Il cielo negli occhi e l’inferno in bocca. Gli orizzonti della Serpe d’Oro sono lontani, la parola è quella della vostra terra, Il pane e la sassata incarna provenienza, destinazioni, cultura e musica del vostro progetto.
Abbiamo una concezione aperta, e liquida, di quello che sono cultura, lingua, origini: sono toscano di nascita ma friulano – anzi: mezzo slavo – d’origine, la radice paterna, coltivata negli anni, e pure veneto per parte materna, benché quel filone non sia stato familiarmente approfondito granché. Pure quelle son terre di passaggio, che hanno visto carnati e tratti somatici diversissimi nel tempo. Il meticciato è da sempre nel nostro DNA, non certo è il futuro da temere. Per La Serpe d’Oro volgere lo sguardo al repertorio popolare è un modo di interrogarsi sul futuro, anche perché lo affrontiamo con le sonorità, le soluzioni, pure le debolezze musicali che ci hanno formati, e quindi il folk, il blues, un certo tipo di rock contaminato: non suoniamo come se fossimo contadini, altrimenti saremmo davvero inautentici, posticci. Tradire, per essere fedeli, come dicono certi filosofi.
Al centro della vostra operazione c’è il repertorio popolare toscano, ma quale tipo di reinvenzione mettete in campo?
Suoniamo quel che suoniamo non per “salvare” un repertorio: lo facciamo perché i pezzi che scegliamo sono belli, “ci parlano” e vale assolutamente la pena di riprenderli. È un’operazione in qualche modo non dissimile a ciò che avviene in teatro: non si rimette in scena Amleto per “salvare” un testo scespiriano, ma perché quel testo non ha ancora smesso di dirci cose. Non solo: affinché ci parli davvero, è assolutamente necessario che il repertorio venga “interrogato” (ossia vivificato) con i suoni e le soluzioni che ci sono affini, nella nostra “lingua musicale”, senza forzarci volendone parlare un’altra.
Con tutta la consapevolezza circa le distanze del caso, temporali e qualitative, per noi la canzone popolare toscana è il “nostro blues”, e infatti parla di lavoro, fatica, amore, sofferenza. Vorremmo riuscire a proporla a più persone possibile, anche perché, contrariamente ad altre tradizioni italiane (penso alla canzone napoletana, ma pure alla pizzica salentina), gli artisti che si sono dedicati al popolare toscano quasi mai hanno voluto rivolgersi a un pubblico che non fosse di nicchia, composto da appassionati, esperti o addetti ai lavori.
Per arrivare al Pane e la sassata ci sono alcuni passaggi chiave su disco e palco, con titoli emblematici: Toscani randagi, Maledetta Toscana, Tra la Toscana e Timbuktu. La toscanità espressa nel Pane e la sassata ha qualcosa di diverso?
Credo che ci sia uno scarto, e questo possa ben riscontrarsi nella scelta delle canzoni, ma pure dal magma sonoro, “contemporaneo”, dal quale affiorano i singoli brani.
Come già detto, la nostra è una concezione aperta: il confine, se c’è, ha da essere valicabile e, infatti, in questo disco sono presenti alcuni pezzi “d’autore”; ma lo stesso discorso lo si può fare sotto il profilo sonoro. Da sempre usiamo una commistione di suoni acustici ed elettrici, e questo è altrettanto fondamentale per sottrarci a qualsiasi dimensione bucolica, illustrativa, cartolinesca.
Il pane e la sassata è un’espressione piuttosto enigmatica e neppure diffusa in tutta la regione: equivale a dire o bene bene, o male male, ma c’è chi la interpreta pure come un’apposizione di qualcosa di buono (il pane, appunto) subito seguito dal suo contrario (la sassata). Si tratta di un disco peculiare: per me, è una sorta di concept album, i cui fili rossi sono rappresentati da una riflessione sull’amore e dalla posizione (nostra, ma anche dell’ascoltatore) rispetto al passato e a ciò che facciamo.
Il pane e la sassata contiene due brani già noti, che sono agli antipodi ma sintetizzano la vostra filosofia, musicale e contenutistica. Il primo è Marassi Blues, ovvero Johnny Cash rivisitato nel 2019: non solo Toscana nel DNA della Serpe.
Da sempre mi diverto a tradurre, anzi riscrivere in italiano, canzoni straniere: non sono certo il primo... Credo che sia un esercizio molto utile per la scrittura tout-court, permette di offrire chiavi di lettura importanti alle quali non tutti hanno accesso, senza conoscere la lingua originale di un pezzo. Nel tempo ho riscritto molti brani di Bob Dylan, Leonard Cohen, George Brassens, persino di Vladimir Vysotsky, strepitoso cantautore russo venuto a mancare una quarantina di anni fa.
