Uno Stato democratico deve avere il monopolio della violenza. Uno Stato democratico deve esercitare la violenza, della quale ha il monopolio, in casi eccezionali, come un grave turbamento dell’ordine pubblico, saccheggi, devastazioni, uso di armi in manifestazioni pubbliche. Tutto entro i limiti fissati dalla Costituzione, dalle leggi, dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Nell’articolo redatto nel numero dello scorso mese di giugno, avevo trattato del fondo oscuro della Repubblica, che riemerge immancabilmente ogni qualvolta le condizioni esterne lo consentano. Ebbene, nei casi di cui ci occupiamo nel presente articolo, questo sfondo oscuro riemerge, con i suoi rigurgiti di violenza, brutale sino all’uso di torture e sevizie, ad opera di organi dello Stato, che quella violenza dovrebbero contrastare e reprimere.
A volte si tratta di violenza su una sola persona, ma non per questo meno grave, come nei casi di Federico Aleandri e di Stefano Cucchi. Il primo era uno studente ferrarese di diciotto anni, morto il 25 settembre 2005 durante un controllo della polizia. Per tale episodio furono condannati quattro poliziotti a 3 anni e 6 mesi di reclusione per "eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi", sentenza divenuta definitiva il 21 giugno del 2012. La morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009, durante la sua detenzione, ha determinato l’apertura di varie indagini, prima per omicidio colposo, poi per omicidio preterintenzionale, con sentenze contraddittorie seguite da annullamenti con rinvio da parte della Corte di cassazione e tentativi di depistaggio da parte di graduati dell’Arma dei Carabinieri.
Le sentenze emesse per i casi esposti sinora affermano il principio che il cittadino, il quale si trovi sotto il potere delle forze dell’ordine, in stato di restrizione, deve sentirsi sicuro anche quando il motivo della restrizione sia dovuto a reati o comportamenti da lui commessi. È il principio fondativo della democrazia, quello dell’habeas corpus, presente nel diritto anglosassone già nella Magna Charta Libertatum concessa nel 1215, che assicurava l’integrità personale a chiunque fosse convocato davanti ad un giudice.
Fu in occasione del G8 tenuto a Genova nel luglio del 2001, che avvennero i fatti tra i più gravi che la storia della nostra Repubblica abbia conosciuto. Per motivi non del tutto chiariti ancora oggi, con coperture politiche e istituzionali di alto livello, si arrivò all’uso massiccio e indiscriminato all’uso della tortura nei confronti di persone inermi. Si tratta dell’irruzione notturna della polizia di Stato nella scuola Diaz, trasformata in dormitorio per centinaia di manifestanti che avevano partecipato ai cortei di quel giorno. Per giustificare l’irruzione un dirigente della polizia collocò, all’ingresso della scuola, alcune bottiglie molotov. Decine di poliziotti si accanirono nei confronti di persone addormentate, colpendoli con i manganelli sino a provocare gravi lesioni, in alcuni casi, invalidanti. Già durante i cortei di quei giorni, accanto a quella di migliaia di cittadini pacifici ed inermi, alcuni insieme ai loro bambini, agirono consistenti gruppi dei Black Bloc, che compirono atti di devastazione e saccheggio, sfondando vetrine e serrande, bruciando autovetture, compiendo rapide incursioni contro i blocchi della polizia. La cosa più strana fu che le cariche della polizia furono dirette contro i manifestanti pacifici, con ampio uso di lacrimogeni, manganelli, seguite da centinaia di fermi. Strano che nessuna carica venisse diretta contro i Black Bloc e che nessuno di essi fosse fermato dalle forze dell’ordine.
Altro episodio di pari gravità, se non superiore a quello della scuola Diaz, avvenne nella caserma di Bolzaneto nella quale erano stati condotti i fermati. Essi furono praticamente denudati, bendati, le donne insultate e minacciate di stupro, richiami espliciti al nazismo. Non uno di questi presunti “servitori dello Stato” passò un giorno in carcere, lo afferma la sentenze della CEDU dell’ottobre del 2017, nella quale la Corte affermava l’inadeguatezza del lavoro della magistratura italiana, in quanto “nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti” e nella medesima sentenza, riconoscendo a 61 persone il diritto ad essere risarcite dallo Stato italiano, ribadiva che si è trattato di tortura, ma che la legge italiana sul reato di tortura risultava totalmente inefficace ed inapplicabile ai fatti presi in esame. Il paradosso è che i dirigenti di polizia di Stato e della polizia penitenziaria furono tutti promossi nelle rispettive amministrazioni!
A distanza di anni esplode il caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuto il 6 aprile del 2020, abilmente celato per oltre un anno ed ora esploso in tutta la sua sconcertante gravità. In quel carcere, come in molti altri in tutta la penisola, vi erano state proteste, anche animate, durante l’inizio della pandemia e con il diffondersi del Covid all’interno degli istituti penitenziari. Il sovraffollamento delle celle, la mancanza di docce, l’impossibilità di avere i colloqui con le famiglie, hanno sicuramente creato uno stato di tensione, del quale gli agenti penitenziari hanno subito il contraccolpo. Nessuno, tuttavia, avrebbe potuto immaginare cosa avvenne in quel carcere campano. Tra due file di agenti, dotati di casco, mascherine e manganelli, i detenuti erano stati costretti a sfilare per ricevere colpi di manganello sulle spalle, il dorso, il capo, oltre a insulti, sputi, minacce. Per giustificare tale “mattanza” e depistare le future indagini, furono costruite prove false di disponibilità di strumenti di offesa, foto di bastoni, persino pentolini di…acqua calda, su consiglio dei commissari dirigenti dei reparti. Sicuramente quella “mattanza” era stata predisposta da tempo, accuratamente preparata, nota ai direttori ed ai loro referenti del D.A.P. (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), autorizzata secondo fonti giornalistiche. Ma se anche non fosse stata conosciuta in anticipo, nessuna misura venne adottata a livello ministeriale, dai ministri della Giustizia e dell’Interno, tutto doveva rimanere occultato. Il ricovero in infermeria dei detenuti che avevano riportato lesioni visibili, venne ritardato sin quando non ne fosse rimasta traccia. Sembra di essere a Guantanamo, ma in Italia vi è un ordinamento penitenziario e relativo regolamento che prevede regole di trattamento degne di un paese scandinavo, ma… solo sulla carta.
Nessuna compatibilità dei filmati andati in onda su tutti i canali televisivi, e dunque in tutto il mondo, con la norma dell’art. 27 della Costituzione, che al terzo comma stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nel nostro caso la rieducazione è avvenuta a colpi di manganello.
Non si pensi però che la mattanza abbia riguardato “tutti” i detenuti indistintamente, le gerarchie, anche in carcere, vanno rispettate. E dunque nella sfilata dei detenuti da colpire non c’erano esponenti della camorra, ma solo quelli “comuni”.
Le garanzie costituzionali risultano sospese, la democrazia sfigurata, il paese ridotto al livello delle peggiori dittature asiatiche.
C’è un problema da risolvere di tipo politico e culturale. La formazione professionale degli agenti delle forze dell’ordine risente ancora di una impostazione autoritaria, tipica del passato ventennio, refrattaria ad ogni innovazione democratica, alla tolleranza, al riconoscimento dei diritti di tutti i cittadini, senza alcuna distinzione. È un deficit di democrazia che deve essere colmato, altrimenti riemergono, come avvenuto in questa vicenda, i rigurgiti di un passato duro a morire.