Dissidenti, ribelli, delinquenti, esiliati, fastidiosi al regime. In ogni secolo, romanzieri, filosofi e poeti, chi per pochi mesi, chi per lunghi anni, altri in esilio o condannati a morte, non hanno smesso di scrivere, nemmeno dietro le sbarre. Cosa rende la penna così proficua in carcere? La detenzione fa bene alla letteratura? Molti dei grandi capolavori che leggiamo comodamente in casa sono nati nei bassifondi. California, Turchia, Siberia, Italia, Inghilterra, ovunque l’uomo si è aggrappato alla parola per restare sano e connesso al mondo, ovunque l’uomo ha pensato e prodotto per tenere l’orrore lontano da sé, o per raccontarlo.
Partiamo dall’antichità: Severino Boezio, il noto filosofo e senatore romano, cadde in disgrazia a causa della sospettosità dell’imperatore Teodorico. Scrisse in carcere la sua opera più importante: De consolatione philosophiae, un trattato nel quale la Filosofia, personificata da una donna, consola Boezio, ricordandogli che la sua condizione di disagio non richiede nessuna consolazione, perché fa tutto parte di un disegno divino.
Penso dunque che agli uomini giovi la sorte avversa più di quella prospera: questa, infatti, mostrandosi lusinghiera, inganna sempre con la parvenza della felicità, l'altra è sempre veritiera, mostrando la sua instabilità e la sua mutevolezza.
Anche il poeta Torquato Tasso venne incarcerato. Già noto per il suo capolavoro la Gerusalemme Liberata, venne rinchiuso presso la prigione di Sant’Anna a Ferrara. Nonostante i deliri e le allucinazioni dovuti a una dura prigionia, continuò a comporre dialoghi e canzoni.
Il romanziere spagnolo Miguel de Cervantes fu un vero e proprio avanzo di galera: venne condannato al taglio di una mano per aver ferito un uomo, fuggì in Italia ed ironicamente perse la mano sinistra nella battaglia di Lepanto, fu catturato per cinque anni dai pirati turchi, una volta liberato entrò ed uscì dalla galera con le accuse di vendita illegale di grano, bancarotta fraudolenta, illeciti amministrativi, sospetto omicidio. Non meraviglia che il Don Chisciotte della Mancia nacque proprio dietro le sbarre, come il suo autore scrisse all’inizio del romanzo:
E ben ciò si conviene a colui che fu generato in un carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorte di malinconioso rumore.
Un altro spagnolo, nello stesso periodo, componeva la sua opera in carcere: il poeta Diego Hurtado de Mendoza. Arrestato con l’accusa di illeciti amministrativi quando era governatore della città di Siena, scrisse in carcere il suo romanzo picaresco Lazarillo de Tormes.
Due secoli più tardi, nella vicina Francia, il marchese De Sade si affaccendava per rendere il suo nome noto per sempre fino al punto da essergli dedicata una parafilia. A causa dei suoi vizi grotteschi ed eccessivi (pratiche sessuali eterodosse, fustigazione e maltrattamento di prostituzione, orge, stupri) venne condannato ed arrestato più volte. La prima volta presso la prigione d Vincennes, poi presso il forte di Miolans dal quale riuscì ad evadere, di nuovo a Vincennes per 16 mesi a seguito dei quali riuscì di nuovo a scappare per poi essere catturato, infine condotto alla Bastiglia, dalla quale verrà trasferito in un manicomio solo qualche giorno prima la Presa della stessa. Non molto tempo dopo si troverà nel carcere di Madelonnettes e in quello di Saint-Lazare. L’ultimo arresto avviene nella durissima prigione di Bicetre, per poi morire di edema polmonare nel Manicomio di Charenton.
Il marchese inizia a scrivere durante il secondo soggiorno nella prigione di Vincennes, dove prenderanno forma Le 120 giornate di Sodoma, Dialogo tra un prete e un moribondo, Aline e Valcour e Justine o le disavventure della virtù.
