Maria João Pires, è la pianista romantica per eccellenza, figura esile e minuta ma in grado di trasmettere allo stesso tempo energia, vitalità e dolcezza, sottolineate da una diteggiatura incomparabile ed apollinea sui tasti del pianoforte. Una musicista che ha fatto la storia del suo strumento negli ultimi 40 anni, recente protagonista del concerto di chiusura della XXI edizione di Armonie d'Arte Festival, presso il parco archeologico di Scolacium, in Calabria. Una manifestazione di rilevanza internazionale, il cui deus ex machina è la direttrice artistica Chiara Giordano.
La Pires che vive fra il natìo Portogallo e la Svizzera è nota anche per il suo impegno didattico e filantropico: difatti, ha fondato il Belgais Centre for Study of the Arts in Portogallo, una struttura pensata per offrire ai giovani artisti la possibilità di sviluppare il proprio talento, le cui attività dovrebbero riprendere a breve, nonostante la mancanza ufficiale di fondi a sostegno. Conversare amabilmente con lei è stato un vero privilegio.
In questa esclusiva italiana ha presentato un repertorio basato su pagine immortali di Chopin e Debussy, affrontate come sempre in maniera superba: c'è un compositore che vorrebbe approfondire a questo punto della sua carriera?
Sto bene in salute e ho la fortuna di essere in piena attività. Nel tempo che ho ancora a disposizione, mi piacerebbe approfondire il repertorio che già conosco, per poterlo approfondire e comprendere meglio. Amo unire Chopin con Debussy, mentre Schubert va molto bene con Beethoven. Ho qualche difficoltà ad articolare le mani e cerco sempre di combattere per superare i limiti imposti dall'età, ma di essere lucida per non arrivare a pormi delle sfide impossibili. Anche se questo purtroppo limita i miei desideri e le mie aspirazioni. Al momento voglio ancora indagare le sonate di Chopin e magari suonare qualcosa che conosco, ma che non ho mai affrontato.
Con quale criterio sceglie il suo repertorio?
In base ad una serie di elementi. Ad esempio, il programma musicale utilizzato in estate è differente da quello che preferisco suonare in inverno. In inverno si ha una certa intimità e un differente approccio, mentre se uno è in vacanza o vive l’estate in generale, si trova in uno stato d'animo più semplice da capire, ti fa sentire più romantico. È un momento in cui c’è un rapporto più diretto da persona a persona. E lo stesso pubblico ha un approccio diverso nei confronti della musica.
Come vive questo rapporto con chi l'ascolta e cosa rappresenta per lei suonare dal vivo adesso?
Suonare dal vivo non è proprio la mia dimensione ideale, anche perché io non faccio musica per il pubblico, che resta però una parte imprescindibile dell'evento. Provo a spiegarlo in altre parole: ci sono i musicisti e gli spettatori: insieme creano musica. Perché ascoltare è la stessa cosa di suonare. Nel profondo, si riceve da entrambe le parti un qualcosa. Se guardi, o ascolti o se stai suonando: rappresenta il cuore pulsante dell’evento. Questo per me è il concerto, ovvero condividere un momento che accade in quell'istante tra gli esseri umani. Non si tratta semplicemente di suonare per il pubblico, così come non esiste un pubblico buono o cattivo. C’è un momento che va a costituire un evento. E ciò che uno dà sul palco, sicuramente lo riceverà indietro, anche se rappresentare un compositore sul palco è sempre una grossa responsabilità. Ad ogni modo non sono una “stage person”, ovvero una persona che brama il palco. Preferisco suonare in posti piccoli, possibilmente con persone che conosco e non molte volte all'anno.
Cosa è cambiato tra il concertismo degli anni passati ed oggi?
È cambiato molto, troppo e troppo velocemente per me. E, difatti, non ho avuto tempo di adattarmi a questo cambiamento. Sto ancora cercando di non aderire ad un sistema che comunque non mi rappresenta, per cui mi sforzo in qualche maniera di adattarmi. È diventato tutto troppo commerciale, troppo velocemente. E è tutto così competitivo. Non capisco come si possa pensare di unire competizione e arte. Sarebbe come dire alla luna di riscaldare la terra o al sole di bagnarla. Non si possono mischiare queste due cose. Qualcuno cerca di farmi capire questa nuova visione, dicendomi che i giovani devono scoprire la propria strada, guadagnare soldi e hanno bisogno di competizione. Ma questo per me non significa niente. L’arte per me è pura espressione umana che deve essere indipendente da qualsiasi cosa.
Ma quando lei era studente non pensava di fare carriera, che voleva diventare famosa?
