Non vorremmo risultare “quaresimali” smorzando gli entusiasmi mitologici avvoltisi addosso all’ultimo, straordinario ed ipnotico lavoro di Dimitris Papaioannou. Il fatto che l’ormai celeberrimo artista sia greco e nelle sue precedenti pièces (pensiamo a The Great Tamer, a Still Life) abbia dato prova di una solida conoscenza dei miti e della cultura del suo Paese, non implica il reiterarsi di cliché che riducano la lettura della sua ultima, poderosa, fatica, per otto interpreti, nei termini del suo passato. Cosa che tra l’altro tradirebbe la sua fama di accanito ricercatore, non certo seduto sui suoi stessi allori.
Ciò che sappiamo di Transverse Orientation (Orientamento Trasversale) - al debutto a Lione nel giugno scorso, passato in Italia solo al “Napoli Teatro Festival”, a “TorinoDanza” ed infine alla rassegna “Aperto” di Reggio Emilia, tuttora in tournée, e sino al maggio 2022 (con un possibile, quanto auspicabile, ritorno, a Roma, in gennaio) - è che la sua lunga gestazione è stata solitaria. Causa Covid-19 e chiusura dei teatri, Papaioannou ha trascorso l’estate 2020 sull’isoletta di Anafi, un scoglio delle Cicladi, sfogando la sua bramosia creativa nel disegno a matita soprattutto di corpi nudi, e nella pittura in cui eccelse già a tre anni, da enfant prodige, e successivamente come allievo di Yannis Tsarouchis, grande artista, definitivamente scoperto a “Documenta 14” (Kassel 2017), prima di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Atene. Inoltre, Dimitris in seguito attratto dalla danza e diventato performer, regista, coreografo, ha dichiarato di essersi interessato alle falene, sorta di farfalle ma pelose - secondo la superstizione popolare delle porta-sfortuna - e alla loro fatale attrazione per le fonti luminose artificiali (fototassi). Stop. Il resto ci induce a cominciare il nostro personale tragitto critico, dal titolo, come ci ha insegnato William Forsythe.
Ed ecco che quel fondale bianco con una porta a destra rispetto allo sguardo dello spettatore e un paio di gradini per l’accesso in scena, subito ci rimanda a Primal Matter, sbalorditivo duetto minimalista del 2012. Dimitris stesso - dopo dieci anni di assenza - vi ricompariva, vestito con il classico completo nero dei danzatori di sirtaki, cercando di incunearsi con ogni sorta di strategia nel corpo sacro e ignudo di Michael Theophanos, il suo partner, anche grazie al suo ormai collaudato Body Mechanic System: una prassi fisica, derivata dal butō, ma antipsiologica e atta a deformare le membra umane, a incastrarle le une nelle altre, ma senza provocare dolore. L’analogia con quel lontano duetto potrebbe concludersi con l’andamento orizzontale delle due pièces (obbligatorio tra l’altro all’Olimpico di Vicenza, dove Primal Matter debuttò nel 2015) e con un certo comune utilizzo più che essenziale (in specie se paragonato al turgore di Seit Sie/Since She o di The Great Tamer) di oggetti in scena: qui in, Transverse Orientation, scale strette, di metallo, sedie che si distendono a fatica e si trasformano, un microfono, un cerchio, un secchio di latta, un piccolo neon in alto a sinistra che balbetta nel suo luccichio incostante. Salvo che se il Raum (spazio) labaniano e assai nitido, e comune alle due pièces, l’elemento energetico - Kraft (ma anche Effort, sforzo) - differisce alquanto e non solo da Primal Matter ma anche da tutte le altre creazioni di Papaioannou conosciute in Italia, eccenzion fatta per il duetto Ink, dove si ravvisano pure analogie, ma di altro tipo.
L’andamento di Transverse Orientation è infatti calmo, induce alla contemplazione anche se non esclude momenti concitati di lotta: in sostanza siamo sempre ad Anafi, sull’isoletta greca, in specie se si presta attenzione al mirabile e perfetto mutare delle luci sul fondale che da bianco diventa cremisi, poi grigio, arancio, blu e rosa-rosso, come un intenerito tramonto nostalgico, e con un gioco di tagli e di tondi e un finale riverbero di pacate onde marine, che muove le luci stesse rendendole disegno puro e di una raffinatezza che andrebbe soppesata da sola. In Transverse Orientation, Dimitris ha infatti creato (anche grazie alla collaborazione con Stephanos Droussiotis) un’autosufficiente drammaturgia, o se vogliamo un’autentica coreografia delle luci, che basta a se stessa: ci incanta e ci avvolge, come un doppio binario in cui si inseriscono poco alla volta i suoi otto protagonisti, selezionati nel mondo (e con l’italiano Damiano Ottavio Bigi) e la musica di Vivaldi anch’essa centellinata con estrema cura, tanto che ogni pezzo non supera la durata di tre minuti, come accade per il Concerto per violoncello in Re maggiore (RV 407 Largo), per il Concerto “In due cori” in Si bemolle (RV 583 Andante) o per il quasi finale Concerto per fagotto in Sol minore magistralmente eseguito dall’ensemble L’Aura Soave di Cremona.