Le 120 giornate di Sodoma vennero scritte con una calligrafia minutissima su un pezzo di carta lungo 12 metri.
Appena per dieci o dodici minuti al giorno l'uomo che mi porta cibo mi fa compagnia. Il resto del tempo è trascorso nella solitudine più assoluta, piangendo. Questa è la mia vita.
(Lettera scritta alla moglie)
Un secolo dopo nasceva a Dublino Oscar Wilde, uno dei più grandi artisti del 1800. L’influente marchese John Sholto Douglas accusò Wilde di sodomia (“atteggiarsi a sodomita”), per punirlo della sua relazione con il figlio Alfred Douglas. I processi furono due, e si conclusero con la condanna a due anni di carcere e lavori forzati, divisa tra varie prigioni, l’ultima della quale fu la nota Reading Gaol. La condanna fece il giro del mondo perché lo scrittore era già molto popolare.
Durante questi due anni, che sembrarono un’eternità perché Wilde visse e lavorò in condizioni veramente restrittive (non aveva nemmeno un materasso sul quale dormire, si ammalò, rischiò di impazzire e perse 10 chili), riuscì ad alimentare il suo genio, scrivendo il De Profundis e la Ballata di Reading, mentre riorganizzava la biblioteca del carcere.
Noi che siamo in carcere, e nelle cui esistenze non c'è nessun avvenimento, eccetto il dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza e la ricapitolazione dei momenti amari.
(De Profundis)
Il De Profundis altro non è che una lunga e toccante lettera “dal profondo” indirizzata proprio ad Alfred Douglas (che mai lo andò a trovare e anzi cercò di vendere le lettere d’amore di Wilde per ricavarci qualche soldo), la Ballata invece è un componimento poetico di 654 versi nel quale i detenuti sono simili ad anime dantesche nel Purgatorio che si preparano alla condanna a morte di Thomas Woolridge, un detenuto che Wilde aveva conosciuto all’interno del carcere, entrato per aver tagliato la gola alla moglie con un rasoio.
Nel componimento si percepisce tutta la riflessione sulla pena di morte e sulla necessità del perdono, e tutta la sofferenza di un uomo che era stato tradito (al processo testimoniarono contro Wilde 12 ragazzi avvezzi alla prostituzione, che, in cambio dell’immunità promessa, dichiararono il falso).
Ogni uomo uccide ciò che ama
Ciascuno ascolti queste mie parole!
C’è chi lo fa con un amaro sguardo
Chi con parole adulatrici
Il vile uccide baciando
E lo spavaldo con la spada.
Nello stesso periodo, in Italia, veniva imprigionato Luigi Settembrini, letterato, critico letterario, patriota e senatore, finito in carcere per aver creato la società segreta Unità Italiana. Trascorse questo periodo traducendo i Dialoghi del poeta e filosofo siro di lingua greca Luciano di Samosata, tuttora traduzione di riferimento (Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini).
Sempre in Italia, nello stesso periodo, Silvio Pellico scriveva Le mie prigioni, dopo essere stato incarcerato, per associazione segreta, nella prigione veneziana dei Piombi (la stessa di Casanova) poi nel carcere austriaco Spielberg, a Brno (la via del carcere si chiama Pellicova, in onore dello scrittore).
Durante la Prima Guerra Mondiale, il filosofo e matematico pacifista Bertrand Russell, nonché premio Nobel per la letteratura, venne arrestato in quanto obiettore di coscienza. Nei sei mesi di detenzione a Bixton scrisse la sua Introduzione alla filosofia matematica considerandosi “libero da impegni”.
Nel 1902 nasceva a Salonicco il “comunista romantico” Nazim Hikmet, uno dei più importanti e famosi poeti del 1900. Di famiglia nobile e prestigiosa, pronipote del noto generale ottomano Omar Pascià, Hikmet amò profondamente la vita, che per lui fu burrascosa e difficoltosa, trasmettendoci, con la sua poesia, i sentimenti di un uomo che visse seguendo i propri ideali.
