Ero a Milano a casa di uno scrittore per discutere di un certo progetto culturale e di un mio libro che questo grande scrittore che si occupa anche di altri autori un po’ “in panne” dal punto di vista editoriale mi avrebbe aiutato a pubblicare (Nelle mani dell’amore poi effettivamente portato alla meta della pubblicazione) e anche per il puro piacere di passare qualche ora in ameni conversari come solo può accadere con uno scrittore e intellettuale di quella levatura. Ricordo a un certo punto sostai davanti a una libreria piena di titoli di Agatha Christie. Il mio ospite mi disse che una volta si era messo a leggere gialli della Christie facendone fuori una trentina in un mese. Io non battei ciglio. Insomma, il particolare non mi stupì. Leggere libretti di centocinquanta, duecento pagine in gran copia nel giro di un mesetto è possibile se si è un superlettore e un superscrittore come lo era il mio ospite. Annotai, comunque, il dettaglio in un angolo della mente. Qualche tempo dopo cominciai anch’io a leggere romanzetti su romanzetti.
Mi resi ben presto conto che la pratica costante della lettura e della scrittura non mi aveva reso quel lettore selettivo che fino a quel momento (diciamo dal 2005, 2006 fino al 2016, dall’episodio che ho qui succintamente raccontato) avevo sempre creduto di essere. Fino a quel momento scartavo i libri dozzinali e mi concentravo su quelli difficili o importanti e anche questi finivano per venirmi a noia. Saltavo rapidamente a conclusioni prevedendo il proseguo delle storie. Notavo le lungaggini. Andavo sistematicamente a caccia dei difetti. Ho avuto grossi problemi, come lettore, devo ammetterlo. Avevo smarrito, o credevo di aver smarrito, il piacere di leggere una buona storia per il semplice gusto di farlo. Invece, dopo quell’episodio a casa di quell’amico scrittore scoprii che la pratica della lettura e della scrittura più che rendermi un lettore selettivo mi aveva messo nelle condizioni di leggere qualsiasi cosa trovandola, in fin dei conti, apprezzabile.
Mi scoprii un divoratore di libri. Presi a girare per bancarelle e ad acquistare per pochi spicci libri che avrei sempre voluto leggere fin da giovane ma che per una ragione o per un’altra non ero mai riuscito a leggere. Thriller. Polizieschi. Storie nere come la pece. Mi abbeveravo come un cavallo assetato che avesse traversato per giorni e giorni canyon e praterie senza incontrare un solo corso d’acqua. Da troppo tempo non leggevo più un libro con lo spirito giusto. Ma con lo spirito giusto scoprii di poter leggere qualsiasi cosa. Eccomi a rileggere l’Ulisse di Joyce con una facilità sorprendente e con la stessa facilità rilessi L’urlo e il furore di Faulkner. Ormai andavo sul velluto con qualsiasi testo. Qualsiasi. Che fosse facile o complesso non faceva la minima differenza. Ero passato da uno stato in cui facevo il difficile con qualsisia scritto a una condizione nella quale mi sentivo nel mio elemento con qualsivoglia opera. Divoravo indistintamente questo e quello con la stessa voracità. Intendo, stessa velocità di lettura, stesso numero di pagine a seduta e stesso sforzo intellettivo. Certo, alcuni libri mi inchiodavano più di altri e sapevo distinguere una buona storia da una storia mediocre: ma tutto questo non ingolfava la lettura, non la rallentava. Solo due o tre volte ho tirato per le lunghe: The abyss di Orson Scott Card, L’anno del dragone di Robert Daley e il per me assai deludente Manhattan Beach di Jennifer Egan.
Su quest’ultimo, ero così deluso, e inviperito, da aver immaginato, a un certo punto, una sorta di punizione. Se un autore al quale è stato riconosciuto un premio prestigioso come il Pulitzer o affini se ne viene fuori con un libro mediocre o di bassa caratura morale (nel caso di Manhattan Beach si tratta di semplice mediocrità) è opportuno ritirare il premio conferito all’autore. Sì, perché questo scongiurerebbe l’ipotesi di piani “furbetti” tipici delle menti criminali (e non è il caso della povera Jennifer Egan, qui presa a titolo di mero esempio): fare tutto bene, circondarsi di un’aura di importanza, quasi sacralità, e a quel punto, solo a quel punto… colpire a morte. Certo, è un classico! Porsi nella posizione di colui che si trova al di sopra di ogni sospetto. Operare un condizionamento psicologico. Prima mi assegnano il premietto e dopodiché scrivo come una liceale al primo libro. Prima faccio l’insegnante per una vita, parlo di classici e mostro di essere in possesso di elevata cultura e poi… mi produco in un atto di bullismo della più bell’acqua costringendo i lettori a bersi le mie perversioni e il mio cattivo gusto come se fosse un filtro ottenuto in anni e anni di duro lavoro di distillazione. Far fare brutta figura a tutti, far perdere la faccia a tutti coloro che mi hanno per anni sostenuto. In un colpo solo. D’altra parte, se c’è una lezione che ci ha insegnato l’arte del Novecento (ma anche il totalitarismo del Novecento) è il potere del condizionamento mentale: lo squarcio in una tela, l’orinatoio nella mostra di quadri sono oggetti che ci costringono all’elaborazione di una evidente violenza perpetrata ai danni della nostra intelligenza. Sono una forma di bullismo. Come trovare l’arsenico al centro della fetta di torta glassata. Una bastonata rapida e improvvisa: tang! Ma, vale la pena ricordare che mille baci e carezze non impediscono di finire all’ospedale o peggio ancora all’obitorio in seguito a una singola bastonata secca e improvvisa data come si deve.
Tra i tanti libri letti, ho trovato uno e un solo libro veramente assurdo: e mi sono letto pure quello, faticando e arrancando come non mai, e non capendoci nulla come se fosse l’edizione inconosciuta del seguito dell’Ulisse di Joyce dal titolo Ulisse 2 (Il giorno dopo) scritta da William Faulkner con fondamentali contributi di James Ellroy (l’autore di L.A. Confidential) – il che equivale a dire una roba da desiderare di tirarsi il collo da soli. Questo libro, per il quale nutro comunque una forma di profondo rispetto per aver messo così duramente alla prova le mie doti atletiche di lettore, s’intitola Ricambi ed è scritto da Michael Marshall Smith. A parte questo, ho passato gli ultimi anni a buttarmi nella testa libri su libri di ogni forma, dimensione e specie.
Un giorno ho persino raccattato da uno scaffale della mia libreria un libretto horror della serie I Romanzi del Terrore di Freddie Krueger. Me l’ero messo in tasca a un tavolo di book crossing di Alessandria, del quale ero diventato assiduo frequentatore. Passavo anche al tavolo di book crossing dell’Università di Alessandria – l’edificio bianco e piuttosto avveniristico (avveniristico rispetto a tutto quello che puoi trovare in una città come Alessandria che è un modo come un altro per dire avveniristico fino a un certo punto) sede delle facoltà scientifiche. Trovavo sempre qualche libro interessante. Anche troppo interessante. Così interessante che la mia fervida immaginazione di autore di romanzi si era messa all’opera suggerendomi che un’organizzazione segreta inviasse degli emissari al preciso scopo di farmi trovare sui tavoli del book crossing i libri che cercavo da una vita. Magari, avrebbe potuto trattarsi solo di qualche generoso amico… ma l’idea orwelliana dell’organizzazione segreta era molto più accattivante. A pagina 171 di tutti i titoli che cominciano con la lettera T potevano esserci nascoste in codice le istruzioni per la mia prossima missione… Comunque sia, un giorno trovai il libretto della serie I romanzi del Terrore di Freddy Krueger dal titolo Giochi di morte scritto da Bruce Richards e tradotto dallo scrittore horror-noir Stefano Di Marino e me lo infilai in tasca.