La pièce comincia con sette personaggi altissimi dalla testa piccola e le braccia allungate da qualche protesi nascosta: queste creature senza volto, immerse in un burqa maschile, non possono che ricordarci che tra i primi amori creativi di Papaioannou vi fu anche il fumetto. Il loro unico scopo in Transverse Orientation è raggiungere, con la smilza scala che talvolta si piega, quel neon posto in alto, di tanto in tanto pure rumoroso. Cinque di loro insistono nell’impresa poi vi rinunciano. In scena rimane solo un uomo-fumetto con un nanerrottolo tondo e caracollante che ci dà le spalle e sbatte la testa contro il fondale, forse perché anch’esso immerso in un burqa cieco. A fatica viene fatto uscire dal palco, quando, quasi in contemporanea, entra un altro personaggio con uno dei proiettori che si trascinano a terra ed elargiscono una luce accecante (come nell’installazione Sisyphus/Trans/Form alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia). Non abbiamo più dubbi: la pièce è un concentrato di frammenti nella storia artistica di Papaioannou che qui però acquistano sapori e profumi diversi. Tanto diversi che, a ben osservare, gli uomini, non più fumetto, che entrano in scena in giacca e pantaloni, non sono affatto riconducibili, nel loro sobrio vestiario, alla classica mise dei danzatori di sirtaki: le camicie sono pallidamente celesti, le stoffe tendono più al grigio scuro che al nero. Dettagli inutili? No. Qui tutto ha una sua minuziosa importanza.
Persino l’entrata di un mastodontico toro, inizialmente da domare, cui si avvinghiano tutti i performer maschili, è sì riconducibile alla mitologia, ma non certo al mito di Teseo. Il toro infatti si doma assai in fretta: un uomo nudo vi sale sopra e urla la sua vittoria, soffocando Vivaldi già in sordina. Chi lo doma davvero è però un giovane (Šuka Horn, crediamo) dapprima a torso nudo e poi nudo in toto, che calmamente, munito di secchio e microfono, abbevera l’animale in modo che si possa sentire anche il rumore del suo bisogno di acqua. D’improvviso ci accorgiamo che un corpo nudo si è collocato sotto il toro e dalla sua posizione fuoriesce una splendida danzatrice dal volto dolce e malinconico che si posizionerà sopra il collega ignudo e nuda anch’essa, rialzandosi, camminerà tenendo in mano il suo pene. La nudità è erotica: non è una novità e qui di certo non turba nessuno. Mentre il nudo Šuka porta a lato della scena il toro con un cerchio, si assiste a un gran daffare con la scala che si piega a forma di elle e sulla quale un uomo posa un impermeabile e al tentativo di aggiustare il neon capriccioso. Anche quella sedia di metallo, tanto simile ad una branda/sdraio impegna: dopo tanti sforzi per aprirla, pure la meravigliosa donzella ne resta intrappolata come in una botte di ferro.
Altro momento, ma di fragrante pop, coincide con un breve ballo maschile: tutti gli uomini in fila citano ma non solo, un gentile tip tap allegro e vivaldiano, per poi precipitarsi verso il fondale come ragni nel tentativo di scalarlo. Non è che uno dei tanti scatti inattesi della pièce, tra i quali trionfa l’apparizione della seducente fanciulla ignuda sopra il toro. Qui è in gioco il mito di Europa (forse); il volto della ragazza nella sua pacata soavità, non lascia trasparire alcuna tensione per essere stata rapita. Il rapporto tra umano, divino e animale è di innocente e candida naturalezza/purezza. Anche quando il toro sporcherà con le sue feci il volto del giovane Šuka che l’ha rabbonito e poi (a conferma) lo leccherà con la sua lingua ingigantita. Inoltre c’è profumo di mare. La donna in groppa al toro ha un riccio al posto della vagina: viene tagliato a metà e donato al giovane ignudo che lo poserà dentro il suo secchiello, tuffandoci pure la testa dentro. Virtualmente il mare, dietro il fondale, deve essere, in questo momento dello spettacolo, in tumulto: dall’unica porta in scena gli uomini si affrettano a mettere in salvo massi di poliestere, come se fossero pezzi di case od oggetti quotidiani visti nelle tante scene di tornadi cui abbiamo assistito in tivù. Il mare, in specie se oceano, può essere cattivo. Menomale che prima di questa scena burrascosa, compare un altro sketch da fumetto: un uomo nudo, dapprima subacqueo con pinne, conquista il centro scena; si esibisce in giulivi saltelli - i piedi uniti come un pinguino - mentre scintille dorate coprono la sua testa e il suo “numero” ad effetto.
