Laure le Poittevin, madre premurosa, preoccupata per l’incerta vocazione letteraria del figlio Guy, lo affida nelle mani dell’amico di famiglia Gustave Flaubert. I pettegoli dicono che Gustave sia anche amante di Laure, separata da anni da un marito che la trascurava.
Siamo intorno al 1872. Flaubert cinquantenne ha già ha pubblicato due capolavori assoluti, L’educazione sentimentale e Madame Bovary. Nell’Educazione sentimentale aveva già chiarito il fine della propria scrittura, “occorre far parlare le cose… far sì che dicano la loro realtà… far sì che dicano la loro verità”. Ciò che fa orrore a Flaubert è la bêtise, che possiamo tradurre con ‘cretineria’, ma che per Flaubert è qualcosa di più: è il non-pensiero dei luoghi comuni, che ottunde la coscienza: è la superficialità che fa scomparire le cose, perché il luogo comune avvolge il mondo nella nebbia di ciò che è dato per scontato.
Flaubert si trova davanti un giovane e geniale scavezzacollo di ventun anni, che già ha tentato molte strade, senza mai risolversi in alcuna. Impartisce all’allievo una lezione fondamentale:
In tutto c’è qualcosa che resta insondato, perché siamo caduti nell’abitudine di ricordare, ogni volta che usiamo i nostri occhi, quello che gli altri prima di noi hanno pensato su ciò che stiamo osservando. Anche l’oggetto più insignificante ha un che di sconosciuto. Tocca a noi scoprirlo. Per descrivere un fuoco ardente o un albero in una pianura, dobbiamo rimanere dinanzi a quel fuoco o a quell’albero finché per noi essi non assomiglino a nessun altro fuoco o albero.1
Qualche anno più tardi, in una lettera del 1878, in risposta all’allievo in crisi, che si lamenta di trovare monotoni persino “i culi delle donne”, l’energico Flaubert reitera la lezione:
È un lamento realista, e d’altronde che ne sapete? Si tratta di guardarli più da vicino. Avete mai creduto all’esistenza delle cose? E che tutto non è un’illusione? C’è verità soltanto nei “rapporti”, e cioè nel modo in cui noi percepiamo gli oggetti.
Guy apprende la lezione. Impara a guardare le cose da vicino “finché non assomiglino a nessun’altra” e a cercare la realtà solo “nei rapporti” che mettono in relazione chi osserva con ciò che è osservato. Diventerà un gigante della letteratura francese, Guy de Maupassant. Nel 1885 pubblicherà Bel Ami, la storia di uno giovane arrampicatore sociale, un libro che ebbe trentasette ristampe in quattro mesi.
Facciamo un salto di circa cinquant’anni. Nel 1938 Jean-Paul Sartre pubblica La nausea. Il protagonista è Antonio Roquentin, scrittore in crisi, che perde a poco a poco i punti di riferimenti del proprio passato e sprofonda nell’assurdità di un presente senza senso. Ad un certo punto afferma:
Ho gettato attorno uno sguardo ansioso: presente, niente altro che presente. … La vera natura del presente si svelava: era ciò che esiste e tutto quel che non avevo presente, non esisteva.
Il momento culminante del libro è quando Antonio Roquentin, vagando in un giardino pubblico, si trova davanti a un albero di castagno. Scopre con orrore che l’esperienza più banale è un flusso di sensazioni nauseabonde, una poltiglia senza forma:
Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. […] L’esistenza si era improvvisamente svelata […]. La diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità.
Facciamo il punto. Da una parte c’è Flaubert che esorta Guy de Maupassant a guardare un albero non facendosi accecare da ciò che già conosce. Dall’altra, c’è Antonio Roquentin che non riesce più afferrare il senso della radice di un castagno perché, dice, “non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse”. Da una parte troppe parole e troppi ricordi che inibiscono la conoscenza. Dall’altro nessun ricordo e nessuna parola. Flaubert afferma che la ricchezza del mondo scompare se il mondo è osservato con superficialità, che le cose date per scontate sono presenze grigie e mute. Sartre dice che, se non mettiamo in relazione le cose del presente con le esperienze passate (e, aggiungerà altrove, con i progetti futuri), le cose perdono la propria identità e si mescolano in un ammasso senza senso. È chiaro che la soluzione sta da qualche parte tra i due estremi. Ma dove? E come trovarla?
