E’ il 1886 quando Georges Seurat, con un monumentale dipinto ad olio su tela intitolato Una domenica pomeriggio all'isola della Grande-Jatte, mette a punto una tecnica pittorica d’alta precisione basata sulle leggi che regolano la percezione visiva. Minimissimi tocchi di colore – puntini, per esser chiari – isolati l’uno dall’altro, vengono distribuiti con estremo ordine sulla tela. La loro fusione, evitata su tavolozza, si compie invece sulla retina dell’osservatore, nell’attimo stesso della fruizione. Si tratta, in sostanza, di una operazione di scomposizione matematica del colore-luce, con conseguente ricomposizione ottica.
Colore provato, studiato e analizzato. Colore separato e poi accostato attraverso una tecnica che suggella il periodo Impressionista ponendosi come evoluzione scientifica di questo, e che viene riconosciuta col nome di Divisionismo. In realtà il sapiente Seurat l’aveva battezzata con un sostantivo decisamente più analitico: Cromo-Luminarismo. Non trascorre un secolo che, nell’Inghilterra dei primi anni ‘60, una giovane donna formatasi al Royal Collage of Art di Londra, ne viene sedotta. E prende a studiarla scrupolosamente. Si tratta della geniale e fascinosa Bridget Louise Riley. Occhi immensi e labbra carnose, sempre serrate in una smorfia di sensuale concentrazione. Una donna forte, ma che presto viene provata dalla depressione. E a questa reagisce lavorando intensamente, prima come insegnante d’arte e poi come grafica illustratrice. Ma ciò che le interessa maggiormente è comprendere i meccanismi sottesi alla nostra visione, per poter creare immagini illusoriamente cinetiche. Le leggi dell’ottica sono dunque alla base della sua ricerca. Bridget vorrebbe ricreare, sulla superficie della tela, la danza sottile e perpetua dell’acqua mossa dal vento, o il vorticare di un gorgo.
La pulizia di un colore che campisce aree geometricamente ben definite diviene il suo modo di reinterpretare – e reinventare – i movimenti della natura. Il sogno di una pittura vibratile, capace di ipnotizzare l’osservatore mediante l’alternanza di forze centripete e centrifughe, le arriva anche dagli echi di avanguardie storiche quali il Cubismo Orfico di Duchamp e Delaunay e il Futurismo di Balla e Boccioni. Intanto, da un paio di decenni, già un altro artista di nome Victor Vasarely si preoccupa di ingannare l’occhio dello spettatore elaborando opere monocromatiche costituite da forme geometriche che avanzano e retrocedono, si stringono e poi si gonfiano, generando l’illusione del movimento. È l’alba dell’Op Art. Un’alba che accoglie anche il percorso di Bridget Riley.
Op Art sta per Optical Art, ovvero Arte Ottica, quella tendenza artistica postbellica diffusasi nei primi anni Sessanta con l’obiettivo di produrre opere capaci ipnotizzare il fruitore, mediante vibrazioni inafferrabili e talvolta psichedeliche. Bridget aderisce a questa corrente, divenendone l’esponente femminile. Partorisce la sua prima tela Optical nel 1961. Si intitola The Kiss: vi si legge un avvicinamento tra due corpi neri, divisi da un taglio bianco su uno spazio terso. Le opere successive si compongono invece di linee bianco-nere che emulano moti oscillatori, o di scacchiere i cui quadrati si allargano e restringono in una danza ipnotica.
La tela non è dunque mai soltanto tela. È, invero, un luogo instabile. È dimensione viva. È un campo d’azione in cui agiscono forze. “Io non sono realmente astratta” ha dichiarato Bridget Riley, “in verità, lavoro con la natura, anche se in termini completamente nuovi”. “Per me la natura non è il paesaggio, ma il dinamismo di forze visive, è un evento piuttosto che un aspetto”. I meccanismi della visione vengono messi al servizio dell’illusione, in un intrigo visivo che influenzerà anche la moda degli anni Settanta. L’Op Art viene ufficializzata nel 1965, in occasione della mostra newyorkese The Responsive Eye. Due anni più tardi Bridget prende ad inserire il colore nella sua produzione pittorica.
Nel 1968 la Biennale di Venezia ospita una sua mostra personale, e negli anni che seguono il tramonto dell’Optical Art la sua ricerca continua a vertere su un astrattismo di matrice purista. La sua premura è sempre stata una: destabilizzare lo spettatore. Bridget è stata la signora dell’Optical Art, ha attraversato decenni seguendo un percorso lineare, ma sempre in evoluzione. Nel 2012 è stata la prima donna ad essere insignita del prestigioso Premio Sikkens.
“Le mie immagini vogliono ingannare i vostri occhi, farvi credere di vedere qualcosa che non è davvero lì."
(Bridget Riley)