Per la scuola è stato un anno complicato. Probabilmente è esagerato dire che la scuola ha pagato gli effetti della pandemia più di altri settori della vita sociale ed economica; ma il solo dato fornito dalle Nazioni Unite a marzo 2020 – quando oltre il 90% degli studenti di tutto il mondo aveva subito l’interruzione delle lezioni in presenza – mostra i contorni di una situazione che non ha precedenti nella storia recente.
Certo non sono mancati, nel secondo dopoguerra, momenti difficili: durante i conflitti, a causa di catastrofi naturali o di emergenze umanitarie la scuola è stata interrotta, talora anche per periodi molto lunghi, privando di fatto bambini, bambine, ragazze e ragazzi del diritto fondamentale all’istruzione. E, nonostante gli enormi sforzi messi in campo dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle Ong per garantire un’istruzione di base di qualità per tutti i minori, la permanenza di fragilità socioeconomiche, l’instabilità politica, la mancanza di democrazia, la violenza, i pregiudizi culturali hanno spesso reso difficile quando non impossibile l’accesso alla scuola.
Ma l’elemento di novità è costituito ora dalle dimensioni planetarie della pandemia, che ha profondamente cambiato la vita della scuola per più di un anno.
In questo contesto gli esiti dell’indagine effettuata nei mesi scorsi da Ipsos per Save The Children su un campione di studentesse e studenti italiani dai 14 ai 18 anni ci restituiscono non pochi elementi di riflessione sulla situazione della scuola al tempo del Coronavirus.
Il dato della ricerca che maggiormente è stato ripreso dagli organi di informazione è quello relativo al rischio di dispersione scolastica: il 28% degli intervistati ha dichiarato che almeno un compagno di classe ha smesso con la didattica a distanza (Dad) di frequentare le lezioni, e il 7% ha dichiarato che i compagni che sono di fatto rimasti esclusi dalla Dad sono almeno tre. Le cause di tale “isolamento” rispetto al resto del gruppo classe sono molteplici, e vi concorrono sia aspetti tecnici (dall’inadeguatezza della rete alla mancanza di strumenti o di spazi adeguati e tranquilli in casa) sia difficoltà derivanti da una didattica che non è riuscita a trasformarsi, limitandosi talvolta a riproporre il modello frontale anche a distanza. Tale sensazione di fragilità è confermata dal fatto che il 35% degli intervistati si sente complessivamente meno preparato e quattro su dieci affermano che il lungo periodo di distanza dalla scuola ha inciso negativamente sulla qualità dello studio personale.
Le difficoltà sul piano didattico si intrecciano con una serie di sentimenti diffusi che hanno accompagnato l’esistenza di ragazze e ragazzi in questi mesi: “Gli adolescenti – scrive Save The Children – dicono di sentirsi stanchi (31%), incerti (17%), preoccupati (17%), irritabili (16%), ansiosi (15%), disorientati (14%), nervosi (14%), apatici (13%), scoraggiati (13%), in un caleidoscopio di sensazioni negative di cui parlano prevalentemente con la famiglia (59%) e gli amici (38%), ma che per più di 1 su 5 rimangono un pesante fardello da tenersi dentro, senza condividerlo con nessuno (22%)”.
Potremmo dire dunque che la pandemia ha inciso almeno a tre livelli.
Prima di tutto sulla qualità della didattica – che si è fatta più difficile da seguire, meno efficace, con una maggiore difficoltà a socializzare gli apprendimenti –, anche se una parte consistente degli studenti sostiene che non ci sono stati cambiamenti significativi nella preparazione (dal 41% del centro Italia al 48 del Nord-Est) e uno su cinque (dal 17% del Nord-Est al 23% del centro) considera che l’apprendimento sia stato addirittura migliore rispetto agli anni precedenti, nonostante le difficoltà.
In secondo luogo, la pandemia ha accentuato la disparità sociale fra coloro che hanno goduto di accessi adeguati sul piano tecnologico, di spazi adatti all’apprendimento e di sostegni in famiglia, e coloro ai quali tutto questo è mancato. Il rischio è che tale disparità, spesso quasi invisibile, conduca a una divaricazione dei percorsi di crescita e quindi accentui ulteriormente quella “predestinazione formativa” che blocca di fatto l’ascensore sociale per i minori provenienti da famiglie più deboli sul piano economico, sociale e culturale. L’aumento della dispersione scolastica è solo l’aspetto più vistoso di un fenomeno che rischia di aumentare in un arco di tempo molto breve la stratificazione sociale.