Possiamo riassumere il problema con le parole di Husserl:
Dobbiamo rivolgere il nostro sguardo lucido su di esse e catturarle esattamente come appaiono, piuttosto che come noi pensiamo che dovrebbero essere.
Cosa facile a dirsi, ma qual è il modo giusto? Come si catturano le cose “esattamente come appaiono”? Se rimuovo ogni presunzione, idea acquisita e preconcetto, mi svuoto. Alla fine, non rimane niente. Dove fermarmi?
Ho imparato che, quando non c’è risposta a una domanda, molto probabilmente la domanda va formulata in modo diverso. Per cui conviene concentrarsi sulla domanda e chiedersi: a me, alla fin fine, mi interessa davvero sapere cosa sia la realtà? O posso tranquillamente lasciare questo interrogativo ai filosofi che si interrogano sullo ‘statuto ontologico’ del mondo?
Se fossi un’ameba, mia lontana parente nell’intricato albero dell’evoluzione, me ne fregherei della realtà ‘in sé’ perché sarei interessato a una sola cosa: ad allungare i miei pseudopodi per recuperare i nutrienti necessari a sopravvivere. Non altro. L’utilitaristico comportamento dell’ameba mi fornisce una indicazione preziosa. Come l’ameba, mi posso disinteressare della ‘realtà in sé’, che comunque è sempre inaccessibile, dato il filtro dei sensi e dei preconcetti. Ciò che mi interessa è la “realtà per me”. Quando osservo, quando discuto, insomma quando agisco, come l’ameba allungo i miei pseudopodi cognitivi (le mie curiosità e i miei desideri) nell’ambiente che mi circonda, alla ricerca di quei segnali che possono indicarmi dove trovare i nutrienti. E, dato che non sono un’ameba, i nutrienti di cui andare in cerca non solo sono materiali, ma anche intellettuali, emozionali e sociali, tutti essenziali al mantenimento della mia identità. Alla fin fine, mi interessano le cose così come esse si presentano alla mia ricerca avida di nutrienti.
Dunque, ecco come mi spiego la lezione di Flaubert: caro Guy, per vedere il mondo e godere della sua ricchezza, devi chiederti: quali sono i nutrienti che mi servono per mantenere la mia identità? Per trovare la risposta, devi rivolgere l’azione verso di te. Devi espandere la tua identità. Perché, caro Guy, se il ‘me’ che devi nutrire è piccolo, allora si restringe anche il mondo che riesci a osservare e con cui riesci a interagire. Per espandere la tua identità devi mettere in gioco la tua biografia. Attento. Non guardare ad essa come ad una strada che hai percorso da solo, piuttosto guardala come ad una intricata rete di incontri e di storie. Più pezzi di mondo metti dentro la rete della tua identità, più il ‘me’ si trasforma in ‘noi’, e alla fine troverai, se ti impegni a sufficienza, che anche l’albero, come ogni esperienza, per quanto minuta, è parte della tua biografia.
Insomma, caro Guy, puoi scoprire quel che di sconosciuto c’è nell’albero solo se riesci a scoprire che nell’albero c’è una particella della tua identità.
1 Ho trovato l’esortazione di Flaubert nel libro di Sarah Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti pubblicato nel 2016. Quando ho appreso che l’autrice aveva letto La nausea di Sarte a sedici anni e che le aveva cambiato la vita, ho divorato il libro in un furioso corpo a corpo durato un mese. Anch’io avevo letto La nausea a quindici anni e anche a me aveva cambiato la vita.