Le persone pigre amano letti e divani da dove osservano lo scorrere del tempo e la stasi della loro lenta esistenza. Non hanno voglia, sperano di essere lasciate in pace, i desideri non si accendono o se lo fanno si spengono nelle loro menti prima di trasformarsi in progetto e in azione.
Paresseux è il pigro francese, discendente di quella pigrĭtĭa latina che infiacchiva, al tempo dei romani antichi, senatori, matrone, soldati o schiavi.
Lazy è invece il pigro britannico: in inglese si usa questo termine per indicare una persona avversa al lavoro e in generale a qualunque sforzo. La sua origine si collega a parole tedesche che significano ‘debole’, ‘flebile’, ‘stanco’ e forse a una radice antica indoeuropea che ritroviamo nell’inglese slack, ‘allentato’.
Le persone pigre, dunque, sono contrarie alla velocità, allentano la presa e rallentano, il pedale del freno è da loro preferito a quello dell’acceleratore. I quadri di Umberto Boccioni, Giacomo Balla o Gino Severini li indispongono: a quelle tele futuriste e portatrici di velocità privilegiano la quiete del dolce far niente. L’arte stessa, lo vedremo, non si addice a chi predilige l’inerzia.
Le stanche pieghe delle vesti russe
Per comprendere la pigrizia, vale la pena di leggerlo (o di rileggerlo per quanti in passato avessero già provveduto): Oblomov, il romanzo di Ivan Gončarov che a metà del 1800 ha rappresentato la Russia pencolante tra la borghesia dei centri abitati e l’arretratezza delle campagne dove ancora i servi della gleba erano la norma. Ilja Ilič Oblomov è il pigro protagonista del libro, abbandonato a se stesso, rassegnato alle bizze della sorte, rifugiato nel dolce far niente, incapace di scatti, di guizzi, di entusiasmi. Il suo amico di sempre Andréj Ivanovič Stolz, uno dei personaggi del romanzo, conia per lui il termine oblomovismo, che sta a indicare un atteggiamento di apatica e fatalistica indolenza.
“Un velo di indifferenza si spandeva allora su quella faccia estendendosi a ciascuna movenza del corpo e finanche alle pieghe della veste da camera. Una espressione di stanchezza e di tedio ombrava talora il suo sguardo”, così nelle descrizioni del primo capitolo. I grandi scrittori sanno far parlare dei personaggi anche le pieghe delle vesti. È così anche nella nostra vita, laddove le rughe e i sorrisi dei contesti in cui abitiamo raccontano di noi più delle nostre parole.
“Per Ilja Ilič lo star sdraiato nel letto o su un divano non costituiva una necessità come per un malato o per chi dorma, non un caso eccezionale come per chi risenta grave stanchezza né piacere come per un pigro. Era la sua posizione e il suo atteggiamento naturale”, continua il romanzo. Affiora dunque il fulcro del tema: l’indolenza è un fatto di posizioni e di atteggiamenti.
Tre ore di lavoro al giorno
Sempre all’Ottocento risale un altro brevissimo volume che ci introduce al tema della pigrizia: Il diritto alla pigrizia. È un pamphlet, un saggio breve che si legge in fretta, scritto a Parigi da Paul Lafargue, intellettuale rivoluzionario, esponente dell’internazionale socialista, marito della figlia di Karl Marx, Laura. Le droit à la paresse rappresenta la pigrizia – o l’ozio – come occasione di riscatto sociale. L’autore guarda con sospetto la “passione furibonda per il lavoro”, interpretata come una “strana follia” (étrange folie), causa di degenerazione, tipica della retorica capitalistica, e contrappone a questa un diritto, il diritto a incrociare le braccia. La pigrizia diventa strumento di rinascita per il proletariato.
Anche questo volume, così come Oblomov, va letto o riletto. È stato scritto nel 1883 e si percepisce con forza l’enorme distanza tra il 2021 e quel periodo storico. La parola workaholism, ‘mania del lavoro’, non esisteva ancora. Nonostante siano trascorsi quasi 140 anni da allora, Lafargue pone comunque domande urticanti: quanto siamo artefici delle nostre energie e quanto ne siamo vittime? Quanto il pensiero unico – a cui non solo aderiamo ma che contribuiamo a creare ogni giorno – rischia di non farci cogliere i colori e le varietà dell’esistenza? Quanto la religione del lavoro scelto e non forzato agita i suoi totem nelle nostre menti?
La proposta di Lafargue – era il 1883 – consisteva nel lavorare tre ore al giorno e per questo impetrava la pigrizia come salvatrice dell’umanità.
“O Paresse, abbi pietà della nostra lunga miseria. O Paresse, madre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane”, invocava ispirato il genero di Marx.
Una maratona senza fine
Come tutti gli uomini di cultura medievali, anche Durante Alighieri, detto Dante, aveva le idee chiare sulla pigrizia. Nella montagna purgatoriale, dove tutte le anime dimorano come fossero lavoratori interinali, la quarta cornice è riservata agli accidiosi, dopo quella degli iracondi e prima di quella degli avari e dei prodighi. Il sole è già tramontato, l’ambiente si fa buio.
Le anime sono costrette a correre incessantemente lungo la cornice, gridando esempi di virtù contraria all’accidia (sollecitudine) e esempi di accidia punita. Come in vita le persone accidiose erano sempre stanche, nel Purgatorio devono correre senza potersi mai fermare. Corrono, come fossero cavalli al galoppo. Non hanno tregua: è il contrappasso per loro. Sono in perpetuo movimento fintantoché non hanno scontato i loro peccati. L’amore troppo debole e fiacco (che pecca per manco di vigore) è appunto punito nella quarta cornice e assume il nome di accidia.
