Eppure, per la maggior parte della storia conosciuta, gli alberi (…) hanno mantenuto un segreto sorprendente: la loro connettività non era solo una metafora, ma una realtà concreta. Mentre mi inginocchiavo sotto quel pino, fissando le punte delle sue radici, mi sono reso conto di non aver mai veramente capito cosa fosse un albero. Nella migliore delle ipotesi conoscevo solo la metà di una creatura che sembrava essere un individuo ma in realtà era una moltitudine, una chimera di proporzioni sconcertanti. (…) Nel corso dei millenni, attraverso gli effetti combinati della simbiosi e della coevoluzione, le foreste hanno sviluppato una sorta di sistema circolatorio. Alberi e funghi all’inizio erano solo piccoli e spaesati profughi dall’oceano, ancora grondanti di acqua di mare, alla ricerca di nuove opportunità. Insieme, sono diventati una forma di vita collettiva di una potenza e generosità senza precedenti.
(Ferris Jabr, La vita sociale degli alberi, Internazionale n. 28/1389)
Siamo cresciuti con la metafora della lotta per la sopravvivenza, con l’immagine di noi stessi come di esseri selvaggi a caccia di prede, costretti a difendersi dal freddo e da condizioni avverse in un territorio pericoloso e inospitale. Piccoli gruppi di nomadi, armati di bastoni e lance, alla ricerca continua di cibo e di riparo dai pericoli. Ancora nutriamo noi stessi di queste metafore e di queste emozioni: paura di una natura ostile, bisogno di spostarsi continuamente, forza e violenza come strumenti di sopravvivenza e di dominio, e fiducia solo per il proprio piccolo gruppo di appartenenza. Anche gli altri esseri umani possono essere pericolosi, pronti ad aggredirci pur di rubarci un po’ di cibo. La competizione è una necessità, la cooperazione è solo un richiamo per anime belle.
Ci consideriamo ancora dei cacciatori e raccoglitori, pronti a prendere tutto ciò che può tornarci utile, predando la natura senza preoccuparci di lasciare qualcosa per il futuro.
Innumerevoli volte abbiamo sentito usare metafore come: “siamo in una giungla”, “lottiamo per la sopravvivenza”, vale solo “la legge del più forte”. E queste metafore sono penetrate nella nostra cultura, avvelenandola. Le ritroviamo in economia, in politica, in azienda, a scuola, a casa. Un’immagine riflessa in uno specchio deformato dal racconto che facciamo di noi stessi.
Eppure, sono più di diecimila anni che siamo divenuti prevalentemente stanziali. Ci siamo fermati, abbandonando la vita nomade dei piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori, e abbiamo cominciato ad irrigare e a coltivare la terra, ad addomesticare animali, a selezionare le specie vegetali che potevano assicurare il soddisfacimento dei nostri bisogni alimentari nel tempo, ad abitare in dimore stabili e, infine, a costruire città e a darci forme di governo. La ricchezza e lo splendore di queste comunità hanno contribuito a diffondere conoscenze a cui ancora oggi attingiamo e a creare una cultura che attraversa tutta l’umanità.
Per vivere in comunità dobbiamo necessariamente fare affidamento sugli altri, anche se non li conosciamo: da chi educa i nostri figli a scuola a chi ci cura negli ospedali se siamo malati, abbiamo costruito una rete di relazioni dirette e indirette cui riferirci per poter assicurare una vita dignitosa a ognuno di noi.
Il mondo è diventato improvvisamente piccolo sotto i nostri piedi. Sogniamo ancora terre remote da esplorare, civiltà sconosciute da conquistare, ma ormai questi sogni si stanno trasferendo su pianeti non ancora scoperti nell’Universo, che è divenuto nel frattempo il “Nuovo Mondo” su cui riversare i nostri desideri di espansione infinita e i nostri destini di crescita illimitata.
Forse è giunto il momento di uscire dalla fase di infanzia dell’umanità, e di entrare finalmente nella fase adulta. Il che non significa necessariamente rinunciare a sognare l’immortalità o a giocare ai Conquistadores. Significa però non lasciare che i nostri sogni infantili di grandezza e i nostri giochi di conquista abbiano il sopravvento su ciò che consideriamo reale e possibile. Essere adulti comporta l’essere responsabili, prendendosi cura di ciò che ci è dato e non buttarlo via come fosse un giocattolo che ormai ci annoia.
Siamo diventati stanziali, come gli alberi. Abbiamo messo radici, come gli alberi. Abbiamo costruito borghi e città, proprio come gli alberi che hanno costruito boschi e foreste. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché da soli siamo fragili e vulnerabili. Proprio come gli alberi.
