Da tempo che non venivo a Milano, quale migliore occasione che “La Voragine", la mostra di Santiago Sierra alla galleria Prometeo di Ida Pisani. Sveglia molto presto, a Spicciano per fortuna oggi non c'è traccia di nebbia, lasci il tuo letto caldo, facendo finta di niente, ma Luce, l’amato gatto, ha già capito tutto e ti guarda con severità e si nasconde, cerchi di rassicurarlo, ma non c’è verso. Al mio rientro dovrò fare di tutto per riconquistarlo, per fortuna c’è mia sorella Isabel, che è venuta a stare un po’ con noi e già lo ha conquistato.
Isabel è una delle mie due sorelle (ne ho due Isabel e Eliana), ha vissuto quasi quarantasei anni in Venezuela e poi ha cercato di rientrare in Cile due volte, ma è difficile il rientro quando si è grandi. Da piccolo fu lei a portarmi a vedere il film su Woodstock. Il concerto - al quale parteciparono, secondo fonti non certe, addirittura un milione di giovani - si svolse ad agosto del 1969 a Bethel, una piccola città americana nello stato di New York, raccolse 32 artisti e famosissime band. Ero ancora piccolo ma i carabinieri entrati in sala non trepidavano un minuto a portarmela via, a lei come al resto dei ragazzi che si passavano le canne di mano in mano.
Più tardi le nostre strade si divisero, io all’esilio in Italia lei e il suo compagno emigrati a Guanare, nelle terre di Chavez, perché non si sono trasferiti a Caracas, come fece la maggioranza degli esuli che scapparono in Venezuela, ma bensì a Guanare. Territorio montuoso e pianeggiante al centro dei llanos.
Oggi è una delle protagoniste del Teatro Lambe-Lambe, che è il nome di una specifica forma di narrazione in scatola: Piccola storia da scoprire, animata dal vivo, per un solo spettatore alla volta. Attraverso uno spioncino scoprono un piccolo mondo inaspettato pieno di sorprese. Questa forma di teatro esiste da più di 30 anni, è originaria dall’America Latina, dove tuttora è molto diffusa e dove i Lambe-Lambe si possono incontrare nei parchi e nelle zone pedonali, in musei e gallerie, in occasioni di festival o ai margini di altri eventi.
Ma dorme e non faccio in tempo a salutarla, ma saluto i padroni di casa, Dulce, il Nero e Puntito. Non solo, di fuori c’è un’intera comitiva ad aspettarmi, Macchia, Nuvola, Kiko e Kako, Giggio, Tigre, Pantera e il Poeta. Gli dò da mangiare ed è già in piazza il buon Mario per portarmi a prendere il primo treno disponibile per arrivare a Firenze, arrivato appena in tempo per salire a bordo di un comodissimo Italo che ti farà in un tiro di schioppo, arrivare alla tua destinazione, Milano.
Lì fa davvero freddo, si suppone che siamo in pieno inverno, la gente va vestita pesantemente, vedo facce ombrose. Il cielo è completamente chiuso, c'è aria di pioggia, penso, poi prendo la metro e scendo alla terza fermata, alla stazione Duomo. Ti ritrovi davanti al portone del Duomo dove puoi ammirare le sculture nel marmo che decorano il profilo della porta. A destra in alto puoi ammirare una delle creature mitologiche che popolano la storia della città. Dall’alto ti osserva la Madonnina: la statua completamente coperta d’oro che sovrasta il Duomo. L’amata protettrice della città che stringe nella mano destra una lancia che funge da parafulmine, per proteggere il Duomo e l’intera città. Da lì qualche centinaia di metri e trovi il Palazzo Reale, anni fa ho curato una mostra, arrivò addirittura l’architetto Stefano Boeri, a quell’epoca Assessore alla cultura nonché il creatore del Bosco Verticale.
Passo fra la gente che si fa fotografare e intanto danno il mais ai piccioni, non riesco a distinguere i piccioni dalle colombe, penso, che strano non vedo nessun gabbiano, a Roma sono dappertutto da quando hanno dimenticato il loro habitat naturale.