Un libretto con in primo piano il volto orribile di Freddy Krueger, cappello calcato in testa e paltò nero, il volto grigiastro squarciato dalle ustioni, la pelle molle e grinzosa, il naso adunco, la bocca digrignata in una smorfia collerica e gli occhi azzurro ghiaccio incorniciati da due circolini di carne ustionata e rossiccia ricolmi d’odio senza dimenticare naturalmente il guanto con i rasoi affilati a mo’ di artigli in bella vista. L’immagine è su uno sfondo blu elettrico. Il colore dei caratteri del titolo è verde acido sopra uno sfregio d’artiglio color fucsia. Un bollino rosso contenente una scritta gialla in basso a destra della copertina avverte che l’edizione contiene adesivi horror che brillano al buio. In effetti ci sono anche quelli, in fondo al libro. Gli adesivi in bianco e nero di un paio di teschi con occhi rabbiosi orlati di nero e chiostre di denti molto lunghi e aguzzi: il primo teschio tiene piantato tra i denti un sigaro storto e troppo grosso e il secondo è agghindato da macabro pagliaccio con una bombetta, la parrucca da clown, il nasone e una mascherina in stile Jonh Wayne Gacy. In un angolo della pagina che contiene queste decalcomanie si può leggere la scritta “Illustrazioni di Paolo Parente” – espressione standard neanche si trattasse di una brochure aziendale… “Illustrazioni di Paolo Parente”. Forse, dato il contesto, sarebbe stato più adatto scrivere “Schizzi di Paolo Parente” o “Visioni lisergiche di Paolo Parente”. Altro particolare che mi ha fatto far su il libro senza pensarci due volte è stata la presenza di una finestrella in mezzo alla copertina che consente di vedere l’illustrazione alla pagina successiva: un ragazzo che indossa un gilet con il cappuccio tirato su e tiene in mano un coltellaccio e sta per avventarsi su uno studente e una studentessa entrambi a bocca spalancata e terrorizzati in mezzo a un paesaggio spoglio, pieno di sterpaglie e terriccio secco mentre il sole sta calando tingendo il cielo di un lugubre color marroncino. Questo genere di copertine pacchiane con me funziona sempre. Devo dire che anche la storia mi ha regalato un’intuizione incredibilmente elevata schiudendomi segreti di libri ben più importanti che ho da sempre sotto gli occhi.
A volte vorrei leggere tutti i libri che ci sono al mondo. So che è un sentimento condiviso tra lettori forti e anche per questo non mi faccio problemi a dichiararlo ad alta voce. D’altra parte, il detto latino Ars longa, vita brevis deriva proprio, ritengo, da questo sentimento, da questa folle volontà che ogni tanto s’impadronisce del lettore forte, del divoratore di libri. Be’, non è proprio così, ma mi piace pensarlo. Quale che sia il demone che mi guida quando mi siedo e apro un libro, la pratica di lettura e soprattutto della scrittura può essere d’aiuto nel fagocitare nel modo più rapido ed efficace possibile storie su storie.
Intanto, bisogna chiedersi in via preliminare: di che cosa si va in cerca quando si legge un libro? Non parlo di ricerche specifiche: leggere andando alla ricerca di una precisa tematica. Ad esempio, leggere il capitolo del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij dal punto di vista psicanalitico (è stato fatto) o leggere I Promessi Sposi alla ricerca della presunta omosessualità del Manzoni (è stato fatto) o cercare una strategia per avere la meglio sul nemico invasore sfruttando l’incalzare dell’inverno russo affidandosi alla lettura di Guerra e Pace di Tolstoj (ed è stato fatto anche questo). Ciò a cui mi riferisco è una visione più schematica delle cose: a grandi linee, generica. In questi casi si risponde che si va alla ricerca di una buona storia e… sì, andiamo alla ricerca di buone storie e di emozioni, quando leggiamo. D’accordo. Andiamo anche alla ricerca di verità: qualcosa in cui riconoscersi e sentirsi meno soli. Tutte queste cose, tuttavia, non arriveranno senza una fondamentale operazione, l’operazione più importante che è quella di capire.
Ciò che vogliamo è innanzitutto comprendere ciò che leggiamo. Ecco perché attribuiamo valore alla “leggibilità”: la leggibilità è chiaramente sinonimo di comprensibilità. Ecco perché sulle bandelle si sbattono le ossa nude della trama: la trama spoglia e scarnificata. L’intreccio è qualcosa che possiamo comprendere. Ed ecco perché a scuola ci insegnano ad andare a caccia, in un componimento poetico, di “analessi”, “anafore”, “similitudini”, “metafore” e via discorrendo. Sono elementi spendibili: cose concrete che sappiamo di ciò che abbiamo sotto gli occhi. Insegnare a “sentire” una metafora, a “gustare” una similitudine, a “cogliere” il senso profondo di quanto il poeta sta cercando di trasmetterci… tutto ciò è invece molto più inconsistente, umbratile. Ma ci sono altre cose da comprendere in un romanzo, cose anche più basilari della trama o della prosa scorrevole – e di tutto quello che abbiamo appena detto riguardo metafore, similitudini e via discorrendo. La cosa più basilare di tutte è qualcosa che ormai abbiamo perso di vista ed è: il perché. Perché quella storia viene raccontata. Ci sono ormai una montagna di risposte sul perché si scriva una storia, ma queste risposte sono ormai troppo spesso estemporanee ed evadono la questione (una questione fondamentale, spesse volte imbarazzante): perché. Che cosa volevi dire con quella storia? Perché hai scritto quella storia?
Così, ecco che molti autori alzano le mani facendo slittare la questione su un piano puramente economico: “Scrivo per soldi” o “Scrivo per non andare dall’analista o proprio per andarci, avere qualcosa che giustifichi la seduta”. Molti autori fraintendono deliberatamente le domande fondamentali: e sui fraintendimenti deliberati sono stati scritti tomi e tomi, sbobinati nastri e nastri di interviste e così via. I fraintendimenti deliberati sono diventati persino regole e verità. Certo, non in tutti i libri c’è una ragione di fondo da cogliere così come non tutti gli autori hanno elaborato una poetica fissa e immutabile che ammanti la totalità delle loro opere. Per alcuni anzi questi possono apparire discorsi antiquati. Oppure forse non si tratta nemmeno di “fraintendimenti deliberati”: il fatto è che una ragione d’esistere certe storie non l’hanno e basta. Solo che è molto infrequente che un autore abbia il coraggio di ammetterlo a chiare lettere: “Non c’è nessuna ragione particolare che mi abbia spinto a scrivere questo libro. L’ho fatto per divertimento mio e degli altri. Nessun messaggio”. Quando un autore si esprime in questo modo, pensiamo che quell’autore (o quella autrice) si stia burlando di noi. Insomma, non sia del tutto serio. Non è possibile che un romanziere scriva per soldi e basta, per non andare dallo psichiatra e basta, per puro divertimento e basta. Scherza. Non può essere. Si dimostra umile. Evita come la peste il rischio di salire in cattedra e mettersi a pontificare. Non può non esserci alcun perché. Invece, potrebbe essere proprio così.
Molti più libri di quel che crediamo, oggidì, non hanno ragione d’esistere. Eppure, se andiamo a vedere i libri che resistono di più al tempo, i libri che ricordiamo, i libri che hanno lasciato il segno, questi libri hanno al loro interno delle robuste ragioni d’essere. Sì, ormai certe parti sono vecchiotte e lagnose. Sì, oggi non appaiono più scritte in quel modo superbo come appariva un tempo. Nondimeno, resistono perché hanno qualcosa di importante da trasmettere. Questo qualcosa va al di là di trama e personaggi, al di là della bellezza della prosa: è appunto puro messaggio, il messaggio di fondo, insegnamento utile alla vita di ciascuno. Noi lettori abbiamo bisogno di capirlo, questo messaggio. Di capire il più possibile. Leggere e comprendere. Dunque, tutto ciò che ci sia di ostacolo a una buona comprensione o alla voglia di proseguire nella storia al fine di comprenderla abbiamo in tutto e per tutto, come afferma anche Daniel Pennac in un decalogo semiserio di diritti riconosciuti al lettore, il diritto di… saltarlo.
Sì, signori miei. Siamo assolutamente seri. Saltare nel corso della lettura non è un gesto simile a chi bara al tavolo da gioco: è invece un grande approdo al quale solo chi ha letto moltissimo, ed è arrivato a comprendere ciò che davvero rileva e non rileva in una storia, giunge. Saltare è lecito, lecitissimo. Persino Umberto Eco lo faceva. Saltava a piè pari le liste troppo lunghe. Diceva che bisogna saltare pur consapevoli di ciò che si sta saltando. Ed ecco, proprio questo il punto: la consapevolezza. Con la consapevolezza uno può fare quasi qualunque cosa: la consapevolezza è un’arma potentissima. Grazie alla consapevolezza, Lucio Fontana squarciò le sue tele e grazie alla consapevolezza Duchamp ci deliziò con i suoi orinatoi e in quanto ad Andy Wharol, neanche a parlarne, tutta consapevolezza. Picasso era consapevole del fatto che i consorzi umani, le collettività, il cosiddetto pubblico, nel suo insieme, non ha un quoziente intellettivo ed emozionale molto dissimile da quello di un bambino: e lui non faceva altro che deliziare il bambino con disegnetti semplici… disegnetti, il più delle volte, da bambini per bambini. La consapevolezza può spingere a fare cose molto belle e anche molto disumane: l’ignoranza non esiste realmente, esistono solo soglie di superiore consapevolezza. Dunque, se siamo consapevoli di ciò che facciamo quando lo facciamo, possiamo fare praticamente tutto. In specie poi se si tratta di compiere il gesto non così sacrilego di saltare paragrafi, pagine e a volte interi capitoli pur di procedere speditamente nella lettura di un’opera.
Ovviamente, se parliamo di “saltare” per comprendere, di “saltare” per sapere, la prima domanda che ci sale sulla punta della lingua è: ma allora è lecito saltare l’intero libro per andare a vedere chi è l’assassino in un romanzo di Agatha Christie o di Sir Arthur Conan Doyle? La risposta è no, non è lecito. Sarebbe sciocco, no? Chiunque lo capirebbe. Non importa sapere chi è l’assassino, ma capire dove sta il giallo, in che cosa consiste il giallo: chi è la vittima, perché è stata fatta fuori e come, come soprattutto l’assassino abbia compiuto il suo assassinio sperando per giunta di farla franca. L’ingegnosità del crimine. Questo importa. Infatti, noi italiani abbiamo un grande esempio di che cosa sia realmente essenziale in un giallo ossia Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Un libro tutto italiano, che anticipa l’omicidio Pasolini, Ustica e tutti i grandi misteri irrisolti del nostro Bel Paese. Sì, perché Gadda capì subito, complice la sua italianità, che risolverlo, un giallo, è sì una gran bella cosa, ma provoca nel lettore anche il dolorino di una piccola delusione. Perché ogni lettore ha la sua opinione, o suoi sospetti, ma alla fine l’assassino è uno e uno solo, e così… così il lettore nel provare il piacere della sorpresa, si accorge anche che… be’, il mestiere dell’investigatore non è il suo.
Difatti, Agatha Christie in persona si pose probabilmente la stessa questione, ovvero come soddisfare i suoi lettori senza farli sentire un po’ stupidi, risolvendola molto brillantemente con Omicidio sull’Orient Express, dove assassini sono tutti. Gadda invece capì che il bello del giallo è il giallo nel suo svolgersi, c’è un misfatto, una rosa di presunti autori del delitto, una serie di ipotesi: lasciarlo irrisolto significa prolungare indefinitamente il piacere della ricerca della soluzione dell’enigma. Non è disdicevole saltare per andare a vedere chi è l’assassino, in un giallo, solo nell’ipotesi in cui il lettore, vagliate tutte le ipotesi romanzesche, studiata la situazione, abbia ragione a concludere che l’unico colpevole non possa essere che il tal indiziato, e che pertanto per lui sia inutile proseguire nella lettura, ma possa saltare alle ultime pagine per verificare la validità delle sue ipotesi. Tanta fatica. Quasi meglio leggere, senza stare troppo a elucubrare. Ricordiamo che noi lettori dobbiamo lasciarci trasportare dalla storia e non dominarla o riscriverla. L’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci è arrivare in fondo senza fermarci alle stazioni intermedie. Fare in modo di procedere rapidamente sulle parti che ci sembrano soporifere (e che probabilmente, per una quantità di ragioni, lo sono) senza perderci qualcosa per strada.
Come fare, dunque?
Essere in possesso di qualche informazione preliminare prima di leggere, ad esempio, un classico è un buon punto di partenza. Tenere conto che fino all’Ottocento si è scritto con la penna d’oca su fogli svolazzanti. Tenere conto che molte delle opere che leggiamo comparivano a puntate sulle riviste. L’autore aveva pertanto sempre lo stesso problema: doveva scrivere abbastanza da riempire fogli. Doveva tenere desta l’attenzione del lettore, d’accordo, inventandosi storie, storielle, aneddoti, teorie persino. Doveva fare in modo che tra l’un numero e l’altro il lettore fosse in grado di raccapezzarsi. Ecco la ragione, ad esempio, dei frequenti résumé all’interno delle opere dostoevskiane o dickensiane o tolstoiane. Se ci si rende conto che si sta leggendo un paragrafo che serve come riassunto delle puntate precedenti all’interno di una rivista, e se questo riassunto ormai non ci serve, via, saltarlo! Anzi, un esperimento interessante sarebbe quello di mettere insieme una serie televisiva facendola diventare un unico film compresi i riassunti delle puntate precedenti. Ci si renderebbe conto non tanto di quanto sia assurdo fare una cosa del genere, ma di quanto sia insensato muovere critiche all’autore dello sceneggiato televisivo. Non è certo colpa di un autore ottocentesco se il romanzo viene riassunto così di frequente: semmai è il feticismo dell’opera integrale il problema. Colpa è dei posteri.
Ma anche gli aneddoti possono saltarsi. Spesso, ad esempio, presentiamo il capitolo V del Libro V dei Fratelli Karamazov come una storia a sé stante. Ebbene, questo è vero, ma nel dir questo pare non tenersi conto di quella che Michail Bachtin chiamava “polivocità” dell’opera dostoevskiana. I Fratelli Karamazov è una narrazione condotta lasciando parlare i vari personaggi che la animano: ma non sono solo “voci”, chiacchiere, cinguettio, cicaleccio. Questa “polivocità” altro non è che un incastro sapiente di aneddoti su aneddoti, storielle: un’operazione simile, tanto per avere in mente un paragone, al trittico di Francis Bacon. Ogni storia è a se stante, e tutte insieme formano l’opera, e “Il Grande Inquisitore” è solo una delle numerose storie all’interno dei Fratelli Karamazov al pari della “Cipollina”, del “Bimbino” e al pari di tante altre. Al punto che se si saltasse a piè pari il libro dedicato alla morte dello Starec Zosima e tante altre storielline disseminate nel corso della narrazione, i Fratelli Karamazov si snellirebbe di parecchio e da mille e passa pagine diventerebbe al massimo seicento. Lo stesso dicasi, ad esempio, per Resurrezione di Tolstoj, nel qual libro l’ultima parte abbonda, con dovizia di particolari, di casi di abusi di potere da parte dei tribunali. Certo, queste parti, anche se non necessarie, sono scritte da grandi penne. Tuttavia, possono sempre saltarsi per leggersi con più calma in un secondo momento. Del resto, il capitolo del “Grande Inquisitore” sembra essersi ormai fagocitato l’intero libro, sembra non esistere altro ormai, dei Fratelli Karamazov, e pensare che sono solo poche paginette! Sarebbe quasi un atto di giustizia nei confronti del romanzo, saltare quel capitolo!
Stiamo solo giocando un po’. Del resto, tutto il tono di ciò che abbiamo scritto finora si muove sul filo del paradosso e dell’ironia, a tal punto che ogni singola parola del presente scritto potrebbe essere vera e il suo contrario. Anzi. Qualche riga sopra siamo stati ingiusti nell’esprimerci in modo così sciatto nei riguardi di Tolstoj e Dostoevskij, i quali “s’inventavano” storie, storielline, teorie persino per riempire di volta in volta la quantità di fogli necessaria da consegnare agli editori delle riviste sulle quali comparivano a puntate i loro romanzi. Questi autori credevano in quello che raccontavano: avevano un’idea molto precisa della cristianità e ogni aneddoto ne costituisce un esempio straordinario. Tolstoj, in particolare, aveva fondato, o fecondato, un movimento di pensiero – a Dostoevskij non riuscì di fare lo stesso, ma probabilmente proprio per l’intrinseco anarchismo delle teorie dostoevskiane: il mondo è sede di malvagità e cattiveria, non può sorgervi nulla di buono, come si fa, dunque, a fondarvi alcunché? Chi ormai, tra gli autori di romanzi, crede così fermamente nella forza del pensiero e della letteratura da riuscire a dare vita a un movimento? Chi? L. Ron Hubbard?! L’inventore di Scientology?! Da Tolstoj a L. Ron Hubbard! Un bel salto davvero, non c’è che dire! Ormai la maggior parte degli autori non si lorda più le mani come un tempo. Non rischia più. Un esempio? Robin Cook. Grande autore statunitense di medical-thriller. Ha scritto moltissimi romanzi ambientati in ospedali e laboratori scientifici. Tra i miei preferiti Contagio, Sguardo cieco, Progetto di morte e Vector.
La copertina dell’edizione tascabile della Sperling&Kupfer di Sotto controllo mostra un medico con il camice bianco slacciato, sotto una camicia e una cravatta a strisce rosse e nere. Dal collo gli pende uno stetoscopio con la guaina di gomma color rosso. Ha un viso belloccio, idealizzato, con i capelli tagliati corti pettinati con la riga e lo sguardo fisso e completamente imbambolato. Tiene il braccio destro sollevato a metà altezza, anche il sinistro è sollevato ed è sollevata, particolare del tutto straniante, la gamba destra. Se si strizzano bene gli occhi si notano dei sottili fili bianchi attaccati a mani e piedi. Il medico è una marionetta umana. Ebbene, praticamente ogni romanzo di Robin Cook mette a nudo i limiti e le storture del sistema sanitario americano e l’assoluta mancanza di scrupoli delle case farmaceutiche. Dunque, si presupporrebbe che stante lo stato attuale delle cose a livello planetario sia arrivato il suo momento. “Vai! Fatti sentire! Fonda un Movimento di Protesta! Diventa capopopolo!”. Invece, Robin Cook è il primo a essersi vaccinato e non si fa alcun problema a invitare i suoi affezionati lettori a vaccinarsi il prima possibile. Mi sembra una contraddizione oppure semplicemente si tratta di un elemento di confine tra la letteratura commerciale fatta per vendere e divertirsi e la letteratura vera. Chi fa letteratura vera è pronto a sostenere le sue tesi dentro e fuori le sue opere di finzione.
