Musica tra le pagine è il titolo del bel libro di Enrico Spinelli dato alle stampe nel settembre del 2021. Un originale percorso di conoscenza di una città, Ferrara, e delle sue vicende attraverso la musica che ne ha segnato le tappe, le trasformazioni, che si è mischiata indissolubilmente con la sua storia culturale, artistica, sociale. Un modo suggestivo e coinvolgente per scoprire le sonorità che sottendono alla parola scritta e le danno colore.
Uno dei sette capitoli, “le sette note” come vengono chiamati, è dedicato all’influenza che i protagonisti del melodramma hanno esercitato sull’onomastica: Desdemona, Violetta, Aida, Otello, Radames sono alcuni dei nomi che venivano assegnati ai nuovi nati in conseguenza della passione per l’Opera diffusa in tutti gli strati sociali.
Ho avuto il piacere di essere invitata a dare testimonianza di questa “moda” poiché nella mia famiglia si respirava aria di melodramma in una forma che non aveva nulla di “accademico”: era come se la musica d’Opera e i suoi personaggi attraversassero in modo naturale lo scorrere della vita.
Sono stata felice di questa così grata occasione per ritrovare i tanti fili che si intrecciano sulla trama della memoria a disegnare figure di un passato che vive e si alimenta nella tenerezza del cuore.
Mi fa piacere iniziare l’anno con pensieri felici, con ricordi e visioni di leggerezza che prendano temporaneamente il posto dei pensieri pesanti che ci graffiano il cuore.
Così, immaginando di essere accompagnata dalle romanze che tanto emozionavano il pubblico, farò comparire le mie donne da melodramma inseguendo quel fiotto di profumi, suoni e parvenze che, come nei sogni, arrivano senza una trama, un ordine, bensì con l’emozione del ritrovamento di un tesoro perduto.
La donna dei miei sogni era la signora Desdemona, sempre circondata da quel delizioso profumo di cipria che mi inebriava quando ricevevo il suo abbraccio in occasione della “visita” da parte di nonna, mamma e zia che erano sue grandi amiche.
Quel profumo pareva aleggiare nelle stanze della sua bella casa, gentile e raffinata come lei, ricca di ninnoli e ricordi che trasformavano quel luogo in un diario di bellezza e di vita.
Desdemona era per me bambina l’incarnazione della bellezza femminile, con le sue mani affusolate e curatissime che distribuivano le carte da gioco, sì, perché la visita alla signora Desdemona coincideva con una attesissima partita tra donne, almeno una volta alla settimana alla quale io assistevo come ad un evento che meritava rispetto, silenzio e pazienza.
Ho stampata nella memoria l’immagine delle sue vezzose camicette odorose di stiratura e ornate di pizzi che, con civetteria discreta, lasciavano vedere o almeno intuire il candore della sua pelle.
La scollatura era impreziosita da fili di perle che parevano rendere ancora più luminoso l’incarnato del suo volto che a me appariva perfetto, come quello di una bambola di biscuit fermato in un’eterna, immutabile bellezza.
Un nome quello della signora Desdemona che, come spesso accade, aveva in sé una sorta di profezia di tormentate passioni. Non si era mai sposata eppure aveva consacrato la sua vita ad un amore impossibile.
Va da sé che questa informazione mi è stata rivelata soltanto quando ho avuto strumenti per comprendere che cosa significasse la frase: “Il giovedì non si può andare a trovare la Desdemona; è la sera del dottore”. Alla mia richiesta di spiegazioni e alla domanda se fosse malata e perché mai sempre di giovedì, venivo come al solito zittita senza alcuna concessione, il che rendeva più fitto il mistero.
Solo molto più tardi fu svelato il segreto: quella del giovedì era la serata in cui il devoto, storico amante della Signora veniva a farle visita per tener desto con poche ore di felicità un amore destinato a vivere nell’ombra.
Nel mese di maggio non dimentico mai di mettere una rosa rossa accanto alla sua fotografia.
La storia si scrive anche così se pensiamo alle tante famose o sconosciute donne che hanno intrecciato la propria vita a quella delle mogli ufficiali.
Sono nata in un’antica casa legata ad una tragica figura della storia estense, Stella De’ Tolomei, più nota come Stella dell’Assassino, in un incrocio di vie di una bellezza struggente specie durante i tramonti che annunciano notti nebbiose, ma non è nella Storia che voglio addentrarmi bensì far riapparire un ricordo di bambina che si lega ancora una volta alla popolare nomenclatura del melodramma.
