Saprai costringere le stelle a girare attorno a te?
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
Quando avevo poco più di 30 anni intrapresi un viaggio solitario nell’isola di Celebes, l’odierna Sulawesi, in Indonesia.
Verso la metà del mio soggiorno, dovendo recarmi all’estremo Nord dell’isola ed essendo il territorio da attraversare in gran parte inesplorato e quindi privo di strade, fui costretto a prendere un volo interno che da Ujung Padang, la capitale situata a Sud, mi portasse a Manado, la principale città del tentacolo settentrionale di quella gigantesca piovra verde piazzata nell’oceano che è Sulawesi.
Ora un “volo interno”, che probabilmente a molti sembrerà una cosa normale (come in effetti è), un noioso o magari divertente diversivo nel carnet de voyage, per me invece, era un vero dramma.
La mia inguaribile paura di volare che funestava ogni mia iniziativa di viaggio, veniva faticosamente domata se si trattava di prendere un volo intercontinentale di una grande compagnia tipo Lufthansa o Air France, la cui proverbiale sicurezza mi portava a pensare: figuriamoci se deve cascare proprio il mio su migliaia di voli che compiono ogni giorno? Siamo seri! Ma se si trattava di salire su un piccolo e scalcagnato trabiccolo usato ed abusato, di qualche oscura compagnia dal nome impronunciabile, con qualche orribile idoletto stampigliato sulla fusoliera arrugginita, allora quella paura riemergeva come un lupo dalle tenebre e mi attanagliava lo stomaco.
La mia dannata immaginazione un po’ paranoica, diciamolo pure, mi portava a prevedere un esito infausto e già vedevo i titoli sui giornali: “volo interno indonesiano scomparso dai radar nella jungla di Sulawesi, si dispera di trovare superstiti, un italiano tra i dispersi...” e via di questo passo.
In realtà avevo qualche attenuante che giustificasse questa mia mia assurda paura, da quando a diciotto anni, in un’altra isola che non ha tentacoli, almeno geografici, ma solo tre punte: la Trinacria Sicilia, in un mare forse ancora più azzurro: il Mediterraneo, dovetti affrontare un atterraggio di emergenza che mi segnò profondamente.
Un’altra circostanza che rendeva ancora più insopportabile l’ansia era la brevità del volo che non mi avrebbe consentito di imbottirmi di ansiolitici come usualmente facevo quando dovevo salire su un aereo e che mi mettevano KO per un lungo volo intercontinentale, ma che non avrei certo potuto usare in un voletto di poco più di mezzora.
Comunque ci sono salito su quell’aereo, e purtroppo sveglio come un grillo e teso come un condannato sulla via del patibolo.
In realtà il “trabiccolo” era un Boeing nuovo fiammante e la linea la Garuda, un’ottima compagnia con la quale, peraltro, ero già arrivato fino lì, perciò, rincuorato dal nitore e dalla routinaria, serena efficienza dello staff, affronto il decollo, scorticando con le unghie i braccioli che, bontà sua, la compagnia non mi ha mai addebitato.
Dopo qualche minuto di volo sopra la brutta periferia della antica Makassar, l’aereo prese rotta Nord-Est e cominciò a sorvolare l’isola ad una quota che mi pareva assai bassa ma che mi permise di cogliere in pieno la bellezza della geografia di Celebes.
Da lassù il mio sguardo passò dall’arcipelago delle Pabbiring, una manciata di perline turchesi gettate nel blu, all’oramai familiare golfo di Bone dove notai con rammarico che al largo di Palopo, dove mi ero un po’ annoiato, c’era invece un bel reef corallino che avrei potuto esplorare (allora non esisteva Google Earth!), poi capo Batikala, a Sud di Malili, una lussureggiante penisola circondata da candide sabbie e da una probabilmente intatta barriera corallina lungo tutto il suo perimetro.
Così, volando su foreste, risaie e coralli, il volo proseguì tranquillo fino all’annuncio delle manovre di avvicinamento a Manado.
Dovete sapere che Sulawesi è un’isola vulcanica e a circa 16 km dalla città, meta del volo, si ergono due coni vulcanici gemelli: il Lokon e l’Empung e quel buontempone del pilota cosa fa? Pensando forse di fare cosa gradita ci passa proprio in mezzo e con un paio di virate, come se stesse pilotando un Piper, ci fa fare un giro panoramico sopra i crateri fortunatamente spenti prima di allinearsi per l’atterraggio.
Penso di avere avuto sotto le unghie per tutto il resto del viaggio un bel po’ della finta pelle del sedile, comunque, nonostante il giro turistico, alla fine tutto filò liscio e atterrammo a Manado.