Il primo arresto fu dovuto all’affissione irregolare di manifesti, a seguito del quale trascorse 5 anni in carcere, che gli fruttarono ben nove libri di poesie. Dopo la morte del leader politico Ataturk, che in qualche modo aveva sempre favorito il poeta, apprezzandone le poesie ma meno le idee politiche, Hikmet si ritrovò esposto e non tardò la condanna a 28 anni di carcere per aver incitato, in una poesia, la rivolta comunista. Nel 1950, dopo 12 anni trascorsi in Anatolia, viene liberato grazie all’intervento di una commissione internazionale (nella quale erano presenti Tristan Tzara, Picasso, Sartre, Paul Robeson e Neruda). Le insidie non terminarono qui, perché il governo turco organizzò due attentati nei confronti del poeta, per il quale iniziò un lungo periodo di esilio (trascorso per lo più in Russia), durante il quale rischiò pure di annegare attraversando lo Stretto del Bosforo con una piccola barca durante una tempesta.
Nel frattempo, rinuncia alla cittadinanza turca (simbolicamente restituitagli dal governo turco nel 2002) per prendere quella polacca, e diventa uno dei candidati al Premio Nobel per la Pace.
Per tutti gli anni della sua prigionia Hikmet ci ha lasciato poesie indimenticabili, molte di amore, piene di sofferenza dovuta alla lontananza della prigionia, altre di forte spessore politico e morale, grandi insegnamenti di vita di un uomo il cui fuoco vitale non si è mai spento.
Che cosa sta facendo adesso
Adesso, in questo momento?
È a casa? Per la strada?
Al lavoro? In piedi? Sdraiata?
Forse sta alzando il braccio?
Amor mio
Come appare in quel movimento
Il polso bianco e rotondo!
Che cosa sta facendo adesso
Adesso, in questo momento?
Un gattino sulle ginocchia
Leo lo accarezza.
O forse sta camminando
Ecco il piede che avanza.
Oh i tuoi piedi che mi son cari
Che mi camminano sull’anima
Che illuminano i miei giorni bui!
A che pensa?
A me? O forse… chissà
Ai fagioli che non si cuociono.
O forse si domanda
Perché tanti sono infelici
Sulla terra.
Che sta facendo adesso
Adesso, in questo momento?
Sempre in carcere è nata forse la sua poesia più famosa:
Il più bello dei mari
È quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
Non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
Non li abbiamo ancora vissuti
E quello
Che vorrei dirti di più bello
Non te l’ho ancora detto.
Questa poesia è considerata l’emblema della poesia d’amore, quindi una dedica alla persona amata con quale si desidera condividere la vita. In realtà spesso ci si dimentica che è una poesia scritta dal carcere, e più che amore per la moglie, fa pensare ad un amore per la vita, quella voglia di vivere che cresce solo nelle persone che devono subire lunghe prigionie.
In turco “henüz” significa “ancora”, quell’ancora che la condizione di prigionia suscita, da dietro le sbarre della prigione anatolica di Bursa dove Hikmet ha trascorso 12 anni.
In Italia, proprio nello stesso anno (3 maggio 1945), Ezra Pound veniva catturato dai partigiani e imprigionato a Pisa, dopo la caduta del regime fascista, in quanto strenuo sostenitore di Mussolini e Hitler. Trascorse diversi mesi in una gabbia d’acciaio, esposto al caldo e al freddo, in condizioni così disumane che gli procurano un crollo psicofisico (“quando la zattera si è rotta e le acque mi sono cadute addosso”). Per aiutarlo gli venne permesso di leggere e scrivere ed è così che nacquero i suoi Canti Pisani, scritti sulla carta igienica, e notevoli traduzioni di Confucio.
Dopo aver trascorso altro tempo in manicomio, ottenne la libertà, grazie anche all’aiuto dell’ex combattente antifascista Hemingway, ma non rinnegò mai le proprie posizioni (che gli impedirono di vincere il Premio Nobel per la Letteratura), tranne l’antisemitismo, definito ormai un «pregiudizio», confessione fatta al poeta beat di origine ebraica Allen Ginsberg.