Anche le città hanno parti nascoste al nostro sguardo: sotto il manto stradale e sotto gli edifici ci sono canali di raccolta e scolo delle acque reflue, cavi sotterranei che trasportano informazioni codificate, strade sotterranee attraversate da treni e metropolitane, tubi che canalizzano energia che nutre le nostre case. Rappresentiamo gli alberi dimenticandoci quasi sempre delle loro radici e di tutto ciò che avviene sottoterra grazie alle loro intricate relazioni.
Così rappresentiamo anche noi stessi, come se il nostro contatto con la terra si fermasse a ciò su cui posiamo i nostri piedi. Dimentichi di ciò che c’è sotto di noi, continuiamo a considerarci semplici passanti, come le nuvole che passano nel cielo senza lasciare traccia. Vapore acqueo che non ha forma né consistenza.
Il nostro peso sulla Terra invece è enorme, e continua ad aumentare. Una ricerca condotta dal Weizmann Institute of Science pubblicata su Nature1 ha dimostrato che il peso di tutti gli oggetti che costruiamo - incluse case, strade, industrie - ha superato a fine 2020 il peso di tutta la biomassa del pianeta, ossia di tutti gli esseri viventi messi insieme - piante, animali, microrganismi - che vivono sulla Terra. All’inizio del secolo scorso, il peso dei nostri oggetti era solo il 3% della biomassa terrestre: una crescita esponenziale di questi ultimi 100 anni, con un tempo di raddoppio di 20 anni. Noi umani rappresentiamo solo lo 0,01% della biomassa, ma i nostri artefatti hanno stravolto qualunque forma di equilibrio.
Abbiamo forma e abbiamo sostanza, e dobbiamo assumercene il carico. La nostra stanzialità ha trasformato radicalmente il pianeta, e questa nostra presenza “pesante” è divenuta una nuova era terrestre, che noi stessi abbiamo definito Antropocene. Un’era breve come un battito di ciglia, l’ultimo secondo nell’orologio che misura le 24 ore di tutta la storia della Terra.
Nonostante ciò, continuiamo ostinatamente a rappresentarci come nomadi che vagano nella giungla, lottando per la sopravvivenza. È decisamente arrivato il momento di cambiare metafora.
La connettività degli alberi è stato un segreto nascosto per molto tempo al nostro sguardo, e solo ora stiamo cominciando a intuirne l’importanza e a comprenderla. La pervasività e la forza di questa connettività rappresentano le basi per la vita non solo di ogni singolo albero e di intere foreste, ma anche di tutti gli esseri viventi di questo pianeta, umani compresi.
Come ricorda Ferris Jabr nel suo articolo, questa connettività non è solo una metafora o qualcosa di metafisico: è reale, concreta, fatta di radici, di alghe e di funghi. Gli alberi, essendo radicati a terra - e quindi impossibilitati a sfuggire ai predatori o alle condizioni avverse - hanno intrecciato le loro radici in forme simbiotiche con altri esseri, come le alghe e i funghi, coevolvendo con loro in una rete sotterranea di interdipendenza reciproca e di “mutuo soccorso”. Attraverso le radici sotterranee gli alberi si trasmettono l’un l’altro, anche tra specie diverse, sia sostanze nutritive che informazioni, in una catena di aiuto reciproco e di cooperazione che permea tutta la biosfera terrestre. Difficile per noi anche solo riuscire a immaginarlo.
Con le parole di Stefano Mancuso:
Grazie alla cooperazione, governata dalle simbiosi, la vita ha imparato ad ottenere risultati che altrimenti non le sarebbe mai stato possibile raggiungere. Ma è nel mondo delle piante che questa arte del vivere insieme raggiunge le sue realizzazioni più brillanti. Qualunque sia l’ambito di studio o dovunque si soffermi la nostra attenzione, dall’impollinazione alla difesa, dalla resistenza agli stress alla ricerca di sostanze nutritive, le piante sono le maestre indiscusse del “mutuo appoggio”.
(Stefano Mancuso, La nazione delle piante, 2019)
Anche gli esseri umani all’inizio erano solo piccoli e spaesati profughi su questa Terra, alla ricerca di opportunità. Sarebbe bello, un giorno, poter dire di noi che siamo “diventati una forma di vita collettiva di una potenza e generosità senza precedenti.
Anche se un precedente già c’è, e basterebbe seguirne l’esempio. E sono gli alberi.
1 Elhacham, E., Ben-Uri, L., Grozovski, J. et al. “Global human-made mass exceeds all living biomass”. Nature 588, 442–444 (2020).