È prevista per quest’anno la COP15, la conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, dalla quale ci si aspetta un accordo globale che riguardi anche l’oceano e che renda universale l’obiettivo, conosciuto come campagna 30x30 e già adottato da alcuni Stati, di salvaguardarne almeno il 30% entro il 2030. Una gestione sostenibile degli oceani è di primaria importanza, non solo per i 680 milioni di persone che dipendono direttamente dall’ecosistema oceano. Lo è per tutti noi.
Il nostro attuale sistema di pesca è insostenibile. A livello globale, si stima che un quarto del pesce non proveniente da allevamenti sia procurato tramite un sistema detto pesca a strascico. Questo sistema consiste nel trainare una rete da pesca sul fondo del mare, spogliandolo del 41% di forme di vita invertebrate e disturbando le riserve di carbonio contenute nei sedimenti. L’anidride carbonica così rilasciata acidifica le acque oceaniche e, per buona parte, viene rilasciata nell’atmosfera.
Tant’è che un gruppo di scienziati ed economisti sta spingendo affinché questo genere di emissioni sia aggiunto all’impronta carbonica degli Stati responsabili, distribuendo in accordo con le zone di competenza il miliardo di tonnellate di emissioni di CO2 raggiunto ogni anno: una cifra pari a quella rilasciata in atmosfera dall’aviazione globale.
Per alcuni Stati, tra cui l’Italia, l’aggiunta di questa tipologia di emissioni al proprio conteggio significherebbe una drastica crescita della propria impronta carbonica. Tra i primi dieci Paesi per emissioni dovute alla pesca a strascico all'interno delle proprie zone economiche esclusive, l'Italia, con 66,8 tonnellate all’anno, è al terzo posto dopo Cina e Russia.
I problemi relativi alla pesca non si limitano alla, seppur diffusa, pesca a strascico. Ogni genere di pesca eccessiva minaccia gli habitat oceanici e la biodiversità. Per esempio, secondo un rapporto di Greenpeace International, una grossa minaccia è rappresentata dalle “reti derivanti d'altura, conosciute anche come 'muri della morte' e bandite dalle Nazioni Unite trent'anni fa”, che, però, “continuano a essere ampiamente impiegate nell'Oceano Indiano, dove le popolazioni di squalo, anche a causa di queste pratiche, sono crollate di quasi l'85% negli ultimi cinquant'anni".
Conseguenze disastrose sono legate anche alle “catture collaterali” (in inglese bycatch), ovvero le vittime accidentali della pesca: tutti quegli uccelli, delfini e tartarughe che finiscono nelle reti dei pescatori per errore. Secondo un documento ufficiale della Fao, tra il 2010 e il 2014 il pescato ributtato in mare come pesca accessoria è stato annualmente in media del 9,4 per cento, corrispondente a circa 10,5 milioni di tonnellate.
Tra gli effetti sull’ambiente del nostro consumo di pesce, va ricordato tutto quanto riguarda, direttamente o meno, il mondo degli allevamenti. È dagli allevamenti, infatti, che proviene metà del pesce che mangiamo a livello globale. Tra le ricadute ambientali, le maggiori sono quelle che riguardano gli allevamenti di salmone: per nutrire i salmoni, pesci dalle innate abitudini migratorie, si utilizza un’enorme quantità di pesce selvatico, spesso pesce azzurro. Con la conseguenza che specie chiave come le sardine nell’Africa occidentale, fonte di sostentamento per gli abitanti dei Paesi affacciati sull’oceano Atlantico, sono ora in pericolo perché pescate principalmente per produrre mangimi.
Il nostro impatto sugli ecosistemi oceanici, però, non si limita alle conseguenze di un sistema di pesca poco sostenibile. La distruzione degli habitat e l’innalzamento delle temperature dovuto alle emissioni antropiche sono altri importanti fattori di disturbo.
