Voglio condividere con voi la forza dei miei colori, che più delle parole parlano di me: l'arte non è solo ciò che vedi con gli occhi, ma ciò che trasmetti con tutti i sensi.
Franco Gotta è un artista che si esprime non solo con i colori, ma anche con le parole: il suo animo elegiaco sa esprimersi mirabilmente anche nella prosa e nella poetica, che spesso accompagnano le sue opere d'arte pittorica.
Un artista è un essere sensibile, attento ai moti dell'animo e del cuore, che ha l'incalzante desiderio di comunicare agli altri ciò che sente di più celato, non importa il mezzo che utilizza, perché l'obiettivo è un incontro tra anime, un desiderio di avvicinamento più profondo col mondo. Noi siamo esseri sociali e ci sentiamo realizzati nell'incontro, nella condivisione e nell'unione di sentimenti con gli altri esseri.
E, poiché spesso ciò è irrealizzabile, viviamo col desiderio e col sogno di trovare chi ci comprenda, chi non ci faccia sentire soli e un artista sente in modo ancor più potente e coinvolgente il bisogno di compartecipare ciò che coglie con la sua rispondenza raffinata, delicata e ipersensibile, trasformandola in atto inventivo.
Franco Gotta spesso ama il recesso, per lambire dentro di sé i sentimenti che si affollano alla mente, che sopraffanno il cuore e che, a volte, sono così intensi da confondere nella passione. L'artista si crogiola nel suo sentire, rivive i momenti belli, soffre nuovamente rivivendo i passati affanni, ma poi, nell'atto creativo, supera ogni banalità per produrre opere che, nella loro originalità, arrivano a rappresentare l'universalità dei nostri pensieri, delle sensazioni, dei dolori. Ma è l'amore che la fa da padrone nella sua vita, quell'amore con cui è nato e col quale vuole indugiare fino alla fine della sua vita, non tralasciando mai di cercarlo. E come la luna è la regina delle sue opere, la donna è la regina del suo cuore e soggetto preferito dei suoi dipinti. In fin dei conti noi, esseri umani, abbiamo il sogno di trovare consolazione nella infinita tristezza del sapere che perderemo le persone care, che lasceremo tutto ciò che amiamo di più, per cui l'amore è la più grande consolazione terrena.
L'arte spesso esprime, nei grandi artisti, una sensazione di immensa tristezza, di ansia, di desolazione della nostra precaria realtà umana, è uno dei leitmotiv della vita sulla Terra. Il “male di vivere”, diceva Eugenio Montale, definendo con due sole parole un malessere che ne comprende mille e anche più.
Questo artista non ambisce solo all'amore, alla comunione e condivisione della sua arte, ma prova abbandono e compiacimento nella contemplazione della natura, che è parte degli esseri viventi. “Perdere lo sguardo là dove finisce il blu per trovarmi immerso nella luce, là dove inizia il cielo”, ci racconta Franco Gotta, perché nella contemplazione placa i rimpianti e gli sbagli, di un uomo che mai si è risparmiato, e che, “a volte il frastuono diventa insopportabile, procura ansia e inquietudine: così diventa necessario isolarsi per far pulizia dei pensieri in una legittima autodifesa per rigenerarsi”.
L'artista vuole dimenticare “Una vita fra il piacere e le sofferenze del vivere di un cuore confuso e inquieto”, ma che ha vissuto amando profondamente, quando ci dice: “Quanto ho amato! Sono nato col cuore innamorato e morirò col cuore innamorato” e comunque vuole entrare in contatto col silenzio dentro e vuole “Vivere col cuore sereno nell'attesa di nuovi attimi felici!”, perché in fondo, davanti a noi “C'è la bellezza del vivere!”.
C'è tutta la problematica umana nelle sue parole, ma c'è anche la consolazione dell'artista che vuole “Perdere lo sguardo là dove finisce il blu per trovarmi immerso nella luce, dove inizia il cielo”, perché in fondo “Fuori fa freddo, gli alberi sono spogli, questa tela vuole essere un inno alla vita, presto arriverà la primavera e dalle gemme avremo fiori e frutti”, anche se siamo “Avvolti nella nebbia, ma con nel cuore la gioia e il sole”.
