La modernità ha ucciso l'eternità e la postmodernità ha ucciso il tempo. Ma il futuro è predeterminato dalla struttura del soggetto. Il futuro ha senso anche prima di avvenire. Ancor di più, ha senso perfino se non avviene.
(Alexander Dugin, Quarta Teoria Politica)
Quando nel 2005 mi chiesero di curare la mia prima mostra collettiva di pittura figurativa contemporanea partii dal nome dell'evento, come sempre ho poi fatto in seguito e il primo nome fu: Pictor in Fabula. Incursioni visive nel simbolico contemporanea. La magia del nome contiene già il Mito fondante, cioè Roma, civiltà nominale e nominante. Ma anche l'epos eroico dell'Ellade è storia di nomi parlanti, nomi da iniziati come Giasone, Perseo ed Heracle, che si aggiungono al nome di nascita, spesso obliandolo come nel caso di Bellerofonte, Odisseo, Achille. La scelta fu programmatica: l'arte è arte se si rivela capace di racconto, di fabula e la fabula è per sua natura cosmofanica, ordinatrice e rivelatrice di un'idea di mondo. C'è pittura solo dentro il racconto, si dà la pittura quale fatto narrativo, campo semantico. Platone considerava la pittura il coronamento di tutte le arti in quanto arrivava per ultima a colorare le statue, e per i Greci ciò che appariva ultimo era segno di perfezione. Teleo, verbo iniziatico. La stessa scultura era realtà non decorativa ma pienamente idolica e rituale. Le statue venivano profumate, coronate di fiori, incensate. La scultura quale fatto cosmogenetico, fondativo, celebrativo di un epos, incorporazione di un'eroicità agonica che andava ostentata, irradiata una volta maturata la sua vittoriosa presenza.
Gli eventi artistici per me sono sempre “incursioni”, cioè fatti d'arme, esplorazioni, viaggi dentro una simbolicità vivente già data, già pronta per essere organizzata in visione condivisa e consapevole. L'evento è ad-ventus, cioè attesa ierofanica di un reale in corso di emersione. Tutto è contemporaneo e tutto è simbolico. Il senso stesso della vita e il concetto stesso di “mondo” ci appare una rete semantica in questo processo simbolico e simbolicizzante. La tensione biologico-organica stessa tende all'unità, alla confezione di una maturazione piena. L'arte è la ricostruzione del mondo dentro una visione estetica, quale visione estetica. L'arte ri-vela il mondo nel senso che lo cela in forme nuove tessendo cangianti relazioni e veli i quali mentre occultano lasciano intravedere le forme del mondo quale corpo narrativo. Guardando così l'arte quale veste dell'idea di mondo dall'estetico possiamo traslare verso “l'estatico”, verso esperienze e dimensioni che ci portano oltre noi stessi, fuori dalla propria autopercezione. Per me l'arte o è mitogonica o non è arte. Mitogonìa: il racconto che si muove e lotta e il combattimento che mentre agisce narra.
L'essenza mitogonica dell'arte rappresenta la base di ogni idealità. Mitogonia significa direzione di senso, percezione di un Fato, espressione di una destinazione e di una dedicazione, scelta non reversibile, compimento di un rito propiziatorio, risuonare di una volontà. Per questo l'arte è sempre contemporanea, perchè si apprezza quale concrezione dello spaziotempo nell'assolutezza del determinato. Oggi questo cuore della genesi della visione estetica incontra una grande criticità: il situazionismo quale ideologia, il “mondo quale remake”, il modello reificante e uniformante della società liquido-aerea.
Alexander Dugin ha avuto il merito di denunciare con adamantina lucidità l'essenza necrotica di tale dittatura degli stati d'animo e delle suggestioni di massa e ha colto uno dei suoi tratti più tragici nella nullificazione del tempo, nella dispersione di ogni direzione e collocazione. Il post-moderno si apprezza oggi nella sua natura nichilista più estrema che riesce a sopravvivere alla fine della modernità quale mito ideologico tramite la manipolazione artificiale dell'emersione spontanea e vitale del pre-moderno. Se Mitogonia indica ricostruzione di un tessuto connettivo, rigenerazione di una “mitologia del futuro e dal futuro” al contrario l'Astratto post-moderno, culto del disincarnato e dell'effimero, divinizza non l'Epos ma il frammento, l'evasione, l'intrattenimento dell'attimo atomizzato.
