Accettare un vuoto in sé stessi è cosa soprannaturale.
Dove trovare l’energia per un atto che non ha contropartita?
L’energia deve venire da un altro luogo.
E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo […].
Vuoto: notte oscura.(Simone Weil)
Auro clausa patent: è con l’oro che si apre ciò che è chiuso. Il mito greco di Danae, ripreso da Ovidio nelle sue Metamorfosi, è stato più volte esaltato nell’arte figurativa, soprattutto tra Cinquecento e Settecento, in opere di artisti del calibro di Tiziano, Correggio, Tintoretto, Artemisia Gentileschi, per citare solo alcuni, fino ad arrivare alla più recente e celebre versione di Gustav Klimt.
Si narra che Danae fosse stata chiusa dal padre Acrisio in una torre a causa della profezia per cui il futuro figlio della ragazza avrebbe un giorno spodestato e ucciso il nonno. Tuttavia, Zeus, determinato a possedere la giovane, trova il modo di penetrare nella torre e lo fa prendendo le fattezze assai curiose di una pioggia d’oro.
È ben comprensibile, oltre che documentabile, lo stupore generale che l’ennesima metamorfosi del padre degli dèi genera negli esegeti del mito e dell’arte che nei secoli ne ripropone la trama: l’uomo Zeus dimostrerebbe un’inesauribile e alquanto bizzarra fantasia nelle sue tecniche di approccio all’altro sesso. Tuttavia, ad una lettura meglio approfondita sul piano dei testi alchemici, la pioggia d’oro si rivela essere ancora una volta una delle molteplici figure sprigionate dall’effluvio metaforico tipico del linguaggio dei filosofi della natura, impegnati nei secoli a proteggere dagli uomini insensibili alle ragioni del simbolo le operazioni fisiche e spirituali del loro lapis, meglio noto con il termine di pietra.
Nella fenomenologia ermetica si narra di un evento miracoloso, in forma di “pioggia”, cui tutte le operazioni di laboratorio sarebbero destinate, ma che di fatto risulterebbe manifestarsi con assoluta rarità. Il procedere per immagini degli artisti-filosofi, come si evince dai loro testi crittati, trova in realtà la sua ragion d’essere in un assunto fondamentale: se esiste quella che designiamo con il nome di poesia, in termini di bellezza che promana dai rapporti conflittuali in seno alla natura interiore degli esseri umani, essa è già interna alla materia stessa.
Tutto ciò che succede di visibile nella natura esteriore delle cose non è che l’analogia di quanto accade sul piano invisibile della loro natura interiore. In tal modo tutto ciò che esiste è specchio di qualcos’altro, sebbene su piani o domini diversi e tutto, infine, non è che “una sola cosa”.
Sul piano cosmologico esisterebbe quindi un evento che le fonti registrano come “pioggia” e che si può sperare di trovare solo poche volte all’anno. Tra aprile e maggio, in particolare, gli antichi attendevano che una speciale “rugiada”, la cosiddetta ros maialis, la “rugiada di maggio”, venisse giù dal cielo o dalla Luna.
L’aura di sacralità e venerazione connessa a quest’attesa dipendeva dal fatto che, come la pioggia discende giù dalle nuvole - elementi uranii peraltro ben visibili in quasi tutti i dipinti che ritraggono il mito di Danae - così la misteriosa sostanza acquea sarebbe scesa giù, allo stesso modo della manna per gli Ebrei, come risultato di un lunghissimo viaggio, di un’oscurità fittissima o di una lunga Notte.
Come spiega Robert Fludd nel suo Utriusque cosmi, l’alchimia simula i medesimi processi implicati nella genesi dell’universo allorquando, attraverso uno schema condiviso dalle moderne conoscenze astrofisiche, da una fittissima oscurità iniziale sarebbe nata “ad un certo punto”, come in un “grande scoppio”, la luce, fenomeno poi riassunto nel biblico Fiat Lux.
Il cielo astronomico, dunque, analogamente a quanto accaduto all’origine dei tempi, dopo aver compiuto il suo giro annuale, avrebbe infine subìto una spaccatura, avrebbe concesso un’infrazione all’ordine naturale degli eventi per rivelare all’uomo l’eccezione significativa dell’acqua divina in forma di pioggia venuta giù da una crepatura tra i mondi.
Il paragone tra la luce e la pioggia sembra remoto a noi moderni solo perché abbiamo smesso da un tempo immemorabile di decifrare gli elementi naturali mediante la loro forma, cioè mediante la loro immagine. Per gli antichi che si rifacevano ai motti di Ermete “il raggio” era “umido”. Sul piano delle forme, infatti, la pioggia è fatta di raggi perpendicolari, mentre il sole possiede una radianza circolare.
Secondo l’assioma ermetico, se c’è somiglianza nell’immagine ce ne sarà anche nell’azione che l’immagine produce: il raggio è umido.