Ero talmente entusiasta da non avere questo tipo di pensieri. Quando avevo 17-20 anni per metà giornata riassettavo case per avere poi qualche soldino in più per potermi permettere di studiare e suonare il piano. Di sicuro ero molto più contenta dei miei studenti di oggi, quelli che scrivono ai manager, si iscrivono alle competizioni. Non suonano per le competizioni come dovrebbero, aspirano solo ad essere lì. Devono vincere e basta. In questo modo non si allena la propria creatività, la capacità di restare puri in questo modo, non si suona più per la gioia del suono.
Le piace un fenomeno come Lang Lang, ad esempio?
Non ho nulla da dire su di lui dal punto di vista esecutivo, parliamo di un prodigio: la tristezza mi sovviene al pensiero che stiamo parlando di un giovane vittima di una potente campagna di marketing che non ha nulla a che vedere con l'arte. È stato il motivo per cui ho deciso di abbandonare la Deutsche Grammophon che pure ha fatto tanto per lo sviluppo della mia carriera. Ma c'è un limite a tutto.
Come sviluppa il flusso di consapevolezza per la musica che esegue?
Per un interprete si tratta di arrivare a una simbiosi tra ciò che sei e quello che vuole il compositore. L’interprete è come un attore. Lui non scrive, ma è come se leggesse un copione, esattamente come avviene in scena o sul set. Io non indietreggio come personalità, ma bisogna sforzarsi di dare molto. È un lavoro vero, compiuto su se stessi, sulle capacità personali, per ascoltare e comprendere la propria coscienza adattandola allo spartito. C’è bisogno che ai giovani studenti si spieghi che la competizione non è l’unica cosa, ma qualcosa di totalmente secondario e funzionale all'arte.
Qual è stato il momento più alto della sua carriera?
Ogni concerto e ogni momento in cui ho sentito che il pubblico e me stessa condividevamo qualcosa nel senso più profondo. Rappresentano delle occasioni rare, in cui ci si sente davvero connessi con il vero senso del tutto. Sono molto legata al periodo trascorso con il Maestro Abbado: è stata davvero una presenza speciale nella mia vita, grazie a lui ho ottenuto un contratto con la Deutsche Grammophon e questo ovviamente ha conferito molta visibilità alla mia persona. Era un profondo conoscitore della musica, appassionato ed instancabile sul palco, forse un po’ troppo timido una volta disceso. Personalmente ho sempre preferito affrontare la vita di petto. Una canzone brasiliana di Vinicius De Moraes ci ricorda che la vita è l'arte dell'incontro: è una massima che mi ha sempre ispirato in tutto ciò che ho fatto con la continua presenza della musica. Quando cammino, cucino o leggo, la musica mi accompagna sempre, o meglio me la porto dentro: rappresenta un’attitudine imprescindibile.
Lei ispira una grande serenità ed equilibrio di fondo, ma guardandosi indietro, è stato sempre così?
La musica richiede molto impegno e dedizione ed è anche per questo che per tre volte in vita mia ho meditato di ritirarmi dalle scene, salvo ritornare prepotentemente nel desiderio di continuare a farla: la prima avvenne a 32 anni, in quanto era già mamma di tre figli e li volevo seguire direttamente, insieme alla consapevolezza che era doveroso allentare i ritmi. Dopo 4 anni, sono rientrata ed in seguito, anche in relazione ad altri avvenimenti, ho ritenuto di staccare un po’ la spina, ma da qualche tempo a questa parte ho un calendario molto fitto di concerti, cosa che prima non avveniva. Il Covid insieme a tutto quello che abbiamo subito in termine di vittime, interessi economici e restrizioni, ha creato purtroppo anche una grande disparità fra i nomi più popolari ed una gran moltitudine di talenti, fra cui molti miei allievi che sono rimasti con l'agenda vuota.
Mi parli del centro per i giovani che ha fondato in Portogallo.
Ora il centro è chiuso a causa del Covid. Al momento sono sfiduciata, perché non penso possa essere riaperto a breve, anche per motivi finanziari. Le motivazioni alla base restano sempre valide: abbiamo cercato di creare un luogo in cui pensare e incontrarsi. Non è un luogo in cui fare concerti e fare workshop. Si fa anche questo, ma non solo questo. Si dedicano giorni a interrogarsi a capire qual è lo scopo del fare musica, di come possiamo raggiungere le persone, cambiandone la vita nel condividere pensieri e azioni.
Cosa fa quando non suona?
Mi piace fare lunghe camminate, stare nella mia tenuta al centro del Portogallo ma soprattutto godermi i miei nove nipotini, che rappresentano un'autentica e trascinante gioia.