riferimento per quanto riguarda la storia della fotografia?
La mia fascinazione per tutto quello che tratta di arte ha iniziato a prendere forma vedendo i primi musei e le prime mostre per scelta arbitraria: ricordo specialmente il Museo Magritte di Bruxelles e una mostra fotografica di Kubrick, che mi intrigò per il fatto di essere stata realizzata da un regista e non da un fotografo, ibrida quindi di talenti. In generale mi ispira tutto quello che porta con sé una carica e una reazione in chi vede o ascolta: sono stato fortemente influenzato da tutta l’arte di regime e dall’uso strumentale che è stato fatto dell’immagine da parte di artisti, architetti e designer. Penso quindi ad Aleksandr Rodchenko, Oskar Kokoschka, Marc Chagall o anche Marcello Piacentini e Leni Riefenstahl, menti brillanti a servizio della peggior dittatura occidentale di sempre.
Fotograficamente credo di avere meno punti di riferimento ma tendo ad ispirarmi ai “nuovi” fotografi impegnati nel portare avanti un lavoro allo stesso tempo estetico ma carico di contenuti socio-ambientali come, ad esempio, Luca Locatelli e Tom Hegen. Musicalmente credo che sia troppo difficile scegliere, ma ultimamente sono attratto dagli artisti che provano a discostarsi dalla definizione di “genere musicale”: in Italia mi vengono in mente Venerus e Marco Castello, a livello internazionale invece Tyler, the Creator è per me l’artista più completo in circolazione.
Molti dei tuoi progetti nascono dai viaggi che spesso fai, anche in solitaria. Puoi raccontare come nasce il tuo ultimo lavoro fotografico Batedo? E quanto il viaggio influisce nella tua pratica artistica?
Batedo è figlio di Curicò, un progetto che avevo appunto realizzato in viaggio in Cile prima della pandemia e che era stato preceduto da mesi di tensioni sociali, in cui l’accesso all’acqua potabile era stato contestato dalla popolazione nelle rivolte che sono culminate con la recente elezione di Gabriel Boric. Aver avuto la possibilità di attraversare il Paese da Sud a Nord, dai ghiacciai ai deserti, mi ha fatto percepire l’assoluto paradosso di questo Paese, da un lato ricco di risorse, dall’altro arido e storicamente attaccato alla privatizzazione di esse, avvicinandomi quindi all’intenzione di sviluppare questa serie fotografica. Direi quindi che il viaggio ha molto peso su quello che decido di affrontare.
In Batedo invece ho voluto confrontarmi con una realtà meno evidente, ma più a portata di mano visto che Bologna è stata casa mia per diversi anni, senza però perdere quell’interesse che mi aveva spinto a documentare in territorio cileno e indagando più nel profondo, letteralmente, raccontando anche i canali interrati che scorrono sotto la città e la storia che si portano dietro.
Pensando al futuro, su cosa ti piacerebbe focalizzare la tua ricerca visiva?
Nella lista di cose da fare c’è già un nuovo progetto che intreccia l’acqua alla Sardegna, la mia regione d’origine, non solo fotograficamente ma con un approccio che include anche l’audiovisivo. Idealmente mi piacerebbe coinvolgere altri creativi, possibilmente sardi, a lavorare su un progetto comune. A breve invece andrò in Spagna per quattro mesi grazie ad un fondo ottenuto attraverso l’Unione Europea e mi occuperò di documentare progetti di ripopolamento e sviluppo rurale.
Ultimissima domanda: se chiudi gli occhi cosa vedi? Descrivi l’immagine (se ne vedi una)…
In questo momento vedo un Apecar attrezzato per esplorare la Sardegna nel modo più lento possibile, fotocamera alla mano. È un’immagine ancora un po’ lontana, ma decisamente nitida.