Se siamo abituati ad ammirare gli incastri fisici di Dimitris, grazie al suo Body Mechanical System, non rimarremo delusi. Qui la donna si incastra in uno dei performer ma avviene anche il contrario. E poco più avanti gli uomini si infileranno entro assi, per finire addosso al fondale. Altre citazioni si sommano, smentite, se vogliamo, da una novità: la trasfigurazione della deliziosa creatura femminile in fontana che appare dal nulla e come tale lascia sgorgare tanta acqua. Venere di Botticelli bagnata? Perché no? L’importante è notare è che dopo essere apparsa nel trionfo della sua venustà, scompaia sottoterra. Ovvero sott’acqua. Certo ci saranno altre brevi lotte con il toro, trascinato da corde e poi d’un tratto scomposto in mille pezzi (non era forse un giocattolone?) e ci saranno uomini che per emularlo indosseranno teste di toro, contro le quali si avventerà l’insospettabile spada del sempre ignudo Šuka. A lui verranno persino strappate le budella in uno di quei cenni di inevitabile violenza che innervano la pièce. Tuttavia, avviandoci verso il finale tutto riacquista la sua calma contemplativa con una donna racchiusa in una vera e ornata conchiglia, portata in scena senza avvisaglie di sorta.
Dal suo corpo non del tutto ammantato di bianco, cola una grande quantità di liquido, simile a latte, e infatti il suo grembo genera un neonato (altra citazione da Ink). Lei accarezza questo bimbo dalla testa tonda, mentre viene porta via nella sua conchiglia. Vivaldi sparito, entra su silenzio una vecchia donna nuda e grassa con bastone che rumorosamente scandisce i suoi passi. Arriva, intinge il suo supporto ligneo nel latte rimasto nel luogo della conchiglia materna, poi se ne va. Sarà la morte, contrapposta alla vita appena assaporata? Chissà? Certo il neon traballa durante la sua uscita e suona una campanella. Che succede?
La porta si apre di nuovo; torna l’avvenente danzatrice, questa volta vestita di rosa pallido e da un secchio fa colare altra acqua. È seduta ma d’un balzo si alza e versa ancora liquido cristallino, questa volta su di una gran lastra lucida e nera. Speciale l’effetto della luce, mentre ancora una volta la musa dell’acqua (Teti?) sparisce sotto terra. Ed è bene che sia così perché vi è ancora fermento sottomarino. Sei uomini vestiti di tutto punto si agitano, smuovendo ed alzando le plance del mobile pavimento; così si mettono in salvo dall’urto dell’acqua che invade quella parte di scena. Ma questa volta il mare deve essersi quasi placato; ammiriamo i riflessi delle onde come parte di quella coreografia visiva descritta sopra. E osserviamo su una delle assi sollevate, come fosse su di una piccola roccia, il giovane ignudo Šuka; sta seduto immobile, scruta, immaginiamo, il mare, mentre un uomo si accinge vigorosamente a pulire il palcoscenico bagnato con un mocio.
Conclusione: in Transverse Orientation, oltre a ciò che abbiamo già evidenziato sull’impianto soprattutto illuminotecnico, musicale, e sull’insito minimalismo della scena, siamo di fronte alla pura e semplice creazione di paesaggi. Il corpo-mente è protagonista di sogni, di ossessioni elettromagnetiche: sappiamo quanto Papaioannou ami la ricerca del fisico serbo Nikola Tesla. In uno spiazzante collage di frammenti del suo passato creativo, scevro da ogni dichiarato influsso mitologico, Transverse Orientation assume la forma del ricordo, della felicità, del rimpianto per la forza trainante del mare, fonte di distruzione e di salvezza. Al pubblico la possibilità di fantasticare a piacere, o di sguazzare in questo Dasein heideggeriano di rara bellezza visiva e iconografica.