Il compositore Gioacchino Rossini abbaglia gli spettatori e gli ascoltatori con una luce quasi violenta che emana dalla sua musica. Il celebre operista, infatti, è una luce talmente abbagliante, che in alcuni casi rischia di bruciarci.
Per ricostruire nell’immagine il tessuto lacerato della realtà, l’artista Agostino De Romanis usa la luce naturale e quella segreta dell’uomo, al fine di illuminare il senso complessivo delle cose. Perché la luce, fonte primaria di tutto ciò che è visibile, il pittore la porta dentro trasferendola sulla tela.
De Romanis nasce Velletri (Roma) il 14 giugno 1947, Rossini, nasce a Pesaro il 29 febbraio 1792 e muore a Passy (Parigi) il 13 novembre 1868.
Entrambi lavorano con una forte attenzione alla luce e al contenuto considerando la pittura e la composizione un modo per esprimersi, proiettandosi verso una nuova dimensione della bellezza che va oltre il rappresentato e la visione della realtà.
Nell’intera produzione di De Romanis la luce sgorga grandemente, capace di purificare l’immagine dal buio. E l’artista appare nella sua reale capacità di evocare forme dal mondo antico e di investirle man mano di nuova vita ora appellandosi alle suggestive visioni paesaggistiche che trovano un innesto di grande valore in quello che costituisce il nucleo fondamentale di questa arte: la luce. Il pittore lavora per e dentro tale elemento che non è un costituente totalmente naturale poiché è un’invenzione dettata dalla sua sensibilità. Si tratta di una luce soffusa ma liquida che scorre lentamente in flussi ascensionali e rifluisce in quegli spazi reali o illusori, creando al suo passaggio punti di vista diversi e nuovi centri focali, ad illuminare la complessità della psiche dell’osservante.
Le opere dei due maestri possono inoltre accumunarsi perché manifestano una profonda indagine psicologica al di là delle figure e delle superfici, oltre le forme e i colori, attraverso linguaggi personalissimi e significativi capaci di emozionare.
De Romanis non sviluppa le figure rappresentate nelle tele con contorni netti, ma queste le fa emergere in controluce, per contrapposizione. Nulla qui sa di aprioristico in modo tale che anche il particolare doni respiro e leggibilità controllata all’insieme. È il caso di Apertura di luce (2013), Legami spezzati (2014), La fine del volo (2015).
Rossini diventa poeta del cuore umano in duetti e terzetti di bellezza impalpabile, i suoi personaggi cantano l’amore, ma l’amore per il pesarese è fugace, trabocca desiderio, è più nostalgia e sogno da realizzare che fatto compiuto. I suoi amanti, Arnold, Ramiro, Tancredi, Almaviva, Arsace, devono a lungo attendere i brevi momenti con l’amata: la felicità è dell’attimo, è inseguimento e poi gioia rapida. La donna è la grande protagonista delle opere di Rossini, sia essa eroica (Desdemona, Anna), regale (Elisabetta, Semiramide), sensuale (Armida, Fiorilla), delicata (Ninetta, Cenerentola). Spesso vittime dei padri, possono perdere l’amore o suicidarsi, ma sempre risultano fulcro dell’azione. In queste visioni tutto brilla in un immenso respiro.
Anche i personaggi di De Romanis cantano l’amore, come in Angela (1980), eterea compagna di larga parte della sua vita, come nelle conturbanti figure femminili di Donna protetta dal fuoco (2003) e In difesa dell’amore (2004, trittico).
Nel 2018 illustra la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Si tratta di un lungo e faticoso lavoro costituito da 20 tavole che dalla prima rappresentante Tancredi arriva a La vittoria, passando per La sfida infernale (tav. IV), Solimano e il mago Ismeno (tav. X), La selva incantata (tav. XXIII), Rinaldo dormiente (tav. XIV). La monumentale monografia, curata da Roberto Luciani, ha suscitato un’incantevole emozione, durevole e rigenerante, un fatale punto di arrivo nella professione.
L’ideale di assoluta bellezza trova l’espressione migliore di Rossini nel canto che è sempre fiorito, di derivazione barocca e settecentesca, rivisitata dal compositore che è un grande esperto e scrive “per le voci”. Grazie ad eccellenti interpreti, come i tenori francesi Adolphe Nourrit e Gilbert Duprez, il soprano (e pittrice) Maria Malibran, il contralto italiano (nata a Saronno) Giuditta Pasta, il soprano spagnolo Isabella Colbran (prima moglie di Gioacchino dal 1822 al 1845), crea uno stile vocale “rossiniano”, fondato nel campo maschile sul registro acuto di testa e non di “petto” e nel campo femminile sulla morbidezza d’emissione, i colori, le agilità. Il celebre operista sceglie “voci” che esprimono il sentimento di clarità e di euritmia, tenori come il napoletano Giovanni David e Andrea Nozzari insieme nell’Otello, oppure contralti dal registro grave ed acuto esteso come Isabella Colbran, bassi come il romano Filippo Galli a cui affidare imponenti ruoli.
Anche l’orchestra rossiniana è ben costruita armonicamente, mostrando una capacità di seduzione pari al canto.
Il “Mozart italiano”, come definito da Indro Montanelli, ha un formidabile senso del ritmo che è come l’intelaiatura fortissima con cui regge la costruzione della scena musicale. Esso assume spesso una immensa vitalità, chiamata dionisiaca, come se l’intero cosmo esplodesse dentro una salda architettura. Naturalmente la melodia rossiniana conosce una evoluzione: dalla elegiaca chiarezza delle prime produzioni come Tancredi, che ebbe la prima il 6 febbraio 1813 al Teatro la Fenice di Venezia; alla vastità alata del periodo successivo, come La donna del lago, prima rappresentazione il 24 ottobre 1819 al Teatro di San Carlo di Napoli; al più delicato pathos dell’Otello, prima rappresentazione il 4 dicembre 1816 al Teatro del Fondo di Napoli; all’astrale virtuosismo del melodramma tragico Semiramide, prima rappresentazione il 3 febbraio 1823 al Teatro la Fenice di Venezia; al sentimento preromantico del Guglielmo Tell (1828, prima esecuzione all’Opéra Le Peletier di Parigi), ultima opera composta da Rossini che in seguito si dedicherà esclusivamente alla musica da camera, a divertissement che chiamerà péchés de vieillesse, alla musica sacra o a composizioni musicali non destinate al teatro.
Nella produzione di De Romanis i riferimenti esotici diventano intensi in coincidenza con i viaggi in Indonesia iniziati negli anni Ottanta. I ritmi degli olii si modificano nei paesaggi e nei colori, parlandoci dell’ampio registro di un’anima capace di contenere i silenzi meditativi delle grandi risaie sotto vento dell’isola di Bali, dei vulcani di Semeru e Java, delle preghiere sul fiume Kalimantan. Tutte le opere posseggono forti doti simboliche: Agostino, infatti, accerchia i colori in serrate stesure, armonizzate tra loro alterando i timbri. L’insieme compositivo sembra scomparire nei dettagli, tutto è labirintico, imprendibile, incoerente. Incantato dalla luce diafana e dai profumi intensi indonesiani, ha trasposto il suo sentire nei giacimenti della memoria storica, traendone una poeticità nuova delineata da una personale declinazione linguistica.
Rossini costruisce vasti polittici, il risultato è quello di una travolgente solarità, di un sentimento di Bellezza universale che trascende personaggi ed azioni grazie al canto virtuoso, all’orchestra raffinata (Mario Dal Bello). Lo splendore vocale e strumentale, la ricerca di timbri originali fanno sì che nelle opere serie Gioacchino esprima al massimo la propria concezione delle idee musicali come forme di statuaria bellezza nella loro vitalità più pura. Il compositore si erge sopra il dramma romantico, oltre la caratterizzazione psicologica, come un sole irradiante bellezza sul mondo grazie alla Musica che parla solo di sé stessa, sempre pregna di luce scintillante.
Anche i dipinti di De Romanis stupiscono per la bellezza di struggenti atmosfere, di suggestioni archeologiche, di toccanti colori e tonalità profonde e diffuse, di composizioni paesaggistiche e figurazioni sublimi e poetiche, come Nel giardino degli incanti (1990, trittico), Eroi e miti (1990), Rosso della terra e del cielo (2000), Sorge una vita dalla terra e dal mare (2001), Elevazione (2002). Lo spettatore può quindi mettersi in contatto con il suo mondo interiore attraverso i quadri, perché l’artista pensa con immagini e si esprime con immagini, un mondo onirico e fiabesco.
Nel Mosè in Egitto, su libretto di Andrea Leone Tottola, dalla tragedia L’Osiride di Francesco Ringhieri (debutto il 5 marzo 1818 al Teatro San Carlo di Napoli), Rossini conoscerà momenti di alta religiosità, come De Romanis nell’abside della chiesa di San Giuseppe Artigiano a Roma dove nel 1987 realizza due grandi dipinti dal titolo Vecchia e Nuova Alleanza (olio su tela, cm 300x315). Benedetti da Giovanni Paolo II, esprimono il tema dell’alleanza, rendendo il presbiterio punto di riferimento del cammino di fede e punto di irradiazione per una comprensione più profonda del disegno di Dio sull’uomo. In queste opere l’artista ha raffigurato il destino che incombe sull’uomo, ricorrendo ad un’astrazione immaginale con forti accenti cromatici. La simbologia, più implicita che esplicita, è visionaria: essa non descrive singoli episodi, è piuttosto un insieme simbolista, dove non c’è alcuna interruzione tra le figure e il contesto.
A ben vedere il viaggio di Gioacchino come ricercatore nella musica e di Agostino come ricercatore nella pittura, scaturisce da una innata sensibilità e da una padronanza tecnica ed artistica, dalla lunga esperienza professionale ed umana avuta in Italia e all’estero, dalla letizia e dalla tristezza che è nell’esistenza stessa, dalla perpetua lode alla terra e alla natura, dal volgere alla bellezza assoluta, opera dopo opera, con risultati di grande poesia.