Quasi di fronte alla mia casa natale stava una piccola latteria, come allora si chiamava, una di quelle botteghe che un tempo erano il cuore della via e forse della vita degli abitanti. Ne raccoglievano umori, odori, amicizie, informazioni, confidenze, piccole storie di grande sentire. Botteghe che ravvivavano le antiche strade acciottolate e creavano un tessuto di conoscenza e intimità che allargava le maglie della vita condivisa.
Ebbene, per un curioso scherzo o disegno della sorte i gestori della latteria si chiamavano Otello e Desdemona, e, ripensandoci, mi fa sorridere pensare che un Otello mi abbia accartocciato con cura una fetta di cioccolato con le nocciole che allora si vendeva “sfuso” e una Desdemona abbia riempito di latte fresco la inconfondibile bottiglia scanalata che ogni volta veniva scambiata con quella vuota.
La zia Elodia, molto avanti negli anni, alla quale, come si usava un tempo, si andava a far visita, stava spesso seduta su di una poltrona di un verde stinto accanto ad un tavolino rotondo sul quale era appoggiato un grammofono.
La passione per la lirica le veniva da un marito amatissimo, non più in vita, che in gioventù l’aveva accompagnata in teatri prestigiosi e fatta partecipare a serate musicali indimenticabili come lei non mancava di sottolineare con nostalgia.
“La zia ascolta le opere” mi dicevano, ma non mi fu chiaro che cosa ciò volesse dire fino a quando fui lasciata da lei per un intero pomeriggio nel quale feci conoscenza con Tosca e Traviata che io credevo fosse un nome di battesimo.
E non fu per nulla chiarificatrice la risposta alla mia domanda su che cosa significasse quel nome che non avevo mai sentito. La zia, che era stata una maestra, se la cavò elegantemente dicendo: “È una donna perduta”. Non osai insistere per il rispetto verso gli adulti che mi veniva ben inculcato, ma rimasi nel dubbio e nella curiosità.
Non so dire in quale forma edulcorata e ammaliante la zia riuscì a farmi comprendere quelle storie romantiche ma ricordo di aver in seguito “giocato alla Tosca” il che voleva dire costruirsi scene immaginarie nelle quali calarsi come interpreti di quel dramma riveduto e corretto che aveva sollecitato la mia fantasia.
L’immaginazione si univa alla verità, poiché una Tosca in famiglia l’avevamo davvero. Entrare nel suo salotto arabescato che richiamava le preziose tappezzerie di Mariano Fortuny era come entrare in una scenografia teatrale.
Sul cuscino di velluto rosso stava, apparentemente immobile, un grande gatto bianco di nome Egisto. Non ci si poteva avvicinare a lui se non lasciandosi prendere per mano dalla Tosca che ti conduceva fino alla distanza consentita: non ho mai sentito un suo miagolio, né ho potuto accarezzarlo, eppure aspettavo con ansia di andare a trovarlo sempre con la speranza che un giorno mi avrebbe fatto le fusa riconoscendomi degna di un sorriso. Non accadde mai.
La nostra Tosca conservava tracce di antica bellezza, amava le tonalità dell’azzurro e del turchese, colori che non mancavano mai negli scialli di seta che indossava con eleganza.
Fu una grande emozione quando ebbero inizio i preparativi per andare a Venezia dai parenti di mio padre che ci invitavano ad una rappresentazione di Traviata.
Era anche un’occasione per riabbracciare la nonna paterna alla quale la guerra aveva portato via il giovane marito, maestro di musica, da lei incontrato per la prima volta durante l’esibizione della banda di cui era direttore.
Ed ecco ancora la musica che si intreccia con la vita e ne rende indimenticabile la melodia.
Vedere abiti, scene favolose, personaggi in carne e ossa era ben diverso dal sentire la voce del grammofono, ma questa meravigliosa visione si lega ad un episodio indimenticabile nel quale è ancora Traviata ad entrare nella mia vita.
Dopo qualche tempo dall’avventura veneziana mi trovai in un consesso di signore eleganti invitate da mia nonna per una qualche occasione di festa e, mentre si sorseggiava il caffè di cioccolata accompagnato da deliziosi “zuccherini”, una di loro mi chiese: “E tu, bella bambina, che cosa vuoi fare da grande?”. Ed io senza esitazione alcuna risposi: “La donna perduta”, riferendomi naturalmente a Traviata che per me continuava ad essere una bellissima e nobile signora, forse una principessa.