Nel caso di Marassi la canzone sorgente è Folsom Prison Blues, pezzo tra i più famosi di Cash: al momento di farne una versione italiana, però, pensai che non avrebbe avuto senso cantare, nella nostra lingua, di un carcere californiano; così andai a cercare un penitenziario “nostro” e, data la storia narrata nel pezzo, vicino ai binari del treno, perché il carcerato di Cash racconta di sentirsi male ogni volta che sente fischiare un convoglio. Così, Folsom diventa Marassi (il carcere di Genova, dirimpetto allo stadio e vicino alla stazione Brignole) e la Francia si sostituisce a quello che nel testo è San Anton, San Antonio. La cosa importante, però, è che la canzone “regga” autonomamente nella lingua di approdo, e credo che questo avvenga: altrimenti si tratterebbe di un mero, ma poco interessante, esercizio di stile.
Marassi Blues, in versione lievemente diversa da quella pubblicata adesso, è stata inclusa in una bella raccolta messa su dalla rivista Buscadero, questo grazie ad Andrea Parodi e a Bobo Rondelli: avremmo voluto quest’ultimo a cantare l’ultima strofa in inglese, ma per acciuffare Bobo, a volte, gli va messo il sale sulla coda, come si dice dalle nostre parti.
L’altro pezzo incriminato parte addirittura da un alto riferimento, il Decamerone: Amor, la vaga luce. Dalla Folsom Prison al contado fiorentino durante la peste: qual è il punto di congiunzione?
Mi verrebbe da dire, forse, il dolore, ovviamente rielaborato quasi alchemicamente. Da un lato la costrizione fisica di chi è “al gabbio”, dall’altro quella del trovarsi in quarantena, dato che la cornice della raccolta di Boccaccio è il “lockdown” affrontato nel 1348.
Il pezzo nasce in occasione della prima serrata, a marzo 2020: vengo contattato dall’amico Giovanni Guerrieri della compagnia teatrale I Sacchi di Sabbia, perché la Scuola Normale Superiore gli ha commissionato di curare una lettura completa (ovviamente a distanza) del Decameron; cento novelle distribuite in 10 giornate, ognuna delle quali termina con un componimento in verso. Guerrieri, quindi, ha pensato di coinvolgere alcuni musicisti e così anche noi, dato che Toscani randagi gli era piaciuto molto.
Un po’ come la riscrittura da altre lingue, anche la composizione su testi poetici pre-esistenti è una pratica che mi piace e affascina: ho scelto la canzone recitata da Dioneo alla fine della Giornata V e il pezzo è nato con una certa fluidità, come se “volesse” essere suonato. Ne siamo contenti.
Blues, letteratura ma anche canzone italiana: perché la rivisitazione di Sfiorisci bel fiore di Jannacci?
A maggio del 2020 questa canzone, bellissima, ineffabile, mai del tutto comprensibile, è divenuta una sorta di ossessione per me, in reazione a un fatto molto doloroso che ha colpito un amico più che fraterno. Iniziai a suonarla e risuonarla: ogni volta l’effetto emotivo era fortissimo. Si tratta di un pezzo che la gente della mia età ha conosciuto grazie a una cover di De Gregori negli anni Novanta: io ho provato a riportare il brano alla sua essenzialità, alla sua nudità folk perché, di fatto, sembra davvero una canzone popolare, ne ha la cadenza, l’andamento. Quando la feci sentire a Jacopo, il contrabbassista, ne rimase impressionato: era una delle sue canzoni preferite, e io neppure lo sapevo; da lì, abbiamo deciso che l’avremmo inserita nell’album, o sì o sì, con una dedica speciale.
L’attingere al patrimonio popolare regionale non esclude che in studio ci sia un lavoro certosino, che magari non ci si aspetta in area folk: il caso di Sotto il ponte della Sieve – spalmata nell’intero album – è eloquente.
Avremmo voluto inserire questo brano (un’antica ballata d’area fiorentina, d’eco rinascimentale) nel disco precedente, ma la suonammo troppo male! A questo giro l’idea è stata di coinvolgere Claudio Riggio, chitarrista di provenienza jazzistica, ma che da anni si interessa di improvvisazione contemporanea. Per nostra fortuna Claudio si è detto favorevole a collaborare, è venuto in studio e ci ha letteralmente guidati in una sessione di registrazione bellissima, facendoci suonare come non avremmo mai immaginato di poter fare. In una giornata di lavoro abbiamo accumulato circa settanta minuti di musica, costruita “intorno” alla canzone scelta e tutta molto, molto buona: praticamente un disco a parte!
