Nello stesso modo in cui la freccia cerca il bersaglio
anche il bersaglio cerca la freccia.(Paulo Coelho, Il cammino dell’arco)
L'arco sembra voler tendere al cerchio, alla totalità all'identificazione tra centro e cerchio, limite e suo superamento, tensione e compimento, linea curva (l'arco) e linea retta (la freccia). Un gesto che riassume sei elementi: le mani, il corpo, lo sguardo, l'arco, la freccia, il bersaglio, fisso o mobile che sia. Un sistema dinamico in temporaneo movimento-bilanciamento. Il movimento cerca il suo riposo. Dalla potenza all'atto. Non appare similmente anche la vita? La freccia è nuda, il bersaglio solo. Tutto tende all'unità dell'amplesso, all'equilibrio dell'identificazione dell'estensione con l'intensione, dell'irradiamento con il suo centro, del Tutto con l'Uno. Dalla punta della freccia al punto del bersaglio. Il tiro è un ritorno? Il tiro quale simbolo in senso letterale, quale ricomposizione di una separazione, di un'incompletezza. L'incontro di due sguardi: quello del bersaglio e quello dell'arciere. Il tiro è un’eclisse? Nequamquam vacuum.
L'aspetto cosmico dell'arco e delle frecce quali strumenti ed oggetti appare evidente, anche senza bisogno di rinviare al celebre episodio dell'arco di Odisseo che trapassa, in una sacra prova di regalità, le dodici scuri bipenni. Ci sono altri oggetti appuntiti che manifestano sensi misterici ed iniziatici nell'antica Grecia? Li troviamo nei punteruoli che tre Sirene brandisco in un bellissimo affresco pompeiano oggi esposto al British Museum di Londra, colte mentre stanno accovacciate in agguato della nave di Odisseo. Similmente li troviamo nei grandi aghi che le cinquanta Danaidi utilizzano per quel massacro rituale e sirenico che dimostra ancora una volta l'origine egizia della Grecia arcaica.
Simile archetipo di unità bipolare e dinamica lo troviamo nel gesto di affidamento/omaggio del valvassore verso il vassallo: le mani giunte (punta della freccia) chiuse dalle mani del superiore che le accoglie (faretra), come la fodera per la spada. L'arco è poi in se stesso già uno e duplice, essendo composto di due parti simmetricamente uguali, una che punta verso l'alto e l'altra verso il basso. Il pilastro polare che regge la volta celeste in corrispondenza della fissa stella polare e il pilastro infero che regga il disco terrestre dal profondo. Questa equivalenza corrisponde nella cosmologia-gonìa antica alle acque superiori e alle acque inferiori, e, quindi, riassume l'idea di cosmo quale sfera con una parte superiore stellata e una inferiore, ctonia. Nel mezzo la terra ferma, il cuore, il centro. Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, insegna la Tabula Smaragdina. Non solo: anche l'immagine della freccia infissa in un bersaglio circolare rappresenta un chiaro emblema parlante sia della composizione del corpo che della struttura dei mondi sovraterreni.
Per il primo aspetto ascoltiamo il Corpus Hermeticum: “L'anima è nel corpo, l'intelletto nell'anima, il Logos nell'intelletto”. Così pure insegna San Paolo quando parla della natura ternaria dell'essere umano, composto come è di anima, corpo, spirito. Tale natura, se visualizzata dall'alto, corrisponde a tre cerchi concentrici: il bersaglio (il corpo), il suo centro (l'anima), e la freccia (il Logos). Anche Platone nel decimo libro della Repubblica nel raccontare gli otto fusi tenuti dalle otto Sirene celesti che ruotano attorno ad Ananke, rinvia ad una simile visione di sfere cosmiche concentriche, che poi saranno teorizzate scientificamente per ultimo da Eudosso di Cnido. Ascoltiamo ancora il Corpus Hermeticum: “Intorno al sole ruotano otto sfere che da lui dipendono, quella delle stelle fisse, le sei sfere dei pianeti, e la sfera unica (orbe terracqueo) che circonda la terra”.
Il cosmo, quindi, era compreso quale identità complessiva di Uno e di Tutto proprio all'interno di questa visione dove la luce dardeggiava tramite fessure vibranti nella tenda del cielo (le stelle) e uno stretto pertugio ignoto ai più comunicava inferi, terra, cielo e iperuranio, tutti inclusi in una massima sfera fissa circondata dal fuoco siderale, che può corrispondere all'attuale termosfera magnetica. La freccia infissa nel suo centro indica questa sfera, il suo asse di rotazione e la verticale tra stella polare e centro della terra fissa, che rappresenta il piano della sfera più centrale e interna rispetto all'interno cosmo celeste, fatto di altre sfere rotanti e vibranti. Simili sensi allude Elena di Sparta quando di fronte a Telemaco siede in trono brandendo un fuso d'oro con avvolta lana di colore ciano, del colore di Oceano. Solo per un attimo, nell'atto vittorioso, si può cogliere che “uno è tutto”?