Il gelo cadde sui volti attoniti di nonna, zie e mamma, con maldestri tentativi di spiegazione e occhi rivolti verso di me a promettere che avremmo poi fatto i conti anche se io non ne comprendevo le ragioni.
Stampato su raffinata carta semilucida con i bordi frastagliati che risuonano lievemente al tatto, ecco il ritratto di mia nonna materna.
Il mezzobusto lascia vedere il bell’abito di raso che dà risalto al collo affusolato, all’incarnato di porcellana. I capelli scuri sono raccolti come in un ritratto boldiniano.
È giovane, una ragazza dagli occhi scuri perduti nell’infinito e porta un nome altisonante: si chiama Santuzza e per tutta la vita farà i conti con quella doppia “zeta” che i ferraresi proprio non riescono a pronunciare.
In realtà mia nonna si chiamava Santuzza Lola. Veniva da una stirpe di donne dai nomi importanti: Teodolinda, Rosmunda, Nicea, Euterpe, Elodia, ma nel suo caso era stata la passione di suo padre per l’opera lirica a legare il suo destino al romantico e tragico personaggio della donna sedotta da compare Turiddu in Cavalleria rusticana.
Il bisnonno Silvano che, a quanto si diceva, amava Mascagni ma era anche sensibile alle belle voci e soprattutto alle belle cantanti, aveva voluto esagerare: per non far torto né alla soprano né alla mezzosoprano aveva dato alla figlia il nome di entrambe le protagoniste. E, se è vero che il nome contiene lo spirito di chi lo porta, certo bisogna dire che lei aveva davvero le caratteristiche di un’eroina dal grande sentire.
C’era però un’altra Lola quasi provocatoriamente diversa: affascinante, libera ed emancipata come sapevano essere le donne degli anni Trenta.
Capace di far perdere la testa a musicisti, poeti ed ufficiali in uniforme, incurante delle maldicenze che serpeggiavano tra le donne del parentado.
La sua lunga vita mi ha concesso di incontrare questa figura di raffinata eleganza e ancor più raffinata cultura: portava cappelli stravaganti che ancora conservo, parlava francese e faceva parte di circoli letterari assai esclusivi.
L’opera lirica lei la seguiva nei teatri più prestigiosi ed anche per questo c’era nei suoi confronti una gentile ma ineludibile invidia da parte di chi doveva accontentarsi delle sale da concerto di provincia.
La musica faceva da fondale per questo vivere tra quotidianità e bel mondo.
Tutti in famiglia dicevano che la cugina Rirì una bella voce l’aveva avuta fin da piccola. In realtà si chiamava Elvira (e come non pensare a L’Italiana in Algeri?) ma quel nome era subito apparso troppo impegnativo per una bambina e così il diminutivo si impose e le rimase per sempre.
L’avevano mandata a studiare a Milano, ma, nonostante il talento, non le avevano permesso di fare la carriera operistica: troppi pericoli nella vita di una cantante in giro per teatri in tutta Italia, forse all’estero. Così la bella Rirì si accontentò di rimanere una dignitosa interprete di arie famose eseguite in occasione di serate e feste della buona società in luoghi non troppo lontani da casa.
Gli abiti “da concerto” erano però degni di una diva: broccati, lustrini, sete e perfino piume di marabù si sprecavano. Non indossava mai due volte lo stesso vestito.
La guardavo rapita mentre la sarta veniva a provarle quei sontuosi modelli. Andavano fatti su misura perché, come sentivo dire, Rirì aveva la vita molto sottile ma era forte di petto.
A “sentire l’operetta” le donne della famiglia andavano in compagnia della Vally, un’amica delle mie zie che doveva avere entrature nel teatro. Credo fosse allora il Teatro “Verdi” a far da palcoscenico a questo genere musicale che era considerato “cosa da donne”. Le accompagnava il nonno Enrico con la sua bella automobile perché le signore indossavano abiti delicati.
La zia Norma aveva avuto un fidanzato musicista, anzi compositore, e capitava spesso che, in occasione di visite di cortesia che coincidevano con la preparazione di dolcetti di pasta di mandorle, lei estraesse qualche spartito dicendo: “Questa musica l’ha scritta per me”. E, con un gesto affettuoso e pieno di nostalgia, stringeva sul cuore quel ricordo di tempi felici.