Come curarci dall’accidia
Accidia, dunque, termine oggi desueto per definire la pigrizia. Desueto, cioè poco usato, eppure così carico di suggestioni. La sua origine è greca. Akedìa, al tempo di Pericle, significava appunto ‘noncuranza’, ‘indifferenza’, ‘indolenza’. Akedès si definiva una persona ‘trascurata’, ‘abbandonata’, ‘negletta’. Omero ha addirittura utilizzato questo termine per ‘insepolta’.
L’a-kedìa, con la lettera alfa iniziale che indica una privazione, era costruita come il latino in-cūrĭa, cioè ‘incuria’, mancanza di cura.
Kèdos in greco antico era ‘cura’, ‘sollecitudine’, ‘pensiero’. Kèdos aveva anche il significato di cordoglio, di lutto, di esequie, a testimonianza di quanto siano profondi i pensieri degli umani per le persone care che non ci sono più. Ecco, essere accidiosi vuol dire aver perso questa carica di umanità.
L’accidia è proprio la mancanza di cura, la cura di sé, la cura degli altri, la cura delle persone che si curano di noi e la cura delle persone che di noi non si curano, la cura per lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato.
Diceva il filosofo Seneca: “Lasciamo ai pigri e ai vili le vie piane e sicure: le persone valorose salgono alle vette”.
Senza arte né parte
L’inattività dei pigri si può chiamare anche inerzia. Parola che racchiude in sé, inaspettatamente, la negazione dell’arte. Ebbene sì, la parola inerte ha una mamma latina, l’aggettivo iners, inertis, che appunto significava ‘inabile’, ‘incapace’, ‘inoperoso’. Raschiando un po’ sulla superficie della parola impolverata dai secoli d’uso, scopriamo che quell’aggettivo è derivato da ars, artis, ‘arte’, a cui è anteposto il prefisso negativo in-.
L’arte latina – come l’omologa tékhnē greca – non indicava propriamente l’arte bensì la capacità umana di produrre qualcosa, la padronanza di un mestiere, l’abilità ottenuta con l’esercizio e lo studio opposta alla capacità naturale: l’arte era caratteristica dell’artigiano più che dell’artista.
Eppure, possiamo lasciarci accompagnare per mano dai giochi di parole, immaginando che chi resta avvolto nel proprio torpore non abbia nemmeno lo slancio per gustare i colori di un affresco di Tiepolo, per lasciarsi ammolcire da una pavana, per sobbalzare di fronte a un’opera di Lorenzo Quinn.
Quello statico torpore
In fisica l’inerzia è la tendenza di un corpo a mantenere inalterato il proprio stato. Che sia fermo o che sia in movimento, un corpo conserva il proprio stato finché non interviene una forza esterna a modificarlo. Ecco la conservazione di uno stato di stasi portata all’estremo la possiamo chiamare torpore.
Torpore è uno dei sinonimi di pigrizia e rappresenta in primo luogo un momentaneo rallentamento delle attività di un organismo. Torpēre in latino significava ‘restare immobilizzato’. La fissità dei pigri, l’immobilità degli accidiosi, la staticità degli inerti è dunque torpore.
Proprio quel torpore lo generano le torpedini, che non a caso si chiamano così: quei pesci di forma piatta che si trovano negli mari tropicali sono dotati sui loro dorsi di organi con i quali possono dare una scarica elettrica a chi li tocchi. L’effetto di quelle scosse è un intorpidimento del corpo.
Neghittoso e infingardo, due aggettivi non comuni
Saltiamo di parola in parola, di associazione in associazione. Così è il gioco linguistico, un ghirigoro tra i sinonimi e le suggestioni che questi ci regalano senza chiedere nulla in cambio. Alcuni lemmi sono più comuni, altri compaiono meno di frequente nelle scelte dei parlanti e di quanti scrivono. Varietà, molteplicità, assortimento sono elementi che consentono profondità ai discorsi e anche al pensiero: chi possiede meno parole fatica a comprendere la complessità in cui è immerso.
Per questo pigrizia può essere neghittosità e infingardaggine. È l’una e l’altra ma non è né l’una né l’altra, perché le sfumature contano, eccome se contano: di nuances si vive e si muore.
Infingardo. Il significato arcaico di questa parola era bugiardo, mentitore, simulatore. È facile trovare nell’infingardo la stessa radice delle parole infingimento e fingere. Nel corso della storia, però, la parola infingardo ha assunto un altro significato e ora sta a designare una persona che, per cattiva volontà, fugge ogni fatica ed è lenta e pigra. Un infingardo è dunque un fannullone: non finge più, ora davvero.
Neghittoso. L’aggettivo indica chi è negligente nei propri doveri e per questo ozioso, inoperoso e quindi pigro. È evidente la parentela linguistica tra neghittoso e negletto, che vuol dire trascurato, non preso in considerazione. Entrambi questi aggettivi derivano dal verbo latino neglĭgĕre o neglĕgĕre che significava appunto ‘trascurare’. Per non avere un linguaggio trascurato e trasandato, può quindi essere utile utilizzare anche la parola neghittoso. Come aveva fatto il poeta Giacomo Leopardi, in una lirica del ciclo di Aspasia, scritta a Napoli per la donna un tempo amata, Fanny Targioni Tozzetti.
[…] Che se d’affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È la notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l’erba
Qui neghittoso immobile giacendo
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.(Versi 106-112)
Usare l’aggettivo è un modo per non essere linguisticamente pigri.
Usare l’aggettivo neghittoso ci consente di restare immobili (ma non intorpiditi), ad osservare il mare, la terra e il cielo. Ci permette di restare su quella stessa erba poetica, immobili (ma non accidiosi né inerti), ad osservarli. E sorridere.