Franco Gotta, un artista piemontese, nato a Bra e autodidatta, si è fatto conoscere, in Italia e all'estero, per le sue opere dal colore aggressivo degli Espressionisti, dalle atmosfere metafisiche che tanto ricordano Giorgio De Chirico, dalla luce dei soli radianti dei Futuristi, ma che comunque ha trovato la sua espressione personale raccontando la sua vita, le sue emozioni, i suoi sogni, i suoi rancori, le sue sofferenze nelle sue opere di grande respiro poetico, sempre con significati profondi e metaforici, che vanno molto al di là di ciò che rappresentano.
È un racconto soffuso di una poesia serena e malinconica, profonda e sincera, che parla della natura, degli alberi, della luna, che campeggia immobile e ben presente in tutte le sue opere. È un mondo, il suo, idilliaco, ma affollato di manichini, uomini e donne senza volto, senza occhi, né bocche, né capelli, senza identità, ma che così diventano universali, rappresentano tutti gli esseri umani, in un afflato senza storia, senza tempo, senza luogo, senza pensieri, in un'immersione di pura poesia statica, che riempie l'anima di immenso e fa pensare al “Naufragar m'è dolce” di Giacomo Leopardi.
Poesia pura, immersione nell'immenso del nostro pensiero che si estrinseca attraverso la visione dell'arte. Molto distante dalla Metafisica di De Chirico, che nel manichino vedeva un uomo senza identità, disaggregato e spaesato, fuori dal suo contesto: l'artista voleva portare oltre l'arte, che non doveva dare una risposta definitiva, ma trascinare là dove c'è ciò che è inafferrabile, di cui dobbiamo arrivare ad avere conoscenza e consapevolezza. Era un vedere oltre la realtà, in un mondo onirico e spaesante, un'idea platonica dell'uomo. Franco Gotta supera ugualmente l'Espressionismo, di cui ha adottato la violenza dei colori innaturali, ma di cui non condivide la pennellata ondeggiante e vorticosa, né l'esagerazione dei soggetti, che in lui hanno l'aspetto più realistico e neppure vuole trasmettere lo stato emotivo che gli Espressionisti volevano narrare come reazione all'ansia del loro mondo moderno.
E, in Gotta, non c'è neppure la potente critica sociale, che tanto ha sconvolto la visione accademica tradizionale del tempo, perché in lui è sempre dominante il sentimento poetico, la sua visione è legata ad un'universale sensazione di umanità silente e immersa nel suo silenzio contemplativo, come nell'opera Meditazione serale in cui, in un cielo blu, molto scuro, c'è una luna molto luminosa e intensamente gialla, che campeggia su di un Terra dello stesso colore, come godesse della sua illuminazione soprannaturale.
Dal lato destro, in primo piano, il manichino-uomo siede solitario su di un masso che lo isola dal resto del mondo: il manichino è di un verde brillante e siede osservando la luna con attento stupore. Obbedienza e adeguamento alla realtà, accettazione desolata, dove non ci sono altri esseri umani a consolare e la natura è rappresentata da un minuscolo albero a sinistra, dalla chioma compressa, che rappresenta l'incomunicabilità umana nella sua ostinata chiusura. I due colori principali, giallo e blu, complementari tra di loro, ben rappresentano questa scena apocalittica, che fotografa poeticamente la rassegnazione umana nell'adeguarsi alla realtà, consapevole della propria forza, ma anche resiliente di fronte all'ineluttabile destino.
Anche nell'opera Tempesta di emozioni, la luna è sempre al centro dello spazio e troneggia col suo giallo acido in un cielo burrascoso, ma che tende al sereno verso l'alto, con un delicato rosa, che sottolinea il blu del cielo e il biancore delle nuvole.
Vi è, nella parte bassa a destra, un orizzonte molto scuro e minaccioso, da cui emerge un monumentale faro, che svetta come sogno di salvezza a cui agogna l'uomo-manichino in balia dei flutti, tentando disperatamente di raggiungere il faro perché la sua fragile barchetta è di carta e non resiste ai marosi incontrollabili. In basso, in primo piano, emerge un'estrema propaggine della Terra, rocciosa e desolata, da cui un bianco gabbiano dalle ali spiegate fugge volando verso l'interno, ove spera di trovare ristoro.