Il senso del kosmos per il vuoto presente si riduce a semplice gioco parodistico e ironico, a sfruttamento delirante del Tempo quale relitto e scarto. L'arte rinuncia a se stessa e allo stesso senso della presenza per accontentarsi di cadenze di stilemi svuotati, di giochi autoreferenziali fra simulacri di pensieri e di segni. Se il situazionismo è condizione omnipervasiva, ultima ideologia, vuota, che resiste con forza al ritorno della trascendenza, se quindi l'arte resta essenzialmente fenomeno comunicativo più che esperienza di ricerca e fondazione, allora permane sempre il rischio tecnocratico, cioè né il rischio di un’arte suicida in quanto emarginata a mera tattica di marketing. Fra ideatività ed effettismo resta una crasi, un vulnus. Insostenibile. La sospensione dell'incredulità implode se il dis-incanto supera un punto di saturazione. La parodia della parodia, l’ironia dell'ironia non più sostenibile.
Oggi abbiamo opere d'arte che sarebbero state considerate “progetti di opera” e non lavori conclusi, solo due generazioni fa. Mancando l'epos proprio di ogni semantica, scema la tensione proiettiva, assimilativa e ricostruttiva. L'eccesso di programmazione estetica nella costruzione di una situazione impoverisce la grammatica estetica. L'arte come lego. L'arte in provetta. Basta ricombinare i medesimi elementi, mera questione di posizionamento. Frame senza più il film originario. Il Mito della situazione scuota gli scenari verso il ritorno anagogico alla Mitogonia. Se l'essere, con Derida, è Presenza, anzi presenze, tracce, allora ogni lacerto di fenomeno appare di per se artistico. L'opera diventa design dell'esistente, ovvero del mercato, regista di oggetti subito perfetti. Domina l'eudaimonismo inglese settecentesco che riduce l'arte a mera questione mercantile di gusto o di indicibile genio. Ma il culto del frammento si rivela suicida, sterile, in breve afasico.
Il Mito quale celebrazione, rito sacrificale e generativo. Il Mito quale racconto dell'Origine, quale racconto “dell'essere uno”. Il Mito emerge nell'agone, nella lotta di cui appare rivelazione e composizione. Se si pretende di eludere il tempo ci si autoaliena dall'Essere. L'arte nasce quale fatto unitario, quale rito comunitario tanto eidetico quando grammaticale, come la pittura rupestre ci insegna. L'istanza dell'evasione, della re-cita, dell'intrattenimento appare mercato dove si contrabbandano ombre senza condividere visioni o fondare appartenenze. I casi di Vezzoli e di Koons dimostrano come l'ultra-pop ha vita breve e non possiede radice in se stesso, per cui dopo pochi anni di un giocare estetico su materiali di risulta si appare costretti a tornare alla gestione dell'antico, il cui spessore ontologico risulta insostenibile all'arte liquido-aerea e quindi, lo si mette in scena profanandolo in una sorta di “elevazione minima” funzionale” a nuove de-sacralizzazioni decontestualizzanti e spettacolarizzanti. La migliore arte dell'attuale “post-tempo” appare al massimo parodia della dimensione mitogonica, recita archeodecadentistica che sugge parassitariamente le residue energie spirituali da relitti che si celebrano in quanto tali e non quali radici o correnti rivelative.
“Mitogonia” riassume il peso ontologico del tempo e delle sue scelte semantiche in quanto consapevole del fatto che il processo di genesi estetica si rivela sempre un processo apocalittico, epifanico, agonico, e non un mero gioco di maschere e segni che si rimodulano reciprocamente come in un corridoio di specchi. Il fatto artistico non si riduce solo ad un'ermeneutica improvvisata della ricezione, dove l'intellettualizzazione supplisce al deficit costruttivo, ma appare chiamato a rigenerarsi quale ermeneutica del cosmo e della sua “idealità”. L'arte non si pone quale declinazione di un'aspettativa sociale, altrimenti non si distinguerebbe dalla moda, dalle abitudini di consumo. L'arte quale capacità propria dell'artiere, ovvero del pioniere demiurgico di un nuovo assetto del mondo. Tentativo, esplorazione, esperimento, colonia e colonizzazione.
