Toh! Finalmente nella cassetta postale della portineria una lettera! Una lettera vera, con busta, indirizzo scritto a mano e francobollo. È stretta, poverina, tra le bollette della luce e del telefono e due pieghevoli pubblicitari. Prima di aprirla me la giro tra le mani come una vera rarità e noto dal timbro di partenza che per arrivare da Padova a Napoli, ci ha messo quindici giorni. Ma, vivaddio, è arrivata! La busta contiene un invito a una mostra, che si inaugura proprio oggi a Milano: quattro facciate di carta fatta nientemeno che a mano, morbida e spugnosa coi bordi un po’ sfilacciati. Roba per chi è un po’ fuori dal tempo e dalla moda corrente, come me. Ma non c’è da meravigliarsi. Me la manda, come confessa l’intestazione della busta in un carattere maiuscolo tondo e corposo di un caldo rosso corallo, la redazione della rivista Colophon che da Belluno diffonde il suo amore per il libro d’artista, bello da vedere e sfogliare, ancora sensualmente gradevole al contatto con la mano. Nel quale libro la bellezza a guardarlo e il piacere di accarezzarlo sono forse ancor più importanti dell’interesse per la scrittura che ospita: per quello che una volta chiamavamo contenuto. Se mi avessero mandato una mail, il ritardo non ci sarebbe stato, ma avrei dovuto trovare delle scuse per non andarci, perché oggigiorno, coi tempi che corrono, andare da Napoli a Milano sembra davvero un’impresa.
Ma lo stupefacente è che chi l’ha spedita – e ne avrà mandate moltissime – non ha portato le missive in blocco all’ufficio postale per essere marchiate da una affrancatrice automatica, come deportati d’altri tempi annientati nella serialità di un numero anonimo. Si è preso la briga di andare a trovare, impresa oggi ardua, e comprare i francobolli. Francobolli che nessuno usa più per la accorata tristezza dei filatelici che possono sì raccogliere quelli nuovi, freschi di stampa e di colla, acquistandoli magari il primo giorno di emissione, ma non trovano più quelli timbrati o, come dicono loro, “viaggiati”.
Che meraviglia il francobollo! Raffigura con una grafica bicolore essenziale, verde pallido e nero su bianco, una macchina da scrivere, la leggendaria Olivetti Lettera 22. Decido di guardarlo meglio sotto una grande lente di ingrandimento, una delle tante cose sostanzialmente inutili di cui amo circondarmi, e posso decifrare la scritta minuscolissima, “I.P.Z.S. S.p.A. Roma, 2020”: l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. “E già, che scemo sono stato – mi dico – dovevo immaginarlo che si trattava di lei, della Zecca dello Stato”. Ma è tanto tempo che non vedevo su una busta un francobollo “viaggiato”. Sono così in arretrato sull’argomento che non sapevo nemmeno che sui francobolli non c’è più l’indicazione del costo in euro, ma una lettera. Qui c’è la “B” che certamente indica la fascia di costo, e che, come subito dopo mi ha spiegato Google, sempre prodigo di informazioni, è di euro 1,10. Probabilmente, penso con un pizzico di malignità, che questo sistema possa servire a mutare il prezzo del francobollo senza prendersi la briga di ristamparlo o di imprimergli una sovrimpressione come si faceva un tempo, se le mie pallide memorie di fanciullesca filatelia non mi ingannano.
Ed eccoli i ricordi dell’infanzia e della passione per i francobolli, della caccia alle buste delle corrispondenze di famiglia, alla paziente tecnica per inumidirli e staccarli senza danneggiarli, alla gioia per il completamento della bellissima serie del 1950 “dell’Italia al lavoro”, che a volerla ricomprare in rete costa alla fine quattro soldi; e insieme ai ricordi il silenzio della memoria su dove sia finita la piccola collezione giovanile.
Immediatamente dopo penso che sono ormai anni che nessuno mi manda più una cartolina illustrata coi saluti dai tanti posti meravigliosi del mondo in cui si va in gita. Questa considerazione non mi allarma più di tanto, perché sono certo che non si tratta di non avere più amici o che gli amici che mi restano non mi pensano. È che le cartoline non si usano più, nemmeno a Natale e a Pasqua. Sono lontani i tempi in cui con mia moglie si faceva l’elenco degli amici e dei parenti cui inviare per posta gli auguri! Oggi ti metti col cellulare in mano e con un solo messaggino mandi abbracci e baci a tutti i conoscenti che hai nella rubrica del telefonino, magari involontariamente anche a quelli che ti sono antipatici. Comodo, no? E pure sbrigativo. Il passatempo di allora, ché di passatempo piacevole alla fine si trattava, a fare gli elenchi non dimenticandosi di zia Maria e zio Peppino, di don Saverio e donna Amalia, recuperando strada facendo gli indirizzi, è sostituito il più delle volte o da un solipsistico giochino al computer, da una partita a burraco online con degli sconosciuti o dallo stravaccarsi in poltrona davanti al televisore a sorbirsi la martellante pubblicità delle poltrone.
E torno a guardare sul francobollo la ormai gloriosa Lettera 22 della Olivetti, agile e funzionale, con la quale sono state composte anche straordinarie pagine di letteratura, e davanti alla quale tantissimi scrittori si sono fatti fotografare con lo stesso atteggiamento di chi si fa ritrarre accanto alla fidanzata.
E ancora altri ricordi di gioventù. Come il desiderio non esaudito di averla in casa e di usarla, invece della mastodontica e monumentale, pesantissima e nerissima Olivetti M40 di famiglia con la quale mi divertivo in esercitazioni di dattilografia. E con la quale feci la faticaccia di scrivermi la tesi di laurea in quattro copie ricorrendo alla dimenticata e volenterosa cartacarbone. Come sarebbe andata per me assai meglio la piccola, maneggevole, e coloratissima Lettera 22, che veniva pubblicizzata da un simpatico pupazzetto: una fanciulla che la teneva con disinvoltura con la destra mentre nella sinistra reggeva la valigetta. Perché tre erano sostanzialmente le sue caratteristiche; era leggera, era maneggevole anche per le dita femminili che avevano unghie lunghe e smaltate, ed era portatile: da portare da casa all’ufficio e viceversa, addirittura in viaggio. In viaggio, certo! Ma nessuno si sarebbe mai sognato di usarla in treno disturbando col suo ticchettio i compagni di viaggio appisolati.
Oggi tutti trovano naturale scrivere col computer portatile e col tablet in treno, perché così si guadagna tempo, perché il tempo è ed è sempre stato denaro, come recitava uno dei tanti banalissimi proverbi con i quali è cresciuta la mia generazione.
A pensarci! Ma quanto tempo richiedeva la macchina da scrivere! Una correzione imponeva complicate manovre con quelle piccole cartine bianche che avrebbero dovuto cancellare il l’errore! Quanto tempo imponeva il disbrigo della corrispondenza soprattutto a Natale! E quanto ce ne voleva di tempo o per cercare gli indirizzi nella rubrica, che allora era un quaderno, per andare dal tabaccaio a comprare busta e francobollo e di lì alla prima buca delle lettere in strada. Certo: ne abbiamo guadagnato di tempo!
Ma siamo sicuri che davvero sappiamo cosa farne di tutto questo tempo risparmiato?