Il narrare per immagini è qualcosa che, nella cultura umana, diamo per scontato sia ‘naturale’; in fondo, i cavalli raffigurati sulle pareti delle grotte di Lascaux, o i bisonti in quelle di Altamira, sono testimonianza - e quindi narrazione - dal mondo paleolitico. Questa esigenza narrativa ha sempre avuto una grande forza, ed è quindi del tutto naturale, coerentemente, che gli uomini abbiano a tal scopo prediletto la figurazione, la rappresentazione (via via sempre più fedele e raffinata) della realtà. L’uso delle figure come mezzo narrativo è, quindi, parte del nostro imprinting culturale.
Questa connessione si è rafforzata sempre più, man mano che la pittura, la scultura ed il mosaico divenivano sempre più ‘maturi’, e l’uomo imparava a padroneggiare sempre meglio le diverse tecniche per riprodurre figurativamente la realtà - ma, anche, per rappresentare visivamente ciò che non è possibile ‘copiare dal vero’: dei, chimere, paesaggi fantastici...
Parallelamente, l’uomo ha sempre utilizzato anche segni ‘astratti’ (“ottenuti per astrazione, e quindi privi di corrispondenza con la realtà oggettiva e con i dati dell'esperienza sensibile”), ma - per quanto ne sappiamo - a scopo decorativo e/o simbolico, non descrittivo/narrativo. Nelle medesime grotte di Lascaux, la gran parte delle pitture rupestri sono appunto segni astratti. Ovviamente non sappiamo quale fosse il senso che vi attribuivano i nostri predecessori, ma di sicuro dovevano averne uno. Figurazione ed astrazione, dunque, fanno entrambe parte del nostro linguaggio espressivo visuale, e sin dalla notte dei tempi.
In epoche assai più recenti, si sono anche affacciate forme di autocensura sull’uso della figurazione (si pensi all’Islam, che nella Sunna vieta ai credenti di rappresentare figure umane o animali, come forma - estrema - di prevenzione dell’idolatria; e che, per converso, ha favorito un sofisticato sviluppo di espressioni visive non figurative, come la calligrafia islamica e l’arabesco).
L’arte è dunque stata per millenni strumento di narrazione figurativa, per raccontare le vicende degli dei, degli eroi, dei potenti...
Il processo di desacralizzazione della società, il mutamento profondo della sua tradizionale composizione ‘di classe’, così come lo sviluppo vertiginoso delle conoscenze, sono poi andate ad incidere sulla natura di questa relazione tra arte visiva e società, così come sulle caratteristiche intrinseche di tale forma d’arte. La nascita della borghesia mercantile e la scoperta della prospettiva, lo svincolarsi dell’artista da una committenza celebrativa e i progressi in campo ottico...
Tutto ciò favorisce da un lato l’emergere di un’arte figurativa non più narrativa, ma ‘solo’ descrittiva (la pittura di paesaggio), e dall’altro una ricerca formale da parte degli artisti, che a partire dalla figurazione se ne distacca sempre più: impressionismo, puntinismo, cubismo... L’arte astratta prima, quella concettuale poi, sanciranno il distacco tra l’arte visiva e la sua funzione narrativa.
Quando i romani del ‘600 entravano in S. Luigi dei Francesi, riconoscevano nelle tre tele caravaggesche gli episodi della vita di San Matteo, pur non avendo ovviamente mai assistito ad essi, perchè erano storie che avevano già ascoltato. Allo stesso modo, chi vede Guernica di Picasso ne riconosce i nessi storici e simbolici, in quanto conosce l’episodio storico della guerra civile spagnola. Ma, se proviamo ad immaginare, in entrambe i casi, un pubblico ignaro, l’esito sarebbe ben diverso: il fedele seicentesco capirebbe comunque che si tratta della storia di un santo, mentre l’altro osservatore resterebbe assai perplesso.
L’arte non figurativa, o ha una forza espressiva straordinaria, o abbisogna di una ‘contestualizzazione’.
Perchè culturalmente noi umani ci aspettiamo di trovare nell’arte visiva qualcosa che riconosciamo. Ci aspettiamo una qualche ‘narrazione’. Ed è questa, a mio avviso, una delle ragioni dello straordinario successo del cinema.
Questo distacco tra l’arte visiva contemporanea (o meglio, una sua gran parte) e la sensibilità culturale della società, è una delle cause per cui l’arte ha perso la sua ‘aura’, la sua funzione sociale, ed oggi è prevalentemente merce.
Si potrebbe dire, con una battuta, che oggi si è passati dall’aura all’euro. Di certo, oggi non viene riconosciuto alcun valore, all’opera d’arte, che non sia primariamente economico.
Ovviamente, la mercificazione ha accentuato il processo di privatizzazione, che fondamentalmente significa sottrazione dell’arte alla fruizione pubblica. Gli stessi ‘passaggi’ espositivi nei musei, costituiscono per l’arte contemporanea uno step di valorizzazione.
A sua volta, quindi, questa ‘mutazione genetica’ dell’arte, così come la sua perdita di una funzione narrativa, non ha fatto altro che approfondire la disconnessione tra l’arte ed il contesto socio-culturale.
D’altra parte, l’alba di un mondo nuovo sta sorgendo. Anzi, forse il suo sole è già alto, ma non ne vediamo ancora bene la luce.
Lo straordinario cambiamento che l’era algoritmica dei Big Data sta producendo, non è che la punta dell’iceberg. Potenza e rapidità di calcolo dei moderni processori consentono, ad esempio, rivoluzioni architettoniche impensabili solo pochi anni fa. Per non parlare delle biotecnologie, che aprono la strada al passaggio dall’era dei cyborg (ormai storicizzata, poiché da anni protesi meccaniche vengono impiantate su corpi umani) a quella delle chimere, esseri viventi transgenici, dotati di caratteristiche multispecie.
E, ovviamente, anche l’arte è - come si dice - “sul pezzo”; artisti che lavorano su una ridefinizione del rapporto uomo/dati, ma anche - attraverso i dati - del rapporto uomo/natura. Artisti che usano l’intelligenza artificiale per spingere oltre la propria ricerca. Artisti che intervengono sulla natura biologica.
Il progetto udatinòs (di Oriana Persico e Salvatore Iaconesi), alla foce del fiume Oreto, “prevede la creazione di un’opera d’arte interattiva che genera giochi di luce e suono per visualizzare e rappresentare le condizioni dell’ambiente (acqua e aria) a Palermo, grazie alla possibilità di collegare l’opera d’arte a dati provenienti da sensori, open data e rilevazioni”.
L’esperimento artistico ‘GFP Bunny’ (2000), dell’artista brasiliano Eduardo Kac, realizzato grazie alla collaborazione con alcuni scienziati, rappresenta il primo esempio di arte transgenica ("la creazione di un essere vivente organico complesso, totalmente artificiale, a scopi artistici"). Un coniglio albino, chiamato Alba, venne ‘creato’ mediante una mutazione sintetica del gene GFP della fluorescenza della medusa Aequorea Victoria; il risultato fu un coniglio bianco che, esposto ad una luce particolare, diviene fluorescente e risplende di luce verde. Alba era un animale chimerico, che non esiste in natura (intendendosi per chimerico quelli che nella tradizione culturale vengono considerati animali immaginari, e non già nel senso scientifico del termine di un organismo composto di cellule contenenti genomi diversi).
Queste nuove forme d’arte, tornano prepotentemente alla funzione narrativa, fanno anzi dell’interlocuzione con il pubblico il proprio fondamento. Interrogano il pubblico, ‘narrando’ in forma artistica il presente ed il futuro. Ci parlano del mondo in cui stiamo entrando - senza, purtroppo, esserne pienamente consapevoli - e ci dicono anche come possiamo modificarne la direzione.
E mai come adesso dire ‘pubblico’ non significa semplicemente chi osserva l’opera, che questa anzi vuole interagire con esso, ma va inteso come dimensione collettiva, sociale.
Oggi più che mai, ci è necessaria un’arte che riapra dialoghi, che ci restituisca alla dimensione di citoyen, e non (solo) di consumer.