Il corpo non cresce che nell'esercizio di se stesso quale corpo. La pittura quale arte di colorare la statuaria era finalizzata ad un culto, era parte di un culto, di una “coltivazione” animica e territoriale. La partecipazione all'oggetto di arte da parte del non artista non oggettivava l'arte ma assoggettava iniziaticamente l'adepto in una comunità semantica e di destino. Arete. Askesis. Virtus. Mitogonia quale ermeneutica predilige l'anagogia all'allegoria, l'emblema allo stilema, l'immaginario alla solitudine del frammento, l'habitus all'abitudine, l'immersione alla fuga, il cantico alla retorica. Mitogonia è un metodo isomorfico che tende a ricostruire l'unità del corpo che indaga, sia esso un testo o un’immagine o un sistema di relazioni. Per Mitogonia ogni semantica è un arcipelago, una costellazione, e ogni corpo ha la sua semantica. Totale il rifiuto di schemi divisori, quale quello logoro fra significante e significato, di preconcetti identificativi, di automatismi indotti. La ricerca si fa invocazione, l'indagine psicomachia, l'analisi poetica della scelta, epos del discrimine e del limite. Mitogonia rifiuta ogni tendenza alla riduzione, all'indifferenziato, alla dispersione. Il gioco delle polarità non è fine a se stesso ma quasi sempre esprime relazioni dentro un medesimo corpo o insieme di corpi.
L'occhio che guarda attraverso la serratura è parte del mondo, non un altro mondo, come insegnava Heinz Von Forster. Ma nel contempo mitogonia afferma con forza l'esistenza di una rete cosmica di processi e concordanze indipendente e reattiva al processo valutativo. Non ogni res è equivalente ad altro, ma il numero delle letture possibili è sempre un numerus clausus in quanto ogni res è corpo, fisico, mentale o ideale che sia. Mentre l'astratto massificante disincarna il senso fisico del pensiero mitogonia conduce la poiesis demiurgica della proiezione volitiva-noetica. Mentre la re-cita necrotica del sistema di distribuzione sociale vanifica la distinzione, mitogonia esalta le unicità del reale e l'ordine poliedrico delle relazioni. Quando l'ideologia del cliché e del “luogocomunismo” atrofizza le funzioni archetipali barattandole con funzioni umorali e rispondenze animali, mitogonia non distoglie lo sguardo dal fuoco, dall'orizzonte e dalla volta celeste, moltiplicando riti quotidiani, intimi, e valenze appropriative, distintive e comunitarie. Con Alexander Dugin, mitogonia riparte dalla radice del sub-jectum, dalla radice che è il sub-jectum ricostruendo policentricamente l'unità in cui è dato. Con Alexander Dugin, mitogonia tiene aperto combattivamente il varco sorgivo tra l'emersione del pre-moderno e il parassitario gioco delirante del post-tempo, inarcando una tensione mitopoietica, proiettiva, organica, solare. Non c'è soggetto senza radice e non c'è radice senza con-testo, cioè senza una tessitura semantico-esistenziale. Per questo l'egemonia del volatile tende sempre ad erodere ogni senso di contesto, ogni sedimentazione. Ma l'arcano risiede nell'archè, cioè nella radice e mai ne esce, anche quando germina uno sviluppo. Mitogonìa fa rima con autogenìa, con genius loci. Il delirio pneumatico per sua natura evapora. La laetitia plenitudinis per sua natura trabocca, ramifica, irradia.
Non c'è logos senza mitos né mitos senza logos. Per questo il circo tedioso del post-tempo sta perdendo anche la sua capacità di raccontare, di de-lirare, di intrattenere fino alla morte. Per s-viluppare qualcosa occorre una veste, un rotolo, un volume. Quando il movimento è in apertura dall'asse fermo c'è superamento dell'inviluppo, dell'avvolgimento, e, quindi, squadernamento, apocalisse, ex-plicazione. Quando il volume si riavvolge su se stesso il movimento è di im-plicazione, cioè di riassorbimento del tutto nell'unico. Ars Gratia Artis.