Matteo Bandello nasce a Castelnuovo Scrivia nel 1484; molto scarse le notizie sulla madre e sul padre Gian Francesco, mentre più abbondanti sono le notizie su altri membri del suo parentado: come il frate domenicano Beato Stefano Bandello (Castelnuovo 1396 - Saluzzo 1450), eccellente predicatore e professore di diritto canonico a Pavia e, soprattutto, lo zio Vincenzo Bandello (Castelnuovo 1435 - Altomonte 1506), personalità di grande valore dell’Ordine domenicano, che diventa priore del Convento delle Grazie di Milano nel 1495 (esercitando anche il ruolo di committente del Cenacolo di Leonardo da Vinci, affrescato nel suo Convento tra il 1495-1497), fino a diventare Superiore generale dell’Ordine nel 1501, risultando essere il suo generalato uno di quelli più attivi e significativi (morendo poi, cinque anni dopo, proprio durante un impegnativo viaggio per visitare i Conventi dell’Italia meridionale).
Tornando al nostro Matteo, seguendo le orme dello zio entra nel 1495 nel Convento milanese di S. Maria delle Grazie, coltivando gli studi umanistici e teologici, prendendo poi i voti nel 1500. Dopo la morte dello zio, viaggiò molto e visse intrecciando intensi rapporti diplomatici con importanti corti e personalità dell’epoca: dagli Sforza a Milano, ai Gonzaga a Mantova, da Cesare Fregoso a Venezia alla vedova di questi, Costanza Rangone, a Bazens in Francia, nel castello donatole da Francesco I. Qui diventerà anche Vescovo di Agen nel 1550, con la Bolla di Giulio III, al posto di Ettore Fregoso, ancora minorenne (finché, per la morte di Ettore, diventa vescovo il fratello Giano nel 1555). Si dedica in questo periodo allo studio ed alla raccolta delle sue Novelle (perfezionando così l’antico consiglio di Ippolita Sforza di scrivere e raccogliere le sue storie); nel 1554 pubblica a Lucca la Prima, seconda e terza parte delle Novelle (mentre nel 1573 esce postuma la quarta parte, con 28 novelle, a Lione). Lo scrittore muore a Bazens nel 1561, e viene probabilmente sepolto nel Convento domenicano di Port-Sainte-Marie vicino ad Agen.
Bandello, nelle sue Novelle, racconta la vita del primo Cinquecento mettendo in campo non soltanto la sua grandissima abilità letteraria, ma anche il privilegio della sua particolare capacità di osservazione: come domenicano, umanista, diplomatico, viaggiatore e cortigiano. Sul primo aspetto il nostro autore dispiega - con la sua multiforme sensibilità e insaziabile curiosità - una originale maestria e gusto nel raccontare i fatti “attraenti e singolari” della vita quotidiana, casi mirabili dunque ma anche perfettamente verosimili. Del resto “il diverso dosaggio tra verità e finzione, tra verosimile e mirabile, distingue il racconto novellistico dal romanzo cavalleresco, mentre traccia al contempo i contorni di un nuovo modo di narrare”, le cui finalità pedagogiche e morali “si ottengono solo grazie a una verosimile rappresentazione del mondo” (v. Elisabetta Menetti, Enormi e disoneste: le Novelle di Matteo Bandello, Carocci 2005, pag. 105). Ecco perché concordo pienamente con il giudizio dello scrittore Pier Angelo Soldini, quando afferma (nel suo terzo diario Il giardino di Montaigne, uscito postumo nel 1975) che Bandello è “il più forte narratore del Cinquecento, messo in quarantena per alcuni secoli, e rimasto ancor oggi impopolare, perché il suo linguaggio, così schietto e asciutto, così immediato, non puzzava di sdolcinature fiorentine”. E proprio questa chiarezza, efficacia e vivacità del linguaggio bandelliano contribuisce a rendere piacevoli ma anche istruttivi i suoi racconti. Il fine artistico viene così raggiunto nel recare piacere al lettore, presentandogli questa varietà di casi umani, per suscitare in lui l’avvertimento di lasciare le sconce cose, e “attender a vivere onestamente”.
Passando, poi, al secondo aspetto (cioè al contenuto vero e proprio dell’opera), in questo ricco campionario di esempi, vicende, caratteri e uomini, Bandello si mostra fedele “all’uomo terenziano” (seguendo il detto di Terenzio per cui “nulla di umano reputava alieno da sé”), indagando – con la magnanimità e attenzione del confessore – le più svariate passioni umane, anche quelle più oscure o licenziose. Sua però l’avvertenza – nella dedica alla Novella 11 della seconda parte – che pur contenendo le sue storie “enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono”, non può essere biasimato, giacché si devono biasimare “coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive” (v. E. Menetti, op. cit., pag. 16). Perciò, il ricordo di certi avvenimenti ha la funzione di promuovere, pur nella piacevolezza del racconto, un percorso interiore del lettore. E proprio questa finalità, non tanto moralistica (del predicatore), ma riflessiva e formativa-informativa (del filosofo-narratore), è facilmente rintracciabile nel “dittico narrativo” costituito dalle lettere dedicatorie, anteposte a ciascuna delle 214 novelle (di cui 59 nella prima parte; 59 nella seconda; 68 nella terza e 28 nella quarta).
Tra l’altro i testi di queste lettere (fatto piuttosto singolare nel genere novellistico), contengono anche una miniera preziosa di informazioni su vicende e personaggi del Rinascimento, che dilatano il valore dell’opera senza appesantirla (celebre, ad esempio, la descrizione di Bandello – nella lettera apposta alla Novella 58 della prima parte – del modo di dipingere di Leonardo da Vinci, durante l’esecuzione del Cenacolo nel refettorio delle Grazie).
Tuttavia, non dobbiamo pensare all’opera di Bandello come ad una mera ricostruzione, reale e fantastica, civile e morale, storica e artistica, della vita rinascimentale; in quanto la sua profonda indagine, la sua acuta osservazione, il suo appassionato gusto nel raccontare ci parlano delle passioni, delle gioie e dei dolori di sempre, che accompagnano nei secoli la vita degli uomini. Per questo, forse, il grande segreto dell’opera bandelliana è quello di riuscire ad illustrare la quotidiana vita degli uomini, “la vita che si suol chiamare privata, e che di fronte alla storia ufficiale può esser paragonata al nudo nelle arti figurative” (così Francesco Flora, in Tutte le opere di Matteo Bandello, Mondadori 1966, pag. XI). E nella bellezza e forza di questo “nudo” – reso magnificamente dal suo stile tagliente e vigoroso - ciascun lettore può ritrovare un’utile, comoda e dilettevole occasione di riflessione sul nostro mondo, che talvolta ci appare come “una piacevol gabbia piena d’infiniti di varia specie pazzi”, e assai spesso molti di coloro che si credono esser i più saggi sono i più pazzi “e fanno le più solenni e maggior pazzie e i più bei stracolli del mondo” (Novella 34, prima parte).