Il movimento del tiro è un movimento circolare e lineare nel contempo. Lo stesso gesto dello scagliare non appare corrispondere al movimento del respiro? Non rappresenta una polarità dinamica dialettica tra l'accumulazione graduale di una forza e la sua liberazione istantanea? Il concetto di “risoluzione” può aiutare a restare dentro il mistero dello scagliare. La vita similmente è una tensione tra la sua irreparabilità dell'istante (kronos) e la qualità del momento (kairos), fra l'intensità dell'intenzione e la forma dell'esercizio (askesis). Tirare con l'arco significa “farsi uno”. Se nell'atto di un istante si è unità si coglie “l'attimo del centro”! L'unità maggiorata di dardo e bersaglio sorga da un’abitudine a muoversi in un’unione interno-esterno, corpo-anima già raggiunta. Nell'Arte Regia innumerevoli sono le raffigurazioni che mostrano una struttura ternaria e concentrica dell'essere in cui sono compendiati il cerchio (il mercurio), il quadrato (il sale) e il triangolo (lo zolfo): dall'Azoth di Basilio Valentino al Mutus Liber e all'Atalanta fugiens di Micahel Maier, da una miniatura del Roman de la Rose al Viridarium Chimicum e alla Sylva philosophorum di Cornelius Petraeus.
La dimensione cosmotetica del tiro con l'arco è chiaramente data dall'efficacia sinestetica dei suoi componenti: i bracci come colonne che reggono la volta celeste e le fondamenta della terra, la freccia la luce che passa attraverso le sfere celesti, la corda come le “redini del sole” di cui parla il Corpus Hermeticum: “Le redini sono la vita, l'anima, il soffio vitale, l'immortalità e la generazione”; cioè la rete di Ananke e delle Tiadi. Lo “stare nel mezzo” quale insegnamento che Helios-Apollo diede a Fetonte corrisponde alla sapienza dell'arco.
L'arco corrisponde alla terra, la corda all'acqua, la freccia al fuoco, lo sguardo all'etere, il bersaglio vero è l'aria, non la meta. Scopo il cavalcarla, il risolverla. La punta della freccia che si conficca nella meta, simbolicamente sempre circolare, corrisponde all'accensione dello Zolfo incombustibile, filosofico. La Pietra viene appunto criptata geosimbolicamente quale un cerchio con al centro un punto. È il cammino secco del cinabro. Il cerchio trapassato da una linea retta indica non a caso il salnitro, oltre che ricordare il celebre e non banale segno del cuore trafitto. Il tirare con l'arco è operazione di verità, azione intellettuale, contemplazione attiva, pura anagogìa ierurgica, mistagogica. Incontro di due orizzonti: quello dello sguardo e quello del proprio limite. L'occhio vede il curvo, ma il limite del paesaggio appare piano. Lo scagliare una freccia appare pure operazione solare, di ritorno della luce alla sua origine. Il movimento sembra simile a quello dell'obelisco circondato da un serpente ascendente che compare nella Patena d'argento di Parabiago, conservata al Museo Archeologico del Comune di Milano. Abbiamo un'ultima figura armata di arco: Eros. Nume che appare più di un'allegoria morale della passione amorosa, più di un'immagine filosofica come fu ridotto ad essere invece nell'Ellenismo alessandrino. La stessa scuola pitagorica-orfica recuperò Eros quale espressione di una reale forza cosmica primigenia. Non era già divinità con i Pelasgi, i Popoli del mare, in epoca pre-dorica? Eros esce per primo dall'Uovo primordiale, retaggio già egizio prima che minoico-laconico. Dalla spaccatura dell'Uovo dell'a-peiron (kaos) sorge il fanciullo arciere.
Nel mito abbiamo ancora poche ma preziose tracce simboliche dell'importanza di tale dimensione. Il fatto che fu coevo di Gea e del Tartaro lo colloca in una aura cosmogenetica, archetipale, strutturale. Indica l'Iperuranio? È un Apollo giovane? Il suo splendore è quello delle aurore boreali? Graves lo accosta a Ker, il “dispetto”, nome proprio quello delle Kere omeriche, immagini della sorte imprevedibile, della morte improvvisa. Il Caso, il capriccio, prima che divinizzazione tarda e intellettualistica indica un aspetto profondo del divino: la sua sovrana imprevedibilità, simile a quella del colpire con l'arco, che sempre lascia sorpresi nel suo esito, sia la vittima che l'arciere.
Che Eros sia impeto che di passione che di morte non lascia invece stupiti. “Forte come l'amore è la morