Ben noto come poeta, un po’ meno come prosatore, Giuseppe Ungaretti, ha percorso le terre del Sud Italia che ha descritto con magia e incanto ben oltre i cliché del genere letterario: queste pagine si presentano come dosata miscela di prosa d'arte e di invenzione metaforica, galleria di personaggi e di paesaggi, fusi con straordinaria sintesi.
È il 1934 quando Ungaretti in qualità di inviato della Gazzetta del Popolo di Torino percorre varie parti d’Italia. Tra il 1931 e il 1933 il poeta aveva già attraversato l’Egitto, la Francia, l’Olanda, la Corsica. Egli elabora gli appunti presi durante questi viaggi che sono pubblicati da Mondadori con il titolo Il deserto e dopo, un titolo che vuole quasi essere un forte rimando al paesaggio egiziano, un paesaggio presente tante volte nella sua poesia.
“È un bel libro. Più bello di quanto potessi aspettarmi", così il poeta scrive il 14 gennaio 1960 ad Alberto Mondadori, che edita il libro l’anno successivo. La terza parte di queste sue prose di viaggio è intitolata Mezzogiorno e comprende alcune pagine di diario che descrivono il Cilento unendo con maestria la prosa d’arte e l’invenzione metaforica. Alfredo Guida nel 1995 pubblica questa parte col titolo Viaggio nel Mezzogiorno. Il poeta regala ai suoi lettori un suggestivo e sintetico ritratto di luoghi e paesaggi cilentani. La tecnica verbale ungarettiana si fonde in perfetta sintesi con la tecnica pittorica, sembra quasi di trovarsi davanti ad un grande affresco. Sono scarse le presenze umane citate, l’uomo lascia il posto alle immagini di una forte e vitale natura raccontata con i colori di una tavolozza ricca di poeticità.
Nel primo capitolo che porta come titolo Elea e la primavera, in viaggio da Salerno a Velia, Ungaretti attraversa la piana del Sele e riserva un’annotazione anche per le bufale “che s’avvoltolano nel sudicio per non sentire le mosche, che vanno in giro con quella crosta, sulla quale cresce anche l’erba, portando le gazze che le prendono per alte zolle. Brave bestie del resto, e produttrici del latte che dà quelle squisite mozzarelle, un vanto – e perché no? – di questa regione.”
Un capitolo a parte è dedicato a Paestum, egli rileva come l’ambiente malsano di cui sono circondati i templi “ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza”, che si fa dominante, sino a “farsi pura idea via via che ci avviciniamo”. Ed è la meraviglia dell’immaginifico di una storia di civiltà che resiste al tempo, ai secoli e, spesso, anche alla incuria degli uomini. Guarda, il poeta, il tempio di Poseidone e annota: “Un travertino come un vetro infiammato: nel cuore della pietra brucia la luce che non consuma”. Di fronte a tanta maestà l’uomo è annientato, perché al cospetto “d’un’arte che colla sua giusta misura lo schiaccia”. Intorno è ancora abbandono di “colonne vuotate dai lunghi anni con i labirinti delle carie”.
Pensieri profondi di esistenza ed essenza scaturiscono nell’animo del poeta. E annota: “Non so, ma tutte le cose che ci toccano l’anima, tutti i nostri atti purificati, sono come una terzina di Dante, una musica slanciata e imprigionata in una geometria”. Si avvicina al tempio, volano cornacchie appena vicine con il loro gracchiare e scopre, in quelle urla, che “la metrica del loro canto è quella del tempio”. Giunge alla Porta Marina dove svettano due fichi selvatici: su uno aleggia la luna all’ultimo quarto, sull’altro sosta la carezza dell’ultimo sole, che lo fa luccicare insieme al mare.
La Rosa di Pesto riporta la meraviglia del poeta di fronte ai templi: “Circondandoli di febbre, seminando per tante miglia all’ingiro la paura, il tempo ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza. Che vediamo crescere, dominare, farsi arida, tremenda, disumana, e farsi pura idea via via che ci avviciniamo. Ora che siamo vicini, avviene che uno stormo di cornacchie si mette in fuga dal tempio di Poseidone; e appena in aria, una prima cornacchia lancia il suo gracchio; le altre rispondono rifacendo più e più volte quel verso. Di nuovo il corifeo strazia l’aria: questa volta i gracchi erano due, di tono nettamente più acuto; e il coro ripete i versacci accelerando il ritmo. Dopo, esse, in una confusione di strilli, spariscono… Sarà per averci fatto il nido da tante mai generazioni, sarà caso, sarà natura di questi uccelli atri, ma la metrica del loro canto è quella del tempio. […] Ed allora girandogli intorno, l’uomo raggiunge l’ultimo limite dell’idea del suo nulla, al cospetto d’un’arte che colla sua giusta misura lo schiaccia”.
Proseguendo nel suo viaggio tra le righe che parlano di “quell’alta rupe” si riconosce la Punta di Agropoli: “E che cos'è quell'alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un'elegante geometria? E perché l'erba, quasi azzurra su quella rupe, trascolorisce irrequieta, come da un sottopelle di tatuaggio a una scorticatura smaltata? Ne vedrò più tardi l’altra anca, nuda e scabra: è la Punta d’Agropoli, e, come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città: un'unica strada che le case fanno stretta, che bruscamente diventa quasi verticale, e ci offre una prospettiva di gente sparsa in moto. Alcune donne sono vestite di rosso […] […] questa costa fu assalita dagli Arabi nell’ottavo secolo; questo luogo fu una loro sede; e fu sempre meta della rabbia dei corsari, i quali, meno d'un secolo fa — conviene ricordarlo — sbucavano ancora sui nostri mari. Questa piana di Pesto che i monti serpeggiando limitano sul golfo come un immenso triangolo — ne è apice il promontorio d’Agropoli — servì a campi di battaglia: Bizantini, Longobardi, Saraceni, qui si scontrarono; e provo solitudine (un desolato, interno colpo di tamburo accentua il silenzio) e grandezza per la presenza del mare e anche, ora lo sento, per quella maestà religiosa che hanno per sempre i luoghi dove è passata la Guerra”.
Le sue descrizioni dicono di Punta Licosa, “la costiera taglia il monte […] e interrompe un avviarsi di magri pini […] tentennati dal vento” e poi della Valle dell’Alento dove “gli ulivi si radunano, le creste salgono sino al Monte Stella”.
Quando Ungaretti giunge ad Elea commenta con disillusione, “È dunque questa, Elea, città fondata da fuggiaschi è dunque questa, Velia, verso cui Cicerone fuggiva quando fu ucciso? Un colle e, su, un castello come una gran carcassa di gallo fra due torri — e null'altro? La gente è rifugiata ancora dall'altra parte delle pendici, e il castello, che Carlo V munì poi delle due torri, è Castellammare della Bruca; costruito dai Benedettini guerrieri, che stavano, anch'essi, dietro i monti, fra le eriche, nel monastero di S. Mauro. E una volta, prima che il mare si ritirasse, il colle ci si specchiava, mille anni fa, quando ancora fra qui e Palinuro c'erano i segni d'una comoda città. Elea, questa è Elea, città di fuggiaschi, dove anche il mondo aveva finito col diventare un'assenza: questa è Elea, oh, città assente!”.
Poi il poeta sale in cima e si sofferma nella meditazione non mancando di menzionare gli antichi filosofi che la abitarono, come Senofane e Parmenide. È l’assenza che in questo posto diventa un vero e proprio strumento generatore di memoria per il poeta dell’essenzialità. “Scendendo, m’accorgo di tre ulivi: hanno il tronco corto e liscio, e, grandissime, le braccia alzate. Non sono favolosi come altri, questi ulivi, ma sembrano, fino alla cintola ancora nel sepolcro, dei morti [nel libro è scritto forti; dovrebbe essere un refuso, n.d.r.] resuscitati che per pietà vorrebbero tornare morti. Incontro poi delle piante oscene: asparagi selvatici, giovani cardi le cui foglie increspate, variegate come da cicatrici, s’attaccano alla terra come aspirate da un bacio”.