È la metafora dell'uomo che cerca la salvezza agognando ad una meta che può salvarlo, è lì davanti a lui come un'ancora di salvezza, ma non si sa se l'uomo ce la farà a raggiungerla e se vorrà arrivarci... Nell'opera Inno alla gelosia, l'uomo-manichino è dipinto in primo piano, ha abbandonato il suo violino e siede su di una roccia inospitale a scalini spigolosi, le braccia inerti e la testa sconsolata, priva di speranza. Il suo colore è giallo, mentre la luna, che domina il cielo come nelle altre opere, questa volta è di un bianco quasi trasparente, in un cielo azzurro, che si scurisce andando verso il fondo, dove si trasforma in blu intenso e profondo.
Il manichino-uomo si appoggia ad un vaso blu, dove un bocciolo giallo di una rosa, dal rigido stelo, si volge imponente verso il cielo attraversandolo verticalmente. Un filo bianco, leggero e inconsistente collega il vaso alla luna: la tenue speranza che lega il manichino alla possibilità di riscatto dalle sue passioni terrene, dalla incertezza di non poter mai raggiungere il sogno incantato del bocciolo di rosa, perché troppo distante, irraggiungibile sogno.
Nell'opera Equilibrio instabile, in un cielo che tiene tutto lo spazio, partendo in basso dal verde, passa al blu più profondo, che, a sua volta, si muta in un azzurro, che si scioglie nel rosa, che si trasforma in un sempre più potente giallo, in una sequenza molto equilibrata. In basso, in primo piano, c'è una bianca luna che rischiara due manichini, uomo e donna, si allacciano al suono di una musica nel ballo o nell'approccio dell'amore: stanno celebrando il loro momento magico e nulla li distoglie dalla loro reciproca attenzione. I loro corpi sono, però, in una precaria posizione, sicuramente destinati alla caduta: è la metafora dell'incertezza della durata della passione amorosa, che tuttavia esplode come un immenso fuoco d'artificio e nulla può fermare la sua fine...
L'opera Meditazione è rappresentata da un cielo biancastro, dove nuvole minacciose corrodono l'azzurro del cielo, ove si affaccia una luna rossa minacciosa come un incendio, nascosta in parte dalle colline degradanti, che dolcemente solcano tutto il primo piano. Sono ravvivate da colori vivaci dei terreni, rossi, gialli, arancioni, marroni, mentre più lontano si affacciano azzurre montagne. Alberi spogli e piegati dalle tempeste passate e ormai vissute, si stagliano nella parte centrale dell'opera, mentre a destra un cipresso, immagine di solitudine che ricorda Van Gogh, si volge, quasi a voler consolare il manichino-uomo, che più in basso, sotto di lui, siede desolato su rocce inospitali e si lascia andare al suo dolore ineluttabile, che nulla può lenire...
È la metafora della sofferenza umana, che cerca nella natura il conforto che non trova nei suoi simili, ma che sa rialzarsi e affrontare il mondo con determinazione, avendo la consolazione della natura accanto a sé. Singolare la sua opera La mia gabbia dorata ove, in primo piano, a destra, emerge, monumentale, metà di un sontuoso corpo femminile. È, in questo caso, la parte superiore del corpo, di un colore biancastro, che pare in procinto di fuoriuscire dall'opera, dalla posizione che assume, col volto rivolto di lato, come si disinteressasse di ciò che sta avvenendo lì accanto.
Dietro la figura femminile, occupa tutto lo spazio una grande finestra ad arco, provvista di bifore che incorniciano l'arco soprastante. Nel punto della loro divisione, in alto, nello spazio tra i due archi delle bifore è stata inserita un'apertura circolare. Gli infissi, privi di centinature, sono di un cangiante color mauve ed hanno un sapore di antiche cattedrali che rimandano a lontani ricordi. Al centro dell'opera, dove si dovrebbe inserire la divisione tra le bifore, è agganciata una gabbia a più livelli, dove è imprigionato un secondo manichino, dall'atteggiamento desolato, perché sporge le braccia fuori della gabbia, tenendo le mani giunte, a mo' di preghiera.
In alto, a sinistra, la luna è solo una falce bianca, nell'atto di dileguarsi. In primo piano, nell'estrema sinistra, c'è un busto dimezzato: è un terzo manichino, silente e rassegnato nel suo angolo. Certo, il titolo chiarisce l'intento dell'artista, ma è soprattutto la metafora della nostra umanità prigioniera delle proprie passioni, che spesso vengono accettate con rassegnazione e dolore, incapaci come siamo, spesso, di reagire.
Un'opera dal respiro universale, capace di far riflettere e capire la realtà umana nei suoi aspetti più contradditori, La mia arte, la mia vita è l'opera che maggiormente racconta della passione di Franco Gotta per l'arte: vi rappresenta cinque grandi tele, viste dal lato interno. Alcune sono strappate malamente, si nota l'intelaiatura di legno con le chiavelle ben inserite.
Sul fondo, un cielo blu chiaro, si scurisce gradatamente fino ad arrivare al massimo di intensità della tonalità. Al centro è inserita una fabbrica con la grande ciminiera, che ricorda molte opere di De Chirico. È un rimando alla vita quotidiana, ben diversa da quella di un artista, che qua è rappresentato da cinque manichini di legno, di vari colori, in posizioni diverse, di attesa, in procinto di avvinghiarsi al telaio o appoggiati al legno. Il manichino più inquietante è steso per terra, in primo piano, abbandonato, si sta premendo il capo, come per aiutare il proprio pensiero a creare l'opera perfetta. Ma un insetto, grosso e pericoloso, sta dirigendosi verso di lui, insidioso.
È chiaramente la metafora della continua e strenua lotta che l'artista sostiene con l'impulso creativo che non gli dà tregua, perché è passione, e sofferenza che coinvolge l'artista, lo obbliga a sacrifici e rinunce, dirige da padrona ogni scelta, imponendo i propri impellenti bisogni. Ed è sempre il superamento delle pulsioni più basse, che, nell'atto creativo, si trasformano in pura poesia: che in Franco Gotta si è felicemente compiuto, le sue opere sono la concretizzazione reale di un pensiero astratto, che nasce nella mente e che l'artista arricchisce con la propria personalità ricca di sensibilità accresciuta dalla vena poetica.
Ho intervistato l'artista:
Quando hai scoperto di voler diventare artista?
Più che voler diventare artista, perché, secondo me artisti si nasce, ho scoperto di avere motivazioni diverse dai miei coetanei nella mia adolescenza, quando anziché uscire per il divertimento preferivo restare nella mia camera a dipingere ed ascoltare musica.
Come ti sei avvicinato al mondo dell'arte?
Mi sono avvicinato al mondo dell’arte nell’adolescenza, trascorsa tra il verde dei prati e dei boschi, con cieli azzurri che hanno ispirato il mio cuore ad osservare la bellezza della natura, che nel tempo ho dipinto sulla tela con la forza del colore sprigionato dal cuore.
Cosa ti ha spinto a scegliere i soggetti e le tematiche?
Il mio soggetto principe è la “luna”, luna che raffigura la “donna”; con queste due motivazioni ho descritto la mia vita nelle opere. Qualunque sia la strada della nostra esistenza non c’è scampo al traguardo finale! Vivo la mia vita per l’arte ed i colori delle mie tele sono e saranno, l’espressione del mio essere, delle mie passioni. È grandioso vivere in un mio dipinto nella casa di chi fino a ieri era per me era uno sconosciuto e sapere che sarò sempre vivo nei miei quadri… nei miei colori dove sarà palpabile il battito del mio cuore, è vitale per me, per esprimere la mia interiorità, nel colore il sentimento, il dolore e la gioia.
Quali significati vuoi rappresentare nelle opere?