Con questi versi descrisse la sua orribile condizione di prigionia:
Formica solitaria d’un formicaio distrutto
Dalle rovine d’Europa, ego sciptor.
Nello stesso periodo, Antonio Gramsci, scriveva metà dei suoi Quaderni dal carcere presso la detenzione a Turi.
Il 12 marzo 1964, il poeta russo Iosif Brodskij (“un pigmeo ebreo con pantaloni di velluto a coste”) venne condannato a cinque anni di lavori forzati. L’accusa? “Parassitismo sociale”, pornografia e “assenza di amore per la patria e per il popolo”. Dovettero trascorrere 25 anni, l’emigrazione negli Stati Uniti, la successiva cittadinanza e il Premio Nobel per la letteratura, prima di essere riabilitato nei suoi diritti civili dal governo russo. Durante la detenzione si dedicò alla composizione di poesie e saggi e all’approfondimento del poeta inglese Auden.
Essenzialmente la prigione è carenza di spazio compensata da eccesso di tempo […] Va da sé che ciò ha reso la prigione la metafora integrale della metafisica cristiana e in sostanza la levatrice della letteratura. Per ciò che riguarda la letteratura, questo, in qualche modo, è ragionevole, dacché la letteratura in primo luogo traduce verità metafisiche in forma gergale.
Probabilmente il più attivo e proficuo in carcere fu il californiano Edward Bunker (Bunker sta per bon coeur, buon cuore, perché i suoi antenati erano francesi, decisamente non un nomen omen). Fin da bambino affidato ai servizi sociali, agli ospedali psichiatrici e ai riformatori, per poi diventare il più giovane detenuto del famoso carcere californiano di San Quintino, con vari reati tra i quali falsificazione, rapina, traffico di droga ed estorsione. Negli anni settanta riuscì a procurarsi una macchina da scrivere e regalò alla letteratura americana capolavori degni di Kerouac Hemingway e Bukowski, come Come una bestia feroce, Animal Factory, Little Boy Blue, Cane mangia cane, Educazione di una canaglia, Stark.
Entrò ed uscì dalla galera, raccontando, con uno stile aggressivo e graffiante, la sua vita trasgressiva ed affascinante.
I suoi lavori gli fruttarono l’ammirazione del regista Quentin Tarantino, che lo volle nel suo film Le Iene, di Robert De Niro che richiese il suo aiuto per interpretare la parte nel film Heat, di Steve Buscemi che diresse il film Animal Factory, ispirato all’omonimo romanzo, nel quale Bunker compare in un cameo. Il romanzo Come una bestia feroce ha dato vita al film Vigilato speciale con Dustin Hoffman e lo stesso Bunker, che si occupò delle scenografie di diversi film.
Compagno di galera di Bunker fu Caryl Chessman, arrestato nel 1941 e condannato all’ergastolo per 17 capi d’accusa tra cui rapina, sequestro, abuso sessuale e omicidi vari. Dopo aver ottenuto il rinvio della propria condanna a morte per ben otto volte, venne infine giustiziato in una camera a gas.
Durante la sua detenzione, Chessman scrisse quattro libri: Quel ragazzo è un killer, Cella 2455 - Braccio della morte (da cui è stato tratto un film), La legge mi vuole morto, Il volto della giustizia, Violenza è la mia legge, mentre era impegnato a studiare legge, dovendosi difendere da solo.
La sua storia divenne un vero e proprio caso internazionale e diede forma al primo grande movimento contro la pena di morte, ma Chessman venne condannato comunque. La sua storia è raccontata nel film Il caso Chessman.
Nella lista ci sono tre grandi assenti: i due scrittori russi Fëdor Dostoevskij e Aleksandr Solženicyn e il francese Henry Charrière detto Papillon. Essi non sono stati inseriti perché non ebbero la possibilità di scrivere durante la detenzione, in quanto piuttosto punitiva, ma meritano comunque una menzione.