Domando a dei poliziotti, ma non conoscono la città, trovo un vigile che mi indica, quello è il tribunale, questo indirizzo è giusto di fronte, ed ecco che sono arrivato al bellissimo appartamento di Domiziana e Mimmo, il suo compagno. Lola mi riceve e dopo avermi annusato abbaia con insistenza, tra i miei vestiti, di sicuro ci sarà rimasto più di un pelo di Luce, noi gattari ci facciamo riconoscere dovunque.
Verso le 19.00 rigorosamente in metro arrivo a Lambrate Via Ventura, c’è la mostra di Santiago Sierra (Madrid, 1966) che da sempre indaga sulle condizioni precarie dei lavoratori e gli emigranti, la violenza di stato e il razzismo, come dice il comunicato, il suo lavoro, fortemente politico e di denuncia sociale rivisita le strategie dell'arte minimalista, concettuale e performativa degli anni Sessanta e Settanta.
L'Europa è un giardino. Abbiamo costruito un giardino. [...] Il resto del mondo, [....] la maggior parte del resto del mondo è una giungla, e la giungla potrebbe invadere il giardino. I giardinieri dovrebbero prendersene cura, ma non proteggeranno il giardino [...] la giungla ha una forte capacità di crescita, e il muro non sarà mai abbastanza alto per proteggere il giardino. I giardinieri devono andare nella giungla.
(Estratto da un discorso di Josep Borrell - Alto Rappresentante dell'UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza)
L'inno infernale si ripete fino a quando il video, centrale nella mostra, si trasforma in un vortice caleidoscopico e totalizzante. Sul pavimento e contro il muro, giovani calciatori del Gambia mimano le posizioni di arresto della polizia come se fossero coreografati, un vortice di sagome; i loro volti non vengono rivelati.
Da molto che non vedevo una mostra di questo calibro, di totale intensità, forse questa città non ha più tempo per il superfluo, è stata sempre così?
Le prime volte che venivo a Milano venivo da Ferrara, correva l’anno 1975 e con la prospettiva di smistare i cileni, appena arrivati in esilio, ero stato inviato lì per prendere un lavoro. Ospite dell'Istituto di Cultura Casa Giorgio Cini. Nell’anno 1950 il conte Cini donò la casa di via Santo Stefano alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù, affinché i padri gesuiti ne facessero un centro culturale e di formazione educativa e morale dei giovani (esperienza che, mi dicono, si concluse nel 1984). A Ferrara nessuno mi offrì mai nemmeno un caffè, e oltre alla gentilezza dei Gesuiti mi sentivo davvero solo, avevo diciassette anni e non riuscì il mio intento all’inserzione. Niente di diverso dalla vita che fa un profugo appena arrivato, né più né meno e nonostante l’accoglienza, noi profughi tutti, provenienti da qualunque parte dell'emisfero, viviamo le stesse cose, la sopravvivenza, la solitudine, la nostalgia di quello che si è lasciato, ma cosa si è lasciato da essere eternamente melanconici, eternamente tristi. Quando si comincia a capire questo si ricomincia a rivivere sul serio. Ci torna l’ironia, il sorriso, quella luce negli occhi che pensavamo di aver perso.
Scappavo da Ferrara, appena potevo e prendevo un treno diretto a Milano. Arrivavo alla Stazione Centrale e mi recavo in metro a casa di due artisti cileni, Pilar e il suo compagno l’architetto Fernando anche loro in esilio, ma completamente inseriti nel circuito degli squatter (il vocabolario Garzanti definisce squatter un contestatore urbano che occupa abusivamente edifici pubblici abbandonati). Milano città industriale era piena di edifici in disuso e la popolazione alternativa ne faceva uso, centri sociali, abitazione per emigranti, studi d’artista. Il loro era uno studio, studio che brulicava di colori, toner, centinaia di pennelli e vernici, gatti, ceramiche variopinte e incisioni. Un’altra volta la magia dell’arte mi faceva da salvagente, loro erano militanti come me, in un'epoca in cui la militanza non era sinonimo di una qualche parolaccia. Mi davano carta e pennelli, c’erano centinaia di colori.
Nel tempo ho scritto per Pilar Donne di terra.
Affinché il colore esploda e possa esprimere la propria voce, la ceramica si cuoce tante volte; è costantemente presente un processo di stratificazione, l'assemblaggio, la fusione di vari materiali, questo l'alfabeto della forma, la matrice, la madre, l’enigma della femminilità che cela in sé un linguaggio arcano, genesi e origine.
Cogliere questa intensità emotiva il nostro compito. Così il dorso di una porcellana rotta diventa una cascata di euforia. Gli assemblaggi ottenuti con detriti recuperati si intingono di radiosità, residui di storia poi diventano gioielli, frammenti di anatomia umana, segmenti capaci di incantarci che danzano, saltellando a ritmo di una fredda geometria che dà voce al corpo, alle sinuose curvature, fino a finire in un abisso dove il femminile si prende una cospicua rivincita dalle cose terrene, soffici e materne forme di eros denudato.
Ma a Milano, e non soltanto, in tutta Italia il 1975 fu un anno denso di avvenimenti politici. Di un forte scontro sociale; le forze dei giovani della sinistra extraparlamentare si contrapponevano al fronte della reazione guidato dalla Democrazia cristiana, coadiuvato da una forte componente neofascista. In quei giorni intrisi di curiosità per puro caso mi sono addentrato in un articolo molto toccante, che faceva riferimento a una donna, Franca Rame, che ho letto senza fermarmi un secondo. Raccontava come la sera del 9 marzo del 1973, Franca Rame veniva affiancata da un furgone in via Nirone, a Milano. Costretta a salire, veniva torturata e violentata a turno da cinque esponenti degli ambienti neofascisti, che le spaccano gli occhiali, le feriscono il viso, usando una lametta, le spengono mozziconi di sigarette sul corpo. Lo stupro vuole dare una lezione. Franca Rame, superando la vergogna e la sofferenza, rievoca quei fatti.
Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca. Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura. Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido… Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani.
Dall’episodio doloroso nasce uno spettacolo, un’opera d’arte, che dà voce al trauma, parla del dolore che tante altre donne hanno subito, trasformandosi in un potente mezzo di denuncia. La Rame ha pagato per le sue idee e per quelle del marito, il Nobel Dario Fo, con cui ha sempre condiviso l’impegno civile e il palcoscenico: eppure è stata lei sola a essere presa di mira.
(Fine del ricordo)
Al mattino, dopo l’inaugurazione a Via Ventura me ne andavo a riprendere il treno per tornare a casa, il giorno prima cielo chiuso e gente chiusa, oggi invece il cielo è completamente aperto e c'è una splendida luce, i volti delle genti irradiano felicità. Non c'è niente da fare il freddo abbrutisce le persone. Il sole trasforma, cerchi un punto di arrivo, di ritorno, un punto che ha un inizio e una fine. Il duomo mi si presenta bianco, maculato, si parte e simultaneamente si arriva e l’orizzonte che accoglie il tuo arrivo. Evviva ci sono dei sorrisi. Le coppie si fanno i selfie, lui e lei obesi, si baciano con tanto amore.
Andare e andare, andarsene. È arrivata l’ora di ripartire cominciare la ritirata. Anticipare quello che dovrà avvenire. Questa città, questo studio, penso indietro nel tempo, il mio rifugio per tantissimi fine settimana. Fu qui che decisi che il mio futuro era finire la scuola, guardarmi intorno e di andare a vivere.
Fu allora che decisi che per sopravvivere molte cose non le avrei fatte, anzi le cancellai proprio, non avrei imparato a guidare, non avrei cercato di parlare l’inglese e non avrei imparato a nuotare.
Lasciare i posti, non sostare, non lasciare che non rimanga nulla. Ogni volta che posso cerco di sfuggire il ritorno, di sfuggire la partenza. E in questa incertezza, tua, perché non sono io quello che parla, sia chiaro, sei tu che disegni la tua propria matrice persecutoria, quella che non osa, che non lascia che misere impronte dell’andare. Allora ritornai a Roma e la città mi accolse un tiepido tardo pomeriggio, con un lieve ponentino, nome dato a Roma alla brezza di mare che spira sulle coste laziali durante il giorno nella stagione estiva.
Il resto ve lo racconterò domani.