Quando qualcuno degli uomini che abitano la terra
compie sacrifici secondo le leggi e implora grazia,
invoca Ecate e grande favore ottiene;
facilmente, benevola, la dea accoglie le preghiere,
e la ricchezza concede.
Unica fra tutti gli olimpi, la dea Ecate aveva potere sui tre regni: la terra, il mare fecondo, il cielo stellato. Solo a lei Zeus aveva concesso privilegi e poteri tanto vasti. È potente ma benevola, può conferire ai mortali quella che i greci chiamavano òlbos: la prosperità, la felicità! Può decidere di accordare oppure negare ciò che essi desiderano, eppure a nessuna dea la storia ha inflitto un esilio tanto crudele: dei tre regni, l’ha incatenata a quello infero, chiamandolo infernale.
L’immaginario legato a Ecate riporta a una dimensione archetipica tanto antica da perdersi nei meandri della memoria. Si spostava in volo e, come ricorda Euripide, dormiva “nei recessi dei focolari”: era dunque una custode del fuoco, e come ogni antenata solstiziale era una donatrice. Ma anche lei chiedeva in cambio doni ai mortali. Presso gli incroci di tre strade, luoghi a lei sacri, nelle notti di novilunio le venivano offerti i deipna, ovvero dei pasti: pani, focacce e torte. Oppure, ai piedi dei suoi simulacri venivano semplicemente scaricati i resti della cena. Ma come! Si offriva a una dea così potente la spazzatura del proprio cibo? Eppure, lei sembrava gradirli, quegli avanzi. Anzi, si diceva che li restituisse poi agli uomini sotto forma di sogni notturni, che venivano definiti gli scarti della sua cena. Penso allora a Hillman, quando suggeriva che i sogni sono i prodotti residui delle nostre impressioni psicologiche. Il linguaggio del mito ha semplicemente narrato e ritualizzato questa antica consapevolezza? Gli incubi e i deliri notturni, a cui questa dea presiedeva, erano chiamati “gli assalti di Ecate”; si tratta in fondo di un’altra declinazione del suo ruolo di guida degli spiriti e dei fantasmi.
Lei stessa, che inviava visioni, si manifestava attraverso epifanie mostruose. Era la “fanciulla dalle molte forme”, che a volte assumeva l’aspetto di una Gorgone dalla capigliatura serpentina, altre appariva sotto sembianze deformi e cangianti. Era detta taurodràkaina quando mescolava i tratti del toro e del serpente, ma poteva mostrarsi anche come lupa, giovenca o leonessa, arrivando a combinare nelle linee del volto i quattro animali a lei sacri, in un mutevole alternarsi: il toro, il serpente, la cavalla, la cagna. È il fenomeno del teriomorfismo, fortemente legato alla dimensione dei sogni, che sono cangianti e prodigiosi.
Ogni luogo di confine era il regno di Ecate: i trivi, le porte, gli ingressi, le soglie. Sono gli spazi dell’incontro con l’alterità, dove siamo chiamati a compiere una scelta che può cambiare il nostro destino. È in prossimità di un trivio che Edipo si trovò a risolvere l’enigma della Sfinge. Ma ciò che più colpisce, di queste antiche liturgie, è l’offerta del cibo, che ancora oggi sopravvive in molte tradizioni legate alle figure del solstizio. Basti pensare all’abitudine di mettere fuori dall’uscio, nella notte del 12 dicembre, un piatto di minestra per santa Lucia e del fieno per rifocillare l’asinello che la accompagna nella consegna dei doni, oppure di lasciare sulla tavola un po’ di frutta e del vino per la Befana. Dobbiamo nutrire l’invisibile, se vogliamo che i suoi messaggeri magici si manifestino: ci chiedono solo di deporre i nostri deipna, di alimentare il sogno, non lasciare morire di fame l’immaginazione, i desideri.
Anche la dimensione della fiaba popolare concorre all’opera di salvataggio e di ritessitura di questi antichi rituali. In quanti racconti l’eroina, accolta in casa da una strega o da una fata, deve occuparsi dei suoi pasti e tenere in ordine la sua casa? Lo fa Vassilissa nella fiaba russa di Baba Jaga, lo fa la piccola Gretel, lo fa la giovane che viene ospitata nella dimora di Frau Holle, nella storia popolare che in Italia è conosciuta come Fata Piumetta. Il tema dell’offerta del pasto è presente anche in una delle narrazioni a noi più famigliari, quella di Cappuccetto Rosso, la cui versione più nota non rende merito alla ricchezza poliedrica delle varianti tramandate. Anche Cappuccetto Rosso si trova al bivio fra due sentieri ed è chiamata a compiere una scelta: lì, nel luogo più sacro a Ecate, compare il lupo. “Va’ a portare la focaccia alla nonna”, le aveva detto la mamma, e lei si era messa in cammino recando nel paniere l’offerta per la grand-mère, la nonna appunto, ma anche la Grande Madre. Ma non abbiamo forse a che fare con un lupo-nonna o, se preferiamo, con una nonna-lupo? E non sembra questa una delle tante apparizioni di Ecate teriomorfa? D’altronde, fra le seguaci di Ecate ve n’era una dal nome emblematico di Mormolyke, una donna lupo dai caratteri vampireschi, che i genitori nominavano ai bambini disubbidienti per incutere loro timore.
C’è la focaccia di Ecate nel cestino della bambina dalla mantellina rossa. Qualcuno dice che ci fosse anche un vasetto di burro, altri un fiasco vino. Pane e vino, le vivande che caratterizzano il pasto sacro.