All’aeroporto, sbrigate le formalità, incontro una specie di scimmietta in giacca e cravatta di almeno due taglie più grande, madido di sudore, che in un perfetto inglese mi porta alla sede locale della Toyota dove mi consegna una Kyan nuova fiammante con tanto di aria condizionata, stereo e la famigerata chiusura centralizzata giapponese che, se per caso dimentichi dentro le chiavi, la macchina si chiude a riccio e la devi aprire col piede di porco.
Dopo aver preso confidenza con il mezzo mi inoltro nel traffico demenziale di Manado e, lasciatamela alle spalle, mi avventuro in quel giardino tropicale che è l’isola.
Mi dirigo a Nord, verso Capo Torawitan, ed essendo oramai pomeriggio inoltrato decido di raggiungere Seraj, che avrebbe dovuto essere un piccolo e pittoresco porticciolo di pescatori e che invece si rivela essere un triste agglomerato di baracche fatiscenti che, approfittando di qualche residua ora di luce, mi lascio alle spalle, proseguendo lungo l’ottima strada che piega verso Est nell’entroterra, tra eleganti ma monotoni boschi di cocco.
Nella regione semiselvaggia di Likupang ritrovo l’oceano, il suo profumo e il suo canto, ma oramai è sera e devo trovare un posto per passare la notte.
Ad un certo punto l’insegna luminosa di un albergo attira la mia attenzione, mi inoltro lungo una strada sterrata ma ben curata che corre tra la foresta ed una spettacolare spiaggia nera, al termine della quale onde colossali si frangono sollevando dalla candida spuma una nebbia azzurrina.
Al termine della sterrata c’è un piccolo hotel, che seppi essere stato inaugurato pochi mesi prima, discreto ma decisamente “charmant” e che fortunatamente ha un bungalow libero proprio in riva al mare.
Espletate le formalità e scaricato il mio bagaglio personale e soprattutto la mia inseparabile borsa fotografica che conteneva, oltre alla mia Nikon, tutti i miei averi compreso passaporto e biglietto di ritorno, mi concedo una doccia tonificante.
Dovete sapere che a quel tempo ancora non esistevano i cellulari e quindi i viaggiatori che come me, volevano documentare fotograficamente i propri viaggi, si dovevano portare appresso un pesante fardello che, come minimo, comprendeva il grosso corpo di una reflex 35 mm con almeno uno zoom 24-70 e uno 70-210 per coprire tutte le focali, aggiungete un flash, pile di ricambio cianfrusaglie come torcia, coltellino centousi, soldi e i documenti, il tutto appesantito dall’umidità penetrante del clima, e farete presto a sommare parecchi kg da portare a tracolla.
Comunque, fresco e riposato dopo la breve sosta nel mio alloggio, inizio ad aggirarmi per l’alberghetto e scopro che ha perfino un diving, un centro per immersioni, gestito da un italiano, un segaligno calabrese che mi racconta che in tre mesi ha visto pochissimi turisti, che l’acqua non è limpidissima e che le immersioni costano 60 dollari.
Chiacchieriamo un altro po’ quando un profumino di esotiche cibarie mi giunge alle narici e dato che avevo saltato il pranzo, se così si può chiamare la disgustosa razione preconfezionata che rifilano in aereo e che con lo stomaco chiuso dal terrore, comunque, non avrei mangiato nemmeno si fosse trattato di un pasto principesco, mi accorgo di avere una gran fame.
Saluto il compatriota e mi avvio al ristorante dove divoro un eccellente Nasi Goreng, piatto tipico indonesiano costituito da riso fritto con pollo, gamberetti e verdure saltate con l’immancabile Coca-Cola, il tutto per una manciata di rupie.
Il ristorantino era sulla spiaggia infatti l’alito della risacca, la nebbiolina corroborante generata dai marosi, giungeva a rinfrescare la calura soffocante della notte tropicale.
Mi inoltro nell’oscurità fuori dall’ombrello di luce del locale seguendo una grossa lucciola la cui luminosa intermittenza, così diversa dalle nostre, sembra quasi generare un impercettibile ronzio. Presto il buio scintillante mi avvolge completamente, estraggo la mia piccola ma potente torcia e mi trovo a passeggiare nelle pozze che la bassa marea lascia ritirandosi.
Un microcosmo di piccoli esseri acquatici si rivela al raggio di luce: una gran quantità di ofiure, stelle marine dalle strane braccia lunghe e mobilissime, oloturie e nudibranchi, piccole lumache prive di guscio dai brillanti colori si inseguono in bizzarre ed elaborate coreografie, alcune splendide cipree, preziose conchiglie che di giorno riposano negli anfratti della barriera corallina, brucano le alghe mentre micidiali ricci diadema fanno vibrare le lunghe terribili spine.
Piccole murene tropicali marmorizzate cacciano pesciolini e un cucciolo di rinobatide, un pesce chitarra affine agli squali ed alle razze, sguazza penosamente in una pozza particolarmente bassa. Lo catturo e lo porto in una grande vasca profonda dove scompare sotto una madrepora. Esco dalla scogliera e salgo la duna costiera sotto un cielo di stelle stupefacente.
So che i grandi felini, tigri e leopardi, qua non ci sono quindi mi avvio tranquillamente verso il margine della foresta e illumino tronchi di alberi colossali, fichi strangolatori, pandani e grandi Takamaka, chissà che non incontri un tarsio spettro, la piccola deliziosa scimmietta che vive solo a Sulawesi?
Spengo la torcia e il buio mi inghiotte, grilli, cicale e milioni di altri esseri invisibili stridono, fischiano e ululano componendo l’assordante ma ipnotica sinfonia notturna della foresta tropicale le cui fronde, nerissime, si stagliano contro un cielo rutilante in cui non riconosco alcuna costellazione.
Dove è il Gran Carro dell’Orsa Maggiore che vedo dal terrazzo di casa? Dove è andato a cacciare Orione con la sua cintura scintillante? E l’Orsa Minore con la Stella Polare? Dove sono andati? All’improvviso mi accorgo di quanto sono solo. Questa improvvisa consapevolezza mi stringe la gola e mi fa quasi vacillare ma dopo un attimo di smarrimento riprendo il controllo e una grande quiete ed una profonda serenità calano in me.
Penso con orgoglio che così è perché così ho voluto che fosse e mi venne in mente un passo di un libro di Nietzsche che illuminò la mia adolescenza e che ho amato profondamente: “Saprai costringere le stelle a girare attorno a te?” Si chiede Zarathustra nella sua solitudine.
Forse sono stato tracotante a pensare di far danzare le stelle attorno a me, ma esiste una tracotanza buona, che non è superbia, non getta alcuna sfida agli dei ma, come dice il significato profondo, etimologico di questa vertigine dell’essere, getta oltre il proprio sentire, il proprio desiderio e dove lo getta se non proprio verso quegli dei, oltre le stelle?
La mia era la solitudine di colui che consapevole della propria pienezza parte per le Terre di Sogno dove il suo spirito è libero di correre e, perché no, anche di inciampare e di sbucciarsi i ginocchi, in quei territori di bellezza e di mistero dove perdersi o ritrovarsi per sempre.
Quando sono partito conoscevo i rischi di un viaggio come questo, i fantasmi che la solitudine evoca e gli echi inquietanti che il silenzio permette di udire, o anche il nulla. Perché il rischio maggiore era che uno come me, con le aspettative che aveva nell’incontro della propria anima con la Natura, nella perfetta solitudine e nel perfetto silenzio non udisse riecheggiare nelle profondità del proprio essere null’altro che quella solitudine e quel silenzio.
Ma ero pronto ad affrontare quel rischio perché era pur sempre vita esaltante ed effettivamente un po’ esaltato, in quel periodo della mia vita, lo ero veramente.
D’altronde ritenevo che il mio anelito di conoscenza e la mia ricerca dell’assoluto, in nessun’altra condizione potesse spingersi tanto vicino alla rivelazione come nella luminosa contemplazione della Natura libera e selvaggia, quale riflesso dell’abbagliante splendore di Dio.
C’è qualcosa di grande, di eroico e al tempo stesso di tenero in un’anima sola, nella notte sfavillante, che piena di speranza e di gioia di vivere bussa alla porta delle stelle aspettando una risposta che non sa di avere già dentro di sé.
Ora, a più di vent’anni da quella notte, mi rivedo laggiù su quella spiaggia e se potessi griderei a quel folle solitario che ero, ciò che ora so e che allora intuivo solamente: non le senti le stelle danzare dentro di te? Non hai visto l’Universo che per un attimo si è fermato a guardarti? Povero pazzo! Non sarai mai più vivo di così!
Mi addormentai sotto quelle stelle sconosciute, o forse, un poco, ci sono morto.
Sicuramente questo credeva quel grosso paguro che, dopo forse un’ora, mi pizzicò con forza il mignolo, che fossi un cadavere gettato dalla risacca, e che era suo preciso dovere far sparire con l’aiuto dei suoi compari e che invece venne scaraventato lontano dal mio brusco risveglio. Era ora di tornare al bungalow, dovevo riposare perché l’indomani avrei iniziato sul serio ad esplorare i leggendari giardini di corallo del mare di Celebes.