Nelle mie opere, rappresento la vita di tutti i giorni attraverso il colore, perché per me, nell’arte, più che la forma, è importante trasmettere emozioni con il colore. I manichini spersonalizzano la figura umana, ma mi aiutano a trovare l’essenziale di ciò che vivo, non hanno volto, ma hanno un’anima. Nell’abbraccio di manichini racconto una mia storia d’amore e nella solitudine di un manichino il dolore e l’abbandono.
Quanto c'è della tua vita nelle tue opere?
Nelle mie tele c’è tutto della mia vita, un amore vissuto, un amore finito, le mie tele parlano di me e di vita ne ho vissuta parecchia senza freni senza inibizioni, prendendo tutto ciò che mi è stato concesso.
A quale corrente artistica ti ispiri?
Non ho seguito correnti e sono autodidatta, anche perché la mia famiglia non mi avrebbe mai permesso di frequentare una scuola d’arte, credo di potermi definire un pittore espressionista che vive di colore.
Come vedi il mondo dell'arte italiana? E quello estero?
Temo che oggi più che all’arte si miri al successo facile, per cui vedo un certo declino dell’arte vera.
Cosa pensi dell'arte contemporanea, del mondo dell'arte, dei critici e dei curatori?
Penso che critici e curatori facciano il loro mestiere, ed è giusto che vengano pagati, quello che capisco meno è che tutti i giorni si ricevano e-mail dove ti invitano a collettive con tanto di attestati di partecipazione e presenza di grandi personalità, per vendere fumo. È sufficiente aver dipinto venti tele che vieni accettato con la promessa che il tuo dipinto verrà visto in tutto il mondo con tanto di attestato.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
I miei progetti futuri sono di continuare a dipingere e ad esporre le mie opere in strutture culturali, sale comunali.
Quanto ti senti soddisfatto delle opere che crei?
Soddisfatto appieno mai, mi sembra sempre di potere e dovere fare di più, comunque credo molto in me stesso ed in ciò che creo su tela.
Quali esposizioni ritieni più significative nella tua vita artistica?
Alcune mie personali con il coinvolgimento delle tre arti Musica, Pittura, Poesia, esposte nel mio studio o sedi cittadine con serate culturali. Altre realizzate all’estero, con un buon successo di critica e di pubblico. In particolare, le personali a Cambridge (Inghilterra), a Duisburg (Germania), a Spreitembach (Svizzera) e le collettive a New York e Tokio. Di queste esposizioni all'estero, quella di Spreitembach è sicuramente quella più sentita, perché parte del gemellaggio con la mia amata città Bra. Si dice che nessuno è profeta in patria... ed invece per me non è stato così, anzi mi sono sentito e mi sento molto amato e seguito nella mia città. Sicuramente, però, le mostre che mi hanno dato più di più a livello personale, sono state le molte fatte nella mia terra cuneese, dove ho coinvolto altre arti e artisti in connubio culturale delle tre arti, pittura, musica e poesia. Ho sempre amato il contatto diretto con chi si poneva dinnanzi ad una mia opera, non per spiegare l'opera, (perché un'opera non va spiegata), ma per raccontare ciò che mi ha spinto a dipingerla e ciò che ho vissuto nei colori plasmati su tela. Tra le più belle esperienze del mio percorso artistico, c'è il tempo donato negli anni a chi, nella sofferenza, dipingendo con me, in una casa per ragazzi portatori di handicap, provava attimi di felicità e in strutture per ospiti anziani.
Consiglieresti a un giovane artista di intraprendere questa carriera?
L’arte la senti e la vivi, non ti poni neppure il problema di farne diventare un mestiere. Un bravo pittore, buon artigiano del pennello può pensare di farlo diventare un lavoro.
Quali sono i tuoi artisti preferiti e perché?
Sicuramente i pittori espressionisti, comunque tutto ciò che è arte mi piace.
Quali artisti contemporanei, secondo te, passeranno alla storia?
Spero quelli che hanno fatto arte vera, senza vendere fumo… perché oggi è veramente facile vendere fumo, è sufficiente aver dipinto una ventina di tele, partecipi a queste mostre collettive e diventi pittore internazionale, naturalmente il tutto ha il suo bel costo.