A causa del cambiamento climatico il livello del mare si sta alzando e gli oceani stanno diventando non solo più caldi e più acidi, ma anche più poveri di ossigeno e di biodiversità. Gli eventi estremi sulle aree costiere stanno diventando più intensi. Negli ultimi 20 anni abbiamo già perso la metà delle barriere coralline, e, secondo uno studio presentato lo scorso anno dalla ricercatrice Renee Setter dell’Università delle Hawaii, siamo destinati a perderne fino al 90% entro i prossimi 20 anni.
Mettere a repentaglio la salute degli oceani significa mettere a repentaglio la salute dell’intero Pianeta, perché gli oceani sono portatori di importantissimi servizi ecosistemici di cui noi tutti beneficiamo. L’oceano ha assorbito circa il 90% del calore in eccesso intrappolato dalle emissioni di gas serra e un terzo dell'anidride carbonica emessa dalle attività umane dagli anni '80.
Le iniziative virtuose a livello internazionale non bastano, seppure siano ostacolate da numerose criticità. La già citata campagna 30x30, per esempio, deve scontrarsi con la realtà della distribuzione diseguale tra gli Stati delle aree strategiche da proteggere, che causa a sua volta notevoli difficoltà nelle negoziazioni e nell’assegnazione delle risorse economiche. Tuttavia, i benefici determinati da una gestione sostenibile degli oceani superano di gran lunga gli svantaggi.
Proteggere almeno il 30% degli habitat oceanici, infatti, potrebbe portare alla riduzione del 20% delle emissioni di carbonio necessarie per rispettare gli obiettivi degli accordi di Parigi e limitare a 1,5 gradi l’aumento delle temperature globali rispetto ai livelli preindustriali. Per ogni euro investito in oceani sostenibili, inoltre, ci potrebbe essere un ritorno di circa 5 euro in benefici economici, sociali, ambientali e sanitari, come la creazione di circa 12 milioni di nuovi posti di lavoro.
Gli stessi habitat oceanici, ça va sans dire, ne beneficerebbero, con ricadute positive sull’intero panorama economico legato alla pesca. Secondo uno studio, proteggere aree oceaniche strategiche potrebbe portare, oltre che a salvaguardare la biodiversità e preservare le riserve oceaniche di carbonio, a generare 8 milioni di tonnellate di pesce. Le zone vietate alla pesca, infatti, servono come aree di ripopolamento: rimpolpano le popolazioni di pesci e crostacei, che poi si disperdono oltre le aree protette.
Istituire aree marine protette è però solo il primo passo: un rapporto dell’Ocean Panel raccomanda, tra le priorità, anche vietare la pesca illegale, eliminare i sussidi alla pesca dannosa e ripristinare gli stock ittici. Un’altra azione virtuosa è quella di promuovere stili di pesca sostenibili, come la pesca selettiva. Si tratta di un genere di pesca praticata con imbarcazioni di lunghezza inferiore ai 12 metri, operanti entro dodici miglia dalla costa, e con metodi e attrezzi a basso impatto ambientale, che rispettano i limiti naturali degli ecosistemi marini.
Al momento, però, l’azione internazionale procede a rilento. L’obiettivo 30x30 è ancora ben lontano dalla realtà dei fatti, che vede solo il 2,7% degli oceani sottoposto a piena protezione: il progetto iniziale era di proteggere il 17% della superficie terrestre e il 10% di quella oceanica entro il 2020. È necessario uno sforzo unanime e coordinato a livello sovranazionale, che potrebbe, secondo le stime, essere quasi due volte più efficiente di una pianificazione nazionale non coordinata.
I rischi non sono da poco: oltre agli scenari già prospettati, un’analisi condotta dall’Università della California ha evidenziato che, in assenza di azioni a protezione, nel 2050 l’88% delle riserve ittiche sarà sovra sfruttato, cioè pescato in misura superiore alla sua capacità di riprodursi.
È necessario che impariamo a prenderci cura dell’oceano, e a farlo su scala globale, per far sì che poi sia l’oceano a prendersi cura di noi.