Di una foto o del momento in cui tutto sembra scomparire, e dove tutto assume il senso di una catastrofe, lo smarrimento, la disperazione e l’angoscia che avvolge una donna, nel suo posto di lavoro, nella propria identità, in uno spazio minimo, ristretto, riservato, lontano da tutti e dagli altri.
Della cronaca e di un’immagine potente, o di storie quotidiane che pervengono ai nostri occhi dai mezzi di comunicazione - stampa, televisione e social media - che ricoprono un ruolo fondamentale nella conoscenza e nella divulgazione dei fatti e delle vicende, ma anche nella possibilità a determinare e a sensibilizzare quei processi e conflitti - la guerra oppure i drammi sociali e delle popolazioni, ma anche le pandemie e le conseguenze che determinano - dentro i quali le storie sembrano già scritte, ma su cui invece l’informazione e la conoscenza diventano uno strumento fondamentale per intervenire nella risoluzione delle stesse vicende e dei possibili cambiamenti.
Così, se nel primo atto della pandemia la foto virale che aveva commosso, sorpreso e avvilito milioni di persone, e che aveva fatto il giro del mondo in quanto era la rappresentazione del sacrificio, della dedizione e dell’impegno dei sanitari italiani in prima fila di fronte al virus terribile che ha investito il nostro Paese, ed era rappresentata dall’immagine di un’infermiera stremata chinata sulla tastiera del computer, ora, ad oltre un anno di distanza dall’esplosione del virus, tra morti, disagi, difficoltà e zone rosse, la paura, la disperazione si affaccia sotto una nuova veste, in un’altra identità, con altri significati, ancora, sul dramma che attraversa il nostro Paese e un’intera popolazione. E davanti al dolore degli altri, che è anche il nostro, è impossibile non esser scossi e restare impassibili di fronte a tragedie umane e personali che hanno colpito una comunità, e che sono diventate parte integrante della nostra quotidianità.
La foto, ancora una volta, in una nuova e altra narrazione, ci presenta il dolore e la disperazione di una giovane ristoratrice di Ostia immortalata nel proprio bistrot, raccolta in se stessa, forse in un pianto da non dare a vedere, seduta ai bordi della cucina, a testa bassa e a braccia conserte - come a sottolineare il senso di isolamento e smarrimento - sulle ginocchia piegate.
Il Covid-19 miete una mole consistente di drammi spesso nascosti e poco visibili, e sui quali è spesso difficile arrivare, e a volte si arriva anche in ritardo.
E come in precedenti situazioni, è anche questo l’esempio di un silenzio imperfetto, un’estetica di un vuoto, interno/esterno, dentro/fuori, immensamente profondo e presente che tutto avvolge e che rende ogni possibile rumore assente.
Angoscia e smarrimento, perdita e paura, sono alcune delle categorie nelle quali possiamo collocare molte vicende interne alla pandemia e a questa stessa fotografia e, analogamente, anche a chi della propria quotidianità, di un presente e di un futuro ora teme i peggiori risvolti e conseguenze, nutrendo sempre meno speranze che via via si esauriscono.
E questo silenzio imperfetto in un ambiente familiare e domestico, diventa così la rappresentazione del mutamento, la trasformazione di un quotidiano dentro cui risulta difficile riconoscersi e dove invece è assai facile immergersi, mentre la necessità a reagire è l’antidoto alla visibilità della disperazione, e di un futuro a cui credere per ritrovare risorse ed energie, forze e speranze per una nuova ripresa.