Un altro celebre motto invitava perciò i filosofi ad “estrarre dal raggio la sua ombra”. In questa simbiosi sostanziale tra sole e pioggia, simili sul piano della forma e complementari sul piano delle qualità caldo/freddo, la lunga ed estenuante lotta dell’artista-filosofo aveva lo scopo di liberare la luce imprigionata nella materia dalle tenebre che la opprimevano a causa di un evento primordiale e lontanissimo. Il raggio è imprigionato in un’ombra. Tocca alla cosiddetta arte regia salvarlo.
Quello che, secondo le misteriose asserzioni degli autori, si verificava sul piano cosmologico trovava quindi il suo corrispettivo sul piano dei processi della materia. L’alambicco doveva essere chiuso, come una prigione, una torre inaccessibile. Come Danae le sostanze sarebbero state recluse al suo interno, in una notte che all’una come alle altre sarebbe parsa senza fine.
In questa drammaturgia chimico-fisica Danae, figura della materia terrestre e acqua orizzontale animata da una antichissima scintilla intrappolata nei meandri del sotterraneo, avrebbe quindi reclamato di essere assolta, liberata finalmente da una secchezza cui i testi danno il nome di “ombra”.
Per liberare l’acqua imprigionata orizzontalmente nella materia di partenza i filosofi non potevano che auspicare che, dopo le tante distillazioni, cominciassero a cessare sui vetri delle loro storte le ripetute piogge che lavando la materia sembravano invece annerirla, mortificandola ulteriormente, facendola tribolare cromaticamente nel “nero più nero”, come in una tempesta sempre più oscura.
Ma, “ad un certo punto”, se il filosofo non si fosse perso d’animo, una pioggia diversa, aurea, verticale avrebbe posto fine all’operazione. Dopo le ripetute piogge, sarebbe stata infine ristabilita la gerarchia tra le particelle più pesanti e quelle più leggere che nello stato caotico iniziale fluttuavano come impazzite proprio perché imprigionate. Dalle tenebre sarebbe sorta infine la luce.
Con il nome di Grazia, Spirito o Colomba i cristiani chiamavano il medesimo processo: il soprannaturale che scende a permeare di sé la luce incarnata nel naturale.
Nella storia della scienza più recente non è insolito imbattersi ancora in espressioni come quelle di chi, appellato come “alchimista” o “mago”, ha descritto la fenomenologia della materia come processo in cui l’osservabile è soggetto a un cambiamento qualitativo che, in un modo non meglio precisato, avviene “ad un certo punto”.
Nel 1900 lo scienziato Henri Claude Bénard descrive il fenomeno noto come auto-organizzazione per il quale il progressivo riscaldamento dell’acqua è un agitarsi prima caotico delle molecole che “ad un certo punto” organizzano il loro movimento: le fredde scendono giù, le calde salgono su. Si stabilisce una gerarchia, c’è un cambio di organizzazione, emerge un ordine che prima non c’era.
Nelle neuroscienze un medesimo processo, noto oggi con il nome di emergentismo, tenta di descrivere (non di spiegare) l’insorgere della coscienza nel cervello dell’uomo.
Sembra dunque che scienza, mito e religione ricorrano alle medesime locuzioni avverbiali temporali chiamate in causa nei millenni dagli alchimisti, denunciando più o meno esplicitamente la permanente mancanza di accesso ad una comprensione definitiva del perché dei perché e ad una spiegazione genetica che dissolva l’incerto “punto” della narrazione mito-cronologica secondo cui, come da un cappello esce un coniglio e dal piombo nasce l’oro, dalle tenebre sorge l’universo e da un cervello emerge la mente.
Intanto, nei musei, Danai discinte accolgono da nuvole sibilline, sprigionate dagli interni delle loro torri, enigmatiche piogge d’oro.
Ci piace perciò pensare che quelle tele conservino ancora la percezione lirica di chi ha concepito il mito per criptare la vita animata di una Natura cosciente e che se in tempi assai lontani è accaduto a Danae di ricevere l’annuncio rarissimo di una pioggia d’oro, esso possa accadere ancora.
Ci piace credere che il raggio del sole è sia umido che asciutto come quello descritto da Ermete, che una nuvola slanci ancora da un intermondo l’eccezione di un messaggio teso ad aprire ciò che è chiuso, a liberare ciò che è prigioniero, a creare la Notte sì, ma per dissolverla in Luce.
Bibliografia
I. Baulot (a cura di), Mutus liber, in quo tamen tota philosophia hermetica, figuris hieroglyphicis depingitur, apud Petrum Savovret, La Rochelles 1677.
P. Bono, Introductio in Divinam Chemiae Artem, apud Petrum Pernam, Basilea 1572.
R. Fludd, Utriusque cosmi, maioris scilicet et minoris, metaphysica physica atque technica historia in duo volumina secundum cosmi differentiam divisa, aere Johan-Theodori de Bry, typis Hieronymi Galleri, Oppenheim 1617.
E. Philalethes, Introitus apertus ad occlusum regis palatium, Joannemm Janssonium, Amsterdam 1667.