Il secondo articolo, 5 maggio 1932, è intitolato La pesca miracolosa e chiarisce subito il concetto di viaggio come metafora della ricerca per la quale il “vedere” fa un passo avanti rispetto al descrivere. Qui Ungaretti conferma il carattere ma soprattutto “la cordialità della gente di queste parti” che per il poeta rappresentano “ormai civiltà assai rara”. “Non entrano nei fatti vostri; vi rivolgono di rado la parola, ma non perché timidi o privi d’eloquenza, ma perché assenti in propri pensieri. Ma basta che esprimiate un desiderio, ed eccoli farsi a pezzi per accontentarvi: lo fanno per inclinazione a farsi benvolere, e mi pare ormai civiltà assai rara. Terra ospitale, terra d’asilo!” È così che il Cilento viene definito!
“Pisciotta si svolge in tre fasce su una parete: la più alta è il vecchio paese, di case gravi e brune e a grandi arcate; in mezzo, sono ulivi sparsi come pecore a frotte; la terza, a livello dell’acqua, la formano case nuove e leggere, i cui muri sembrano torniti dall’aria in peristili.[…].”Andando in avanti […] appare, penetrato nel mare, Palinuro, come “uno squalo smisurato, cariato d’oro […] in mezzo sono ulivi, sparsi come pecore a frotte […] ora i monti che ci fiancheggiano vanno avanti e indietro, e alcuni arrivano ritti sull’acqua, e altri, prostrati, appiattiti, si prolungano in orazione verso l’acqua […] Di colpo il mare in un punto ha un forte fremito: è un branco d’anatre marzaiole che si rimettono in viaggio […] Piccole grotte ora ci fanno compagnia. I cavalloni penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre, muovendo un rumore di antiche ossa”. Giunge al porto di Palinuro: “Il porto di Palinuro ha le casette bianche, e l'ultima è rosa: sembrano sulle prime biancheria stesa ad asciugare, e poi blocchetti di gesso. La nostra paranza non potendo penetrare nella grotta di Palinuro, facciamo cenno a un pescatore di venire colla sua barca, e gli andiamo incontro. Non ho mai visto acqua di pari trasparenza a quella che scopro avvicinandomi al porto. Vediamo la sabbia del letto come pettinata soavemente, e i nastri delle alghe trasformare in serpenti agitati, la bella capigliatura”.
Ungaretti con i suoi amici visita la Grotta Azzurra dove “l'acqua illuminata di sotto rischiara come una luna, e sembra una buccia di celluloide turchina. Con occhio sottomarino, vediamo allora sorgere — e fare capitomboli tra le pareti bluastre della caverna, come nel mezzo dell'interno d‘un'uva — dall'acqua, un delfino impietrato: roccia lercia, ma sorprende che in quest'acqua chiusa non ci sia di vivo che questo sasso, della forma dei delfini balzanti nel golfo. E mi torna in mente il Dio Sonno che sparì come uccello, e Palinuro come pesce...”.
Il poeta assiste al ritorno dei pescatori e ascolta i loro racconti circa una pesca miracolosa. Si tratta della testa di Apollo “alzata in palmo d’una mano rugosa.” In questa sua descrizione egli sembra confermare il binomio sogno – memoria con l’evocazione del mito virgiliano di Palinuro, simbolica figura della fedeltà alla vita che contrasta l’avanzata di Sonno – Morte.
Il suo viaggio al Sud comprende anche Pompei, Ercolano, il Vesuvio e Napoli: nelle descrizioni di questi luoghi sembra quasi che il poeta–turista parli di una terra che ha appena cominciato a vivere, mostrandone il “segreto” più profondo con il paesaggio che si manifesta come sentimento. È la forza della prosa di un maestro del Novecento italiano che dipinge la terra di un Sud, una volta poco frequentato, con eleganza e passione.