In terza battuta, la pandemia ha interrotto quei processi di socializzazione concreta che sono fondamentali per prendere contatto con la realtà, diventare adulti, misurarsi con ambienti esterni alla cerchia familiare. Anche se durante il lockdown ragazze e ragazzi hanno riscoperto il valore delle relazioni familiari e hanno imparato a mantenere e coltivare relazioni a distanza, come era prevedibile l’85% afferma di essere più consapevole dell’importanza dello “stare accanto” e della corporeità nei rapporti con gli altri.
In tutto questo ragazze e ragazzi hanno dato prova di aver compreso e accettato le ragioni delle restrizioni. Ma hanno anche manifestato il loro disappunto per essere stati “esclusi dalle scelte per il contrasto alla diffusione del Covid”. Nello specifico, “il 65% è convinto che sta pagando in prima persona per l’incapacità degli adulti di gestire la pandemia, il 43% si sente accusato dagli adulti di essere tra i principali diffusori del contagio, mentre il 42% ritiene ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro, mentre ai giovani non è permesso di andare a scuola”. Questo senso di esclusione porta con sé il rischio di accentuare, per la prima volta dopo molti anni, lo scontro generazionale, ma soprattutto blocca quei processi di partecipazione attiva alla vita della comunità e quell’assunzione di responsabilità che sono essenziali per uscire dalle situazioni di crisi.
Tuttavia sarebbe miope ridurre questo tempo unicamente alle sue ombre, tralasciando di vedere che:
In ogni cosa c’è una crepa, è da lì che passa la luce.
(L. Cohen).
Anzitutto, il tempo “sospeso” della Dad ha permesso ai ragazzi di comprendere quanto in realtà le distanze possano essere efficacemente superate attraverso l’utilizzazione delle nuove tecnologie, creando reti di collaborazione inedite nel campo dell’istruzione, della formazione, del lavoro, della ricerca, della cooperazione internazionale. Questo cambiamento di orizzonte, valorizzando la possibilità di risolvere le grandi sfide lavorando assieme e mettendo in comune competenze e professionalità “fra distanti” avrà probabilmente profonde conseguenze anche sul piano della cultura politica, mettendo in discussione di fatto le premesse delle tentazioni sovraniste. Ciò che ne deriva è un’accresciuta sensibilità alle questioni di carattere globale e la consapevolezza che la planetarizzazione dei problemi richiede un allargamento dei confini della responsabilità. Mentre nel mondo adulto si assiste spesso all’insofferenza degli eterni scontenti, che attendono semplicemente che il mondo ritorni ad essere esattamente quello di prima, fra i miei studenti e le mie studentesse ritrovo la consapevolezza che la globalizzazione della pandemia richiede che affrontiamo in modo diverso la questione ambientale, le relazioni internazionali, la distribuzione della ricchezza, la gestione delle disuguaglianze, il problema dei conflitti.
Accanto a ciò il tempo della Dad ha offerto inaspettate opportunità di incontro, seppure a distanza. Sono molti gli insegnanti che hanno messo in luce in questi mesi come il vivere in una condizione di fatica e di isolamento abbia fatto crescere la disponibilità di ragazzi e ragazze a confrontarsi con il mondo adulto sulle questioni più importanti della vita. In tanti dopo le lezioni, dopo gli incontri, ci siamo sentiti chiedere: posso fermarmi? Possiamo parlare? E quei dialoghi non hanno solo aperto squarci sulla condizione giovanile, ma sono diventati soprattutto un’occasione privilegiata per confrontarsi sul futuro personale e su quello collettivo.
Per questo mi sembra molto riduttivo limitarsi alla fotografia delle difficoltà della scuola, che pure non vanno nascoste o negate. In questo passaggio fra due epoche non c’è solo la questione dei banchi, delle aule o delle mascherine per garantire la scuola in presenza. La trasformazione che i ragazzi e le ragazze stanno vivendo è più profonda e investe prima di tutto la loro interiorità, il senso delle relazioni, la loro concezione del mondo, il loro progetto di vita. Soprattutto mi sembra una trasformazione che li ha resi consapevoli dell’importanza di una solidarietà planetaria contro l’iniquità, perché, mi diceva uno studente qualche settimana fa, è inaccettabile che stiamo attraversando la stessa tempesta su imbarcazioni tanto diverse: chi su una scialuppa e chi su un transatlantico.
Per questo penso che dovremmo essere più cauti nei giudizi. Che per la scuola sia un tempo difficile e che siano stati sottovalutati gli effetti della chiusura è sotto gli occhi di tutti. E in proposito va detto che è mancato un dibattito pubblico e politico sulle ricadute nel medio e lungo periodo. Ma è anche un tempo pieno di opportunità. Tutto dipende da dove vogliamo far cadere il nostro sguardo: se sul mondo che abbiamo alle spalle – immaginando magari che tutto tornerà come prima – o se su quello che abbiamo davanti, al quale le ragazze e i ragazzi si stanno preparando.