Serà mejor / la vida que vendrà.
(Quilapayun, El Pueblo unido jamas serà vencido)
Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi vi siano la vita, la libertà e il perseguimento della felicità...
(Dichiarazione d’Indipendenza, Filadelfia - 4 luglio 1776)
Una canzone che possiede una poesia perenne, leopardiana-hegeliana e universale che va oltre il tono e il contesto politico e ideologico in cui è sorta, cioè il movimento di sostegno a Salvador Allende, in Cile, negli anni ‘60.
La struttura musicale è semplice, cadenzata, circolare, never-ending, facilmente cantabile. La struttura è modulare e tende al salire. Una canzone progressiva già nel pentagramma. Conclude la battuta quasi sempre in levare, conferendo un tono di speranza e tenacia al discorso narrativo.
L’unica modulazione il sol diesis che conferisce il senso dell’alternanza speculare tra momento dominante e momento sensibile in piena unità organica. E poi l’imprevisto creativo: la canzone che diventa velocemente un grido ritmato, nato per essere gridato da una folla, in una piazza, con un re ripetuto in modo ossessivo fino a salire al suo diesis e al mi. Alternanza tra sol e sol diesis con il fa, matrice di struggenza, e con il mi alto che passa al mi della ripresa dando corpo alla circolarità.
Ma subito dopo torna l’aura sognante che rappresenta il connotato più essenziale e differenziale di questa canzone sorprendente. Il rapporto tra strofe e battute è tale che l’accentazione di riposo cade ad intervalli regolari sull’ultima parola di un gruppo testuale che è già l’inizio della battuta musicale successiva e questo alternato invece a battute che coincidono perfettamente con il loro gruppo testuale.
Un ritmo cadenzato che ricorda l’incedere lento ma costante tra le boscaglie di una jungla andina, dondolandosi tra le spalle e le anche. Si sente che gli autori vengono dalla facoltà di filosofia di Santiago del Cile.
Sentiamo nella canzone un respiro poietico-noietico che esprime l’essenza migliore dei tempi post-organici: il desiderio della felicità visto quale diritto innato e non negoziabile, fondamento della Costituzione di ogni nazione che viene da due secoli di rivoluzioni. Il tutto però reso in forma dolce, languida, come in sovrappensiero, con gli occhi umidi o socchiusi.
Il tono generale della narrazione appare assolutamente ottimistico: è una canzone di vittoria e di trionfo dove le sfumature sono tutte epifaniche, rivelative, solarmente irradianti.
“Vedrai” è quasi vangelicamente il termine più ripetuto, esprimente la certezza di una manifestazione risolutiva. Una canzone che ondeggia quale bandiera e l’immagine della bandiera appare quale archetipo fecondativo e fondativo e infatti a caso viene associata a quella della luce e del fiorire.
“La vida que vendrà” è il tema del canto che appare tutto teso verso il futuro e la sua rivelazione. Un futuro-felicità a portata di conquista quanto lo è di sogno. Dentro l’andamento oscillante si alza la verticalità dell’inno che è un inno all’unità come se il popolo fosse un organismo vivente che deve solo risvegliarsi per cogliere il suo compimento.
Il movimento verso l’unità quale autoscienza vivente è il movimento verso il futuro nel quale l’Identificazione sarà piena e armonica.
Di quale epica si tratta? Dell’unica epica che la Modernitas permette e invoglia: quella alla Rousseau del “Buon Selvaggio” che vuole sciogliere le cristallizzazioni sociali ed egemoniche che l’opprimono per tornare a vivere nella sua felice autonomia e anomicità originaria. Lui è il fine, il potere è solo un temporaneo mezzo.
Questa canzone va ascoltata guardando il video di una folla immensa che la canta a Santiago del Cile, come un unico immenso corpo lirico che si libera e si libra nell’aria. Poiesis pura.
Una canzone senza nemici, come solo lo spirito latino-americano, caliente, può concepire, come già le canzoni popolari partenopee. Una canzone dove la nascosta dialettica è data dalla tensione saturnina tra l’indifferenza indeterminata e passiva e l’atto di distinzione, di scelta, di risveglio coscienziale.
Tutto si gioca nella trasmutazione del kronos in kairos sul presupposto ottimisticamente settecentesco che sia la volontà e il desiderio a fare eudaimonisticamente la differenza. La ri-voluzione torna nella sua essenza poietica e originaria di “volgere i tempi” cioè captarne lo spirito e attuarlo nella vita.
Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.
Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?(Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero)