I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi.
(Gino Strada, che l’Afghanistan lo conosceva bene)
Afghanistan, agosto 2021.
Guardo attraverso lo schermo impassibile del televisore centinaia di tende sistemate a terra in maniera più che confusa. Già la parola “tenda” è troppo ricca per descrivere ciò che vedo. In realtà si tratta di stracci buttati su bastoni sistemati alla meno peggio su terreni polverosi. Dentro quelle, che lì in quel campo chiamano case, ci sono piccoli, tristi e allo stesso tempo curiosi occhi che scrutano una telecamera.
Visi sporchi, scheletrini ammantati di stracci cullati da sorelle maggiori di sei o sette anni appena compiuti che cercano di nascondere indisciplinati capelli neri che riescono comunque a fare capolino, impertinenti e indomabili, da sotto la stoffa scolorita. Le madri si guardano intorno cercando qualcosa da mangiare, i loro sguardi sono persi ma non è persa la loro ancestrale forza, quella della protezione e della sopravvivenza.
Gli uomini lottano sotto camionette su cui, altri uomini, distribuiscono il poco cibo disponibile. Sono i campi degli sfollati, di quelli che hanno conosciuto una vita fatta solo di guerra, che hanno perduto le loro case di mattoni e cemento e in moltissimi casi il bene più prezioso, la vita dei loro cari. Mentre stavano mangiando, forse, o mentre stavano giocando, ancora peggio. Perché quando s’interrompono con la violenza i giochi dei bambini si uccidono tempo, speranza e futuro.
Tutto questo l’Afghanistan lo vive da sempre. La storia della guerra in questo Paese è lunga, non è solo storia degli ultimi venti anni. Ma noi questa storia ce la ricorderemo per gli aerei degli occidentali che, nei giorni di metà agosto, facevano la spola dall’aeroporto di Kabul per portare via da questa martoriata nazione più persone possibili in una fuga senza precedenti e per la rapida ripresa del potere da parte dei talebani, riemersi dalle ombre di un passato troppo recente per essere dimenticato.
Ce la ricorderemo forse anche per altro, ce la ricorderemo perché quando incroci quegli occhi, quegli sguardi persi, anche se lo fai attraverso lo schermo impassibile di un televisore, non li dimentichi più. Ti seguono, ti restano nella testa e nel cuore. E quando tiri le somme del dolore che hai visto capisci che le sperequazioni in questo mondo sono troppo grandi. Che in fondo è solo fortuna se qui possiamo lamentarci anche del superfluo mentre a qualche chilometro da noi, in un mondo che si dice globalizzato, le persone sono vittime delle guerre che portano con sé, oltre alla cieca violenza, un’infinita serie di atroci effetti collaterali che pagano soprattutto i civili: donne, bambini, disabili e anziani.
L’Afghanistan è un Paese situato nella regione centrale del continente asiatico. Una porzione di terra compresa tra Iran, Pakistan, Cina (per un brevissimo tratto di confine), Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Non ha sbocchi al mare e il territorio è prevalentemente montuoso, difficile da conoscere per chi non vi è nato e vissuto. Kabul è la sua capitale. Gli abitanti sono circa 35 milioni e mezzo. La popolazione è composta da diverse etnie: pashtun, tagiki, hazara, uzbechi e altre. Anche le lingue parlate sono diverse. Quelle ufficiali sono due: il dari e il pashto.
Secondo l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) quasi 6 milioni di afgani sono stati spinti fuori dalle proprie case e dal proprio paese da conflitti, violenza e povertà, di questi 2,2 milioni sono quelli che hanno trovato rifugio nei paesi confinanti, soprattutto Iran e Pakistan mentre, al 31 dicembre 2020, 2,9 milioni sono i rifugiati interni cioè coloro che cercano la propria salvezza senza attraversare i confini del paese ma muovendosi al suo interno.
L’UNHCR stima che, dal gennaio 2021 agli inizi di settembre, i nuovi rifugiati interni siano oltre 590mila di cui il 20% donne, un altro 20% uomini e il restante 60% costituito da minori. Quindi l’80% sono donne e bambini. Nella sua storia il paese è stato crocevia di civiltà ma anche terreno di feroci scontri che hanno lasciato sul campo numerose vittime e una situazione politica ed economica disastrosa.
Secondo Emergency, presente nel paese con i suoi ospedali dal 1999, negli ultimi 40 anni la guerra ha causato un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati. Sul terreno, inoltre, le guerre più recenti, tra cui quella contro l’ex Unione sovietica (1979-1989), hanno lasciato milioni di mine antiuomo che continuano ad esplodere uccidendo e mutilando anche e soprattutto i bambini che, attratti dai colori vivaci, soprannominate per questo pappagalli verdi, li scambiano per giocattoli. Ma sono giocattoli che portano morte.
Lo stato di guerra perenne ha creato un’enorme sperequazione nella popolazione, tra chi ha approfittato dei commerci illegali come quello dell’oppio di cui l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale e chi, invece, ha provato a sopravvivere con enormi sacrifici, rafforzando la drammatica situazione di povertà in cui versa il paese specialmente nelle zone rurali e montuose. Secondo l’Asian Development Bank, nel 2020, il 43,7% della popolazione afgana viveva sotto la soglia di povertà nazionale. Per ogni mille bambini nati nel 2019 ne sono morti 60 prima del compimento dei cinque anni di età.
La complessità geo-politica dell’Afghanistan, determinata anche dalle reti tribali che si rafforzano attraverso rapporti tradizionali molto lontani dalla concezione occidentale della gestione del governo, non ci permette di entrare pienamente nelle dinamiche che caratterizzano le vicissitudini interne ed esterne di questa nazione. Per questo l’Afghanistan sembra così lontano da noi, da tutto ciò che ci sembra familiare.
Possiamo però capire che la sofferenza degli uomini e delle donne è la stessa ad ogni latitudine quando si viene deprivati dei diritti fondamentali che consistono nella possibilità di accedere alle cure, di potersi istruire senza nessuna distinzione di genere, di religione o di status sociale, di avere una vita dignitosa, nella possibilità di avere un lavoro, un tetto sulla testa e disponibilità di cibo e acqua che non siano contaminati, di vedersi garantito un trattamento ispirato all’uguaglianza, dalla possibilità di esprimere liberamente il proprio credo, il proprio pensiero e la propria creatività, di scegliere attraverso il voto libero e quindi il suffragio universale i propri rappresentanti. E questo soprattutto se sei una bambina, una ragazza e una donna.
Tutte cose che per chi abita al di qua dello spartiacque tra ricchi e poveri, tra nord e sud, tra centro e periferia, sembrano conquiste oramai assodate da decenni, intoccabili, non scalfibili e non trattabili mentre per chi è al di là di quella linea, ricordo solamente immaginaria e in realtà molto labile, tutto è relativo, più difficile, più irraggiungibile. L’equità sembra un miraggio lontano, la speranza per un futuro migliore una chimera, la possibilità di una vita priva di stenti e ricca di soddisfazioni una vera e propria utopia. Dentro quelle tende si spegne il futuro di un’intera nazione.
E di quelle tende strappate, logore e malridotte che diventano casa, ce ne sono troppe nel mondo, non solo in Afghanistan, ma ovunque conflitti, violazione dei diritti umani, fame e disperazione hanno spinto milioni di persone a lasciarsi tutto dietro con in tasca i documenti e i pochi risparmi di una vita e sulle spalle la speranza, per restare troppo spesso intrappolati in un limbo. Ma siamo o non siamo tutti parte di una sola umanità? Non siamo tutti ugualmente di passaggio su questa terra? Siamo sicuri che le guerre siano un mezzo accettabile per risolvere i conflitti o la storia, soprattutto quella del ‘900, ha dimostrato più volte che non è la strada della violenza quella da percorrere?
Bibliografia
Afghanistan situation, UNHCR.
AFG Situation Emergency Update 8September2021, unhcr.
Il Nostro Lavoro In Afghanistan, Emergency.