Si diceva che la bisnonna Teodolinda, che gestiva quello che sarebbe diventato l’Hotel Europa, avesse incontrato Toscanini ospite del suo ristorante. Non c’erano immagini né testimonianze a provarlo, ma questo come altri aneddoti faceva parte della memoria orale che, come accadeva per gli antichi aedi, diventava vera attraverso la narrazione ripetuta.
Tante volte avevo sentito raccontare di quando, ed era il novembre del 1922, i miei nonni, ancora giovani sposi, avevano partecipato alla memorabile serata in cui la Compagnia Ruggeri-Borelli mise in scena la tragedia di D’Annunzio dedicata a Parisina, la tragica figura di Laura Malatesta, una delle tante grandi donne vittime d’amore.
Fu quella l’occasione in cui il Teatro Bonacossi, quello che allora era “il teatro d’opera pubblico della città”, venne intitolato alla famosa attrice Adelaide Ristori. Ancora capitava che mia nonna, passando davanti a quello che era ormai diventato Cinema ricordasse quel memorabile avvenimento: la storia si mischiava così ai semplici ma preziosi ricordi della vita.
Anche della bella e sfortunata Parisina avevamo una rappresentanza anche se dubito che la signora che portava questo nome avesse qualche idea dei suoi ascendenti.
La zia Parisina abitava in campagna e certo non aveva mai frequentato teatri d’opera. Vestiva sempre di grigio e portava uno scialle di lana anche quando sedeva accanto al camino acceso nella grande cucina.
Già avanti negli anni era diventata famosa poiché quando, dopo molti tentativi infruttuosi, era riuscita a parlare al telefono, voleva che le fossero ravviati i capelli e date due gocce di profumo per rendersi presentabile prima di incontrare l’altra voce.
Con la dolce crudeltà che contraddistingue i bambini, la zia Parisina era diventata oggetto dei nostri scherzi.
La Carmen aveva un negozio di frutta e verdura ed era una gran narratrice. Sapeva di portare un bel nome perché, come spesso accadeva, i genitori erano amanti dell’Opera. Gli acquirenti erano quasi soltanto di sesso femminile e, mentre le signore ascoltavano i suoi infiniti racconti “di varia umanità”, come si usava dire, io venivo fatta sedere su di uno sgabello non particolarmente comodo.
Non mi era concesso di scendere dall’odiato scranno fino al termine delle chiacchiere onde evitare che toccassi la merce elegantemente esposta come in una vetrina di oggetti preziosi: un trionfo di colori e di odori specie durante l’inverno quando prevaleva il profumo delizioso dei mandarini.
Una memoria olfattiva che non mi abbandona neppure leggendo gli affascinanti particolari che Enrico Spinelli racconta nel suo libro a proposito di Carmen, quella di Bizet. In un connubio alquanto inusuale, per me la Carmen continua a odorare di mandarino.
Aida, ma per tutti Ida, sapeva raccontare belle storie d’amore, come quella del suo incontro con il futuro marito in uno splendido giardino d’estate dove le fanciulle di buona società andavano a ballare.
Aida ricordava tutto di quella sera: il suo abito bianco con bordature blu, il filo di perle che le aveva affidato la mamma per un’occasione speciale.
Mentre parlava i suoi occhi ancora brillavano in un intreccio di lacrime e gioia lontana. Attraverso la sua descrizione pareva di vedere i due giovani fidanzati in posa per la fotografia che Ida rimpiangeva di non aver fatto scattare.
Spero che questo ricordo possa prendere il posto di quel mancato scatto e ringrazio tutte le mie donne da melodramma per essersi concesse a questa passerella sul palcoscenico del Teatro d’Opera, le ringrazio per avermi concesso di fare questo gioco infantile nel quale dame e cavalieri rivivono nella parola e nell’affetto custodito con cura: è un tempo di tenerezza che ognuno di noi può riservarsi nel groviglio apparentemente indistricabile del vivere quotidiano.
E mi vien da pensare che talvolta ci troviamo nella condizione del bambino che sta davanti al cancello chiuso che non riesce ad aprire. È disperato, incapace di riflettere. Catturato dalla sua paura non si accorge che la catena che chiude il cancello non ha lucchetto; basta scioglierla e la porta si apre sul giardino coperto di fiori.
A cura di Save the Words®