Senza poter affrontare in questo mio articolo alcuni importanti e preliminari aspetti del diritto e così, più in generale, della sua funzione a tutela della giustizia intesa come “regina delle virtù” (in modo particolare se ogni virtù presuppone la presenza degli altri e la condizione di coesistenza, a maggior ragione è sociale la giustizia, “la quale riguarda direttamente i rapporti di coesistenza e mira a regolarli in maniera equa, senza avvantaggiare nessuna delle parti”, così Sergio Cotta, Perché il diritto, Ed. La scuola 1979), perché dovremmo ricorrere alla nobile disciplina della “filosofia del diritto” (branca del sapere giuridico che si occupa di fondamentali questioni di senso, di finalità, di metodo del diritto), vorrei soltanto soffermarmi su una questione di base relativa alla giurisprudenza (ovviamente al di là dei problemi legati alla qualità - umana e professionale - dei giudici, ed ai vari aspetti dell’organizzazione della magistratura e dei molti nodi legati, ad esempio, al rapporto tra politica e magistratura).
In buona sostanza la grande sfida che il diritto deve affrontare non è tanto quella di dover scegliere tra un “valore positivo” e uno “negativo” (ad esempio, tra il derubato ed il ladro; in tal caso semmai il problema si sposta eventualmente sul piano investigativo e processuale per riuscire ad individuare il vero responsabile dell’azione “furto”), ma quella di “mediare” tra due valori “entrambi positivi” e meritevoli di tutela, ma in qualche modo conflittuali.
Tanto per fare un esempio di questa necessità di trovare un equilibrio (appunto una sintesi ed una “mediazione”) tra “valori” se non opposti almeno diversi, è interessante riflettere sulla norma dell’art. 81 del codice civile, dove viene previsto da un lato il dovere del risarcimento del danno a carico del fidanzato-a (promittente) che, senza giusto motivo, si rifiuti di eseguire la promessa di matrimonio fatta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata, oppure risultante dalla richiesta di pubblicazione, ma limitato alle spese sostenute ed alle obbligazioni contratte dalla controparte a causa di quella promessa (poi non mantenuta); ma dall’altro lato - proprio per la riduzione di legge del valore del risarcimento - si vuole tutelare il principio di “libertà matrimoniale” (cioè la libertà delle parti, fino al momento della perfezione del matrimonio, di decidere di sposarsi o di non sposarsi con quella determinata persona), evitando la risarcibilità dei danni ulteriori e indiretti (ad esempio, la rinuncia ad un lavoro in vista del matrimonio, con la richiesta del c.d. “lucro cessante”).
Dunque, la logica giuridica sottesa a questa norma è quella di evitare che se il promittente venisse esposto al rischio di dover pagare una grossa somma come risarcimento, tale obbligo determinerebbe nel suo animo un forte condizionamento spingendolo, forse, a sposarsi contro voglia pur di evitare un cospicuo pagamento. Come si può vedere chiaramente, in casi di questo tipo occorre riuscire a bilanciare l’esigenza di ristorare il fidanzato-a abbandonato-a senza giusto motivo (perché è ovvio che il discorso cambi qualora la parte abbandonata abbia, con la sua condotta, dato validi motivi di rifiuto alla controparte), con quella di non gravemente condizionare la legittima libertà matrimoniale dell’altra parte di sposarsi o meno. Di conseguenza, davanti a casi di matrimoni sfumati, i giudici dovranno valutare le due opposte esigenze previste dalla norma, arrivando a bilanciamenti magari diversi, non soltanto in base ai differenti e specifici interessi e caratteristiche in gioco (giacché un caso non è uguale ad un altro; pertanto anche l’operatore del diritto deve individuare, con una certa abilità, il precedente giurisprudenziale effettivamente efficace per la propria fattispecie), ma in coerenza alla propria sensibilità (umana e giuridica) che, partendo da quei differenti elementi in gioco (pensiamo alla forza economica delle parti, alla qualità della loro relazione ed alle modalità in cui è avvenuto il “gran rifiuto”), può arrivare a differenti conclusioni (anche per la stessa evoluzione del costume sociale).
Ecco perché la varietà della giurisprudenza è non soltanto inevitabile (per la difficoltà del “giudicare” e per l’infinita varietà della casistica), ma può rappresentare una giovevole evoluzione in vista di quella costante ricerca della concreta giustizia, mai completamente raggiunta, che tiene conto delle molteplici esigenze che via via si presentano. Premesso che in ogni questione giuridica potremmo trovare delle sentenze con esiti diversi (al di là poi dei tre gradi di giudizio, per consentire eventuali aggiustamenti o ripensamenti delle decisioni giurisprudenziali considerate), sempre in tema di diritto di famiglia, vorrei proporre qualche esempio concreto di questa salutare diversità giurisprudenziale (a volte apparente, talvolta minima, altre volte significativa).
Cass. 18 gennaio 2017 n. 1162 ha stabilito che “in tema di separazione personale dei coniugi, alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti. Al più, alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento”. Invece Cass. 10 gennaio 2018 n. 402 ha deciso che “la breve durata del matrimonio (28 giorni) esclude la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento, in quanto non si era ancora realizzata, al momento della separazione, alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi”. In questo caso il “contrasto” è apparente, in quanto nell’ultima fattispecie era emerso un matrimonio “fittizio”, finalizzato ad altri accordi economici tra le parti.
Altro caso di contrasto è quello tra Cass. 15 maggio 2013 n. 11686, secondo cui “l'accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi”; e Cass. 22 novembre 2000 n. 15055, la quale ha precisato che “poiché presupposto per la concessione dell'assegno divorzile è l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi a garantirgli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, correttamente il giudice del merito, cui spetta il relativo accertamento, ravvisa il deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza dal divorzio nel caso di insufficienza delle disponibilità economiche dell'istante, essendo irrilevante la mancata richiesta o la rinuncia all'assegno in sede di separazione”.
Ben rimarcando che l’assegno di divorzio - come chiarito da Cass. Sez. Un. 11 luglio 2018 n. 18287 - ha funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch'essa assegnata dal legislatore all'assegno divorzile, che “non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi” (in senso difforme Cass. 29 settembre 2016 n. 19339, la quale aveva invece evidenziato il principio della conservazione del precedente tenore di vita coniugale). Vale la pena soltanto di accennare che lo scopo perseguito dalla Cassazione a Sezioni Unite è quello di evitare il rischio di trasformare l’assegno divorzile in forme di rendita parassitaria.
In conclusione, occorre capire che “il diritto non è meccanica è arte; e il giudice cui manchi quell’arte, non è un giudice, ma o un burocrate o un rivoluzionario”. Ovviamente rimarrà sempre un margine insopprimibile di incertezza, come avviene del resto nel mondo dei giuristi: “Per questo gli scrittori di diritto sono in continua contraddizione tra loro, e spesso con sé stessi, ma è attraverso i contrasti di opinione che la scienza progredisce. Perché la giurisprudenza dovrebbe obbedire ad una ragione diversa?” (così Mario Berri, “Il diritto è arte non è meccanica”, in L’Osservatore Romano del 7 ottobre 1989). L’alta lezione educativa del diritto (che è una delle scienze più antiche) è proprio l’umiltà con la quale si deve esaminare ogni dubbio e l’equilibrio con il quale si deve risolverlo. Ben sapendo che le norme non possono che rappresentare, nel misterioso fremito della vita, la parabola che si muove tra la grandezza spirituale dell’uomo e la sua limitatezza fisica che ne comprime lo slancio.