Tornando alle nostre ben più umili faccende, altro esempio tra i più celebri di pezzi di romanzo che si possono saltare con l’idea di leggerli in un secondo tempo al fine di non perdere il filo della narrazione è la sezione dove Herman Melville si getta a capofitto in un trattato sui capodogli e il commercio dei barili d’olio in Moby Dick. Non bisogna avere paura di saltare alcune parti corpose di certi libri con il proposito di leggerle più tardi. Specie poi se queste parti hanno fama di essere orpelli (sublimemente ricamati), ma: orpelli, della narrazione principale. L’importante è farlo con il massimo riguardo, e soprattutto: tornarci sopra in un secondo momento e leggerli, santiddio!, leggerli! Si gusteranno senza il timore di aver interrotto la vicenda principale e di non ricordarsi più che cosa accade. Certo, nel corso del libro, come detto, si incontrano i riassunti: ma uno dei problemi del lettore con tanta voglia di leggere è la disattenzione. Da un lato hai voglia di macinare pagine su pagine, ma dall’altro, nel farlo, qualcosa può sfuggire: così potrebbe essere che questi riassunti non ti saltino subito all’occhio.
Nei libri ottocenteschi i concetti vengono ribaditi a più e più riprese: nei Fratelli Karamazov Mitja a pagina 560 dice una cosa a Agrafena Aleksandrovna e poi ripete tutto al procuratore generale incaricato delle indagini a pagina 770. In Resurrezione di Tolstoj nel corso del processo alla Maslova i capi d’imputazione vengono ripetuti più e più volte. Ci sono parecchie parti così, e si possono saltare. In più, per qualche ragione, saltare scientemente parti di romanzo tiene desta l’attenzione piuttosto che intorpidirla: costituisce un piccolo stratagemma per essere lettore attivo, partecipe di ciò che si sta leggendo. Non al punto di voler riscrivere la storia o congetturare troppo, ma fino al punto di voler rimanere sulle tracce del celeberrimo filo rosso di goethiana memoria, sì, non perderlo mai di vista, quel vermiciattolo sgusciante. Ma si possono saltare anche altre parti. Ad esempio, non è poi così disdicevole saltare alcune parti in Tolstoj, per rimanere all’esempio di Resurrezione, dove il nostro si mette a teorizzare. Certo, le parti sulla religione cristiana sono fondamentali per comprendere quanto Tolstoj avesse capito tutto della Bibbia, ma altre parti, alle nostre orecchie, possono apparire ormai cose arcinote – specie se si è ascoltata qualche tribuna politica in Tv. Con il massimo rispetto, si possono saltare, per leggerle magari con più calma in un secondo momento.
Ciò che è fondamentale, in un romanzo, è l’arco narrativo: cosa capita ai personaggi. Questo è molto importante. Se al termine del romanzo Emma Bovary inghiotte un veleno e la fa finita, questo è un messaggio assai più potente di mille discorsi che si potrebbero fare o non fare circa l’opportunità o meno di rendere becco l’ignaro marito Charles. La storia è il messaggio. La storia l’etica. Bisogna avere ben presente lo svolgersi dei fatti: le relazioni dei personaggi, chi compare prima e chi arriva dopo, chi ci lascia le penne e chi sopravvive, chi gioisce e chi versa lacrime. Dopodiché, arriverà il resto. Spesso un errore che commettiamo è concentrarci troppo su episodi che rappresentano generiche attenuanti perdendo di vista i fatti e i misfatti più rilevanti. Importante è anche che siamo noi a dover leggere le storie. Noi a capirle. A filtrarle attraverso la nostra sensibilità, le nostre emozioni, i nostri sentimenti. Noi. Oggigiorno, basterebbe leggersi un riassunto dell’opera ben fatto. Basterebbe guardarsi la serie di film girati da Hollywood sullo stesso classico nel corso dei vari decenni. I film tratti dai romanzi di successo. Affidarsi ai critici. Le tremila recensioni disponibili sulla rete. Ma andare alla fonte è impagabile, e dice moltissimo. Ciò che vogliamo è capire. Capire. Prima ancora che godere di una descrizione ben fatta o di un dialogo ben costruito, gustare gli ornamenti del discorso… desideriamo capire. Anzi, quando un autore si capisce, si capisce davvero, non c’è nemmeno più bisogno di leggerlo, in fondo. Leggerlo non farà altro che confermare ciò che di lui siamo riusciti a capire facendo attenzione nel corso della lettura di una o due o tre o quattro (il numero che ci occorre di) opere. Si potranno affrontare testi critici di incredibile levatura quasi alla pari di chi li ha scritti o quantomeno si sarà in grado di capire cosa quel commentatore stia realmente dicendo, di seguirlo, e gustarselo, come un vecchio compagno di bevute al bar, e in certi casi di rendersi conto se quel chiosatore abbia in fin dei conti capito o non capito il materiale romanzesco che va tanto alacremente chiosando. Soprattutto, capire ci consentirà di passare a un altro autore. Non sarà necessario leggere proprio tutto tutto. Ars longa, vita brevis e Tempus fugit.
I personaggi, in un’opera letteraria, è un dato di fatto, per stare in piedi, devono bere e mangiare. Se l’autore si attarda a descrivere pietanze e bevande, per di più elencandole, via, saltare! I personaggi hanno buona educazione e tra loro devono salutarsi, scambiarsi qualche convenevole. D’accordo. Tutto molto commovente, ed è giusto che l’autore incarichi il suo narratore di rappresentare queste cose. Però, noi, molto rispettosamente, saltiamo. Se nel corso della narrazione incontriamo una lettera o un articolo di giornale, e se questi testi vengono presentati con caratteri più piccoli rispetto al resto, saltiamo! Infatti, novantanove su cento le parti più rilevanti di quei testi verranno ripresi e commentati dai vari personaggi nei paragrafi successivi. Persino quando troviamo canzonette, filastrocche, poesiole, in fondo, possiamo permetterci di saltarle. Di solito, infatti, non si perdono chissà quali pezzi di bravura artistica. Pure il ritmo della lettura deve essere sostenuto, aggressivo. È il libro a doverci temere. Siamo noi che lo dobbiamo attaccare. È un oggetto, no? Trattiamolo da oggetto. Sottomettiamolo alla nostra volontà. Utilizzare un metronomo può essere, per quanto comico, un metodo, ma per darsi una certa cadenza nella lettura anche il rumore di un buon pendolo può bastare. Leggere con una certa rapidità chiarifica meglio le cose che soppesare parola per parola. È prosa, non poesia! E il tizio che ha scritto quella roba è molto spesso un avvinazzato alcolista con il cervello in pappa e le mutande gialle. Soffriva di mal di denti e aveva la gotta. Non è certo migliore di noialtri. Non poteva avere tutta questa lucidità. Ars longa, vita brevis e Tempus fugit.
Così facendo si potrà arrivare in fondo alla lettura di parecchi libri senza avere avuto la sensazione di barare come il tipo che va a leggere l’ultima pagina per vedere come termina la storia: se Romeo e Giulietta riusciranno a convolare a giuste nozze, se Agamennone e Menelao fermeranno gli eserciti dicendo “Dai, ragazzi, smettiamola di fare gli idioti per una donna e andiamo a casa”, se il principe Nechljudov sposerà o non sposerà la Maslova o se invece dopo tutto l’impegno profuso e la discesa negli inferi delle carceri non tornerà per caso nella sua lussuosa dimora rifugiandosi nella lettura della Sacre Scritture in una delle soluzioni meno romanzesche nella storia del romanzesco, se Mitja è o non è un parricida, se il Capitano Achab riuscirà o non riuscirà a infilzare Moby Dick… Come se questo, poi, avesse una qualche importanza! Sì, con questi accorgimenti e altri simili, potremo macinare libri su libri. Non c’è dubbio. Certo, sarà impareggiabile il momento in cui leggeremo un libro dalla prima all’ultima parola senza saltarne nemmeno mezza: ci sembrerà di contenerle tutte nella testa, come un cielo serale pieno di stelle. Quando sentiremo che non c’è bisogno di saltare nulla di ciò che stiamo leggendo sapremo che abbiamo difronte il nostro libro, la storia che fa per noi, nostra, nostra, nostra. Va anche aggiunto prima di chiudere che pur seguendo questo metodo in effetti chi scrive non è ancora riuscito a eguagliare il suo amico scrittore che ha dichiarato di essersi fatto fuori una trentina di romanzi di Agata Christie in un mesetto appena. Pensa di poter affermare con una certa sicurezza, l’autore di questo scritto, di essere arrivato al massimo a una decina. Ma… Non si può mai sapere…