Dostoevskij scontò quattro anni di lavori forzati in Siberia per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi. Condannato inizialmente alla fucilazione, pochi istanti prima lo zar Nicola I commutò la pena in lavori forzati (stress a causa del quale insorse la sua nota epilessia). Da questa terribile esperienza, nacque Memorie di una casa morta, il resoconto di anni orribili definiti dall’autore “il sottoscala dell’umanità”.
Aleksandr Solzenicyn, nonché Premio Nobel per la letteratura nel 1970, raccolse le memorie della sua esperienza nei gulag in Arcipelago Gulag, una vera e propria opera di denuncia dei sistemi punitivi sovietici che attirò l’attenzione di tutto il mondo, e Una giornata di Ivan Denisovic, nel quale è affrontata la tematica della dignità della vita umana mantenuta anche in condizioni misere.
Ma nessuno piangeva. L'odio prosciuga le lacrime.
Alle cinque di mattina, come ogni mattina, fu suonata la sveglia: a colpi di martello contro un pezzo di rotaia, accanto alla baracca del comando.
Il francese Henry Charrière, detto Papillon per la sua farfalla tatuata sul petto, nel 1931 venne deportato nella colonia penale della Guyana francese in quanto omicida. In tredici anni di prigionia tentò nove volte di fuggire. L’ultimo tentativo lo portò in Venezuela, dove scrisse il romanzo Papillon, che vendette 10 milioni di copie nel mondo e che lui definì “la strada della putredine”.
In questo breve viaggio abbiamo conosciuto personaggi distanti e diversi, per epoca, ideologia e reati. Abbiamo unito filosofi cristiani e stupratori, fascisti e antifascisti, comunisti, dissidenti, persone vittime di censura, scarti di galera e intellettuali di grande levatura. Che cosa li ha accomunati? La parola. O meglio, la forza di scrivere, forse per esorcizzare la paura di essere dimenticati, oppure per non impazzire, o per continuare ad alimentare la bellezza e la tenerezza in loro stessi in un contesto del tutto brutale. Riprendiamo le parole di Iosif Brodskij:
Essenzialmente la prigione è carenza di spazio compensata da eccesso di tempo […] Va da sé che ciò ha reso la prigione la metafora integrale della metafisica cristiana e in sostanza la levatrice della letteratura. Per ciò che riguarda la letteratura, questo, in qualche modo, è ragionevole, dacché la letteratura in primo luogo traduce verità metafisiche in forma gergale.
Il poeta definisce la prigione “la levatrice della letteratura” quasi a voler dimostrare che sia proprio la detenzione a sostenere la creazione letteraria. Può sembrare una visione un po’ cinica, un po’ come se gli scrittori fossero alla mercé della letteratura e di tutti i lettori che ne usufruiscono. Sappiamo bene quanto la sofferenza faciliti la scrittura, ma quello che noi leggiamo sono le parole dell’umanità intera, la grande forza dell’uomo che non si arresta davanti a nulla. La privazione espande l’animo, il pensiero tiene in vita, e no, non è la speranza a farlo, come scrive Iosif Brodskij: “Anche se la speranza è davvero l’ultima cosa di cui hai bisogno, entrandovi; meglio una zolletta di zucchero”.
Quando esco, pensavo, farò passare un po' di tempo e poi tornerò in questo posto, lo vedrò da fuori e capirò esattamente quel che succede qui, fisserò quelle mura di cinta e cercherò di organizzarmi in modo da non doverci entrare mai più. Ma dopo che ne uscii, non ci tornai più. Non lo guardai mai da fuori. È come una donna perfida. Non serve a niente ricominciare. Non la vuoi nemmeno rivedere. Ma si può parlare di lei. Mica difficile. Ecco cosa ho fatto oggi per un po'. Buona fortuna a te, amico, dentro o fuori che tu sia.
(Charles Bukowski, Compagno di sbronze)