Ed è qui che entra in gioco l’altro grande padrino di questo album, Stefano Giannotti, compositore da anni attivo sulla scena internazionale. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a ricavare una canzone da tutta quella mole di registrazioni ed è stato lui a farci la proposta che, in fondo, ha mutato profondamente la natura di tutto il lavoro: anziché realizzare un pezzo “strano”, da relegare al ruolo di episodio peculiare, frammentare Sotto il ponte della Sieve (che peraltro è una canzone narrativa, quindi facilmente frazionabile) all’interno dell’intera incisione, tra un brano e l’altro, rendendola, di fatto, l’asse portante di tutto l’album. Idea geniale, cui peraltro si è aggiunto il suo contributo in termini di rielaborazione sonora, e anche l’inserimento in primo piano di quell’elemento acquatico che è divenuto fondamentale nel disco e che era stato anticipato dal video di Amor, la vaga luce girato da Debora Pioli, altra persona cui dobbiamo essere più che grati.
Siamo partiti da un punto per arrivare in un altrove che mai avremmo immaginato, e questo grazie ad amici e musicisti il cui contributo non solo ci piace, ma ci onora moltissimo.
A proposito di musica nostrana, un vostro riferimento di partenza fu Caterina Bueno: quanto è ancora influente nella Serpe?
Molto, anche se c’è da dire che la Serpe non è da considerarsi quale mera gemmazione dell’esperienza di Caterina, anzi. Siamo, come lo era pure lei, degli impuri per natura e convinzione, e nel nostro lavoro gli echi di altri artisti sono numerosi. Per restare alla Toscana, io rimango esterrefatto ogni volta che ascolto Daisy Lumini, ma da Muddy Waters a Nick Cave, da Les Negresses Vertes ai Pogues sino ai Calexico, il pantheon dei nostri riferimenti è quanto mai ampio. Con Caterina credo che possiamo dire di condividere una ruvidezza passionale, e forse anche una sorta d’irriverenza che, per quanto mi riguarda, è qualcosa di radicato, sicuramente assai toscano, ma non solo.
Nella vostra storia avete affrontato tanti concerti senza sosta, dal palco ai bar: quanto ha contato per la fisionomia della Serpe il contatto col pubblico?
Molto, anzi, di più. Suonare, per noi, è “sentire” il pubblico, al punto che, nelle prime occasioni di concerti in teatro, il fatto d’avere i fasci luminosi puntati contro gli occhi senza poter vedere nitidamente il pubblico ha rappresentato qualcosa di “strano”, cui doversi abituare. Suonare in strada o in mezzo ai tavolini di un’osteria implica, invece, una sintassi particolare dei movimenti, degli sguardi; stare su un palco, fosse anche di un pub, è un’altra cosa, e necessita di una diversa consapevolezza. Quello che resta, e per noi imprescindibile, è il bisogno di creare un ponte con lo spettatore/ascoltatore, fosse anche per “begarci” un po’, dato che, in Toscana, si litiga sempre, anche quando si va d’accordo: il conflitto, inteso come scontro rituale, è una costante, persino nelle canzoni d’amore, persino nelle ninne nanne.
In tempi come questi è difficile prevedere cosa succederà dal vivo ma siamo ottimisti: Il Pane e la sassata in concerto sarà un teatro canzone diverso dal disco?
Su come presentare il disco dal vivo ci stiamo ancora pensando: purtroppo di tempo ne abbiamo, nel senso che difficilmente sarà possibile tornare a suonare dal vivo a breve termine. Credo, comunque, che da tarda primavera in poi e per tutta l’estate le cose dovrebbero migliorare e sono convinto che questo 2021 non sarà certo peggiore dell’anno precedente.
Ci piacerebbe molto fare un concerto di presentazione in teatro, con tutte le persone che hanno collaborato all’album, da Pamela Larese, la voce femminile, a Luca Giovacchini, il chitarrista elettrico bravo (quello scarso sono io), dai citati Riggio e Giannotti a Riccardo Innocenti, tecnico del suono e percussionista, sino a Serena Davini, che ha suonato in un pezzo. Valuteremo e cercheremo di fare il meglio possibile, sperando, soprattutto, che il nostro lavoro possa piacere e offrirci ulteriori possibilità di suonare.