Il settimo album del progetto di Salvo Lazzara. Un'opera suggestiva all'insegna del nomadismo musicale, tra passato e futuro, dall'art rock alla world music.
Un cerchio perfetto è il settimo disco dei Pensiero Nomade. Siete arrivati a un numero consistente, che consente di individuare una "storia" del progetto. Che posizione occupa questo nuovo album nella lunga vicenda di Pensiero Nomade?
La sensazione che ho avuto appena terminate le registrazioni, e ancora di più durante il mastering, è che questa volta non mancasse nulla, nulla di quello che in passato c’era stato nei miei lavori; questo però non mi dava la sensazione di eccessiva ricchezza, di ridondanza, piuttosto di completezza. Sentivo insomma che era tutto al posto giusto. Che ero arrivato finalmente nel posto giusto.
Tornare alle origini è un approccio frequente nella storia della musica. Per alcuni è tornare ai classici, per altri rivolgersi alle radici, per altri ancora riscoprire i primi passi. Pensiero Nomade a quali origini ha guardato?
Intanto alle mie proprie origini diciamo culturali, quindi alla Sicilia, ai suoi colori, alla bellezza terribile e inevitabile della mia isola. Poi alle origini della mia musica, quella suonata in maniera naturale, senza troppa elettronica, e anche alle origini stilistiche, certamente; quindi, il progressive, il jazz, la musica classica contemporanea.
Un cerchio perfetto ha un filo conduttore che tu stesso ritrovi nella nostalgia, o meglio nella malinconia. È una buona chiave di lettura – anzi di ascolto?
Direi di sì, è la giusta chiave di lettura, anche se va interpretata in maniera positiva, senza rimpianti. Non è rimpianto per qualcosa che non è più, che non si ha più, piuttosto è piacere del ricordo, anche quando questo è doloroso.
Nell'album è coinvolto Andrea Pavoni, una figura rilevante nel panorama progressive italiano. Qual è stato il suo ruolo?
Andrea aveva già collaborato con me su un precedente lavoro a firma Pensiero Nomade, Da nessun luogo, dove già avevo avuto modo di apprezzare il talento, la sua inventiva e la tecnica di arrangiamento. Qui ha avuto molto più spazio, e il risultato mi lascia del tutto soddisfatto. C’è molto di Andrea nel risultato sonoro del cd, e sono sue alcune delle ispirazioni dei brani contenuti, penso a Buio e magia, Puntini, Volti e rivolti, A te che sei.
A proposito di musicisti, come sempre Pensiero Nomade centellina le collaborazioni. Accanto a te stavolta abbiamo figure pregevoli come Michela Botti, Davide Guidoni, Luca Pietropaoli e Edmondo Romano. Coinvolti "su partitura" o lasciati liberi di esprimersi?
Assolutamente liberi, non c’era nessuna partitura prima del loro intervento, se non le parti di chitarra. Quello che si sente è frutto del loro talento e della sensibilità che hanno portato nel progetto.
Un anno fa, con Canti del disincanto, parlavi di "musica elettrica da camera". Questo approccio intimista, misurato, anima anche il nuovo album?
Diciamo che qui c’è meno “misura”: la voglia di esprimersi in maniera più completa porta ad ampliare la “paletta sonora”, ad inspessire l’arrangiamento, quindi il risultato è meno minimalista, per quanto non si possa definire un cd di musica complicata.
A proposito di minimalismo, un altro elemento di Pensiero Nomade, dai tempi di Per questi ed altri naufragi, è la natura minimale, il lavoro di sottrazione. È così anche in Un cerchio perfetto?
Sicuramente nel risultato, ma non nel processo con cui ci siamo arrivati. In questo cd c’è stato un tentativo di lavorare in maniera più strutturata sull’arrangiamento, che risulta più completo e ragionato. Questo non ne fa un lavoro pesante, credo, e per certi versi lo puoi ancora definire un disco “semplice”; di quella semplicità che arriva dalla precisione, dalla misura. Diciamo che non potrebbe essere di più o di meno o diverso da com’è!
Guardando indietro, alle origini e alle radici, e all'attualità del progetto, il filo rosso che ha sempre legato i lavori di Pensiero Nomade è la indefinibilità. Quanto premia questo eclettismo di genere?
Poco o nulla, ci sono stati momenti in cui mi sembrava che fosse assai più facile individuare una strada e seguirla, ma poi non riuscivo a sentirmi a posto. Ho fatto anche cose che non rifarei, ma non perché non ne sia convinto o non siano state buone intuizioni; è piuttosto la fatica di fare le cose che ti porta a semplificare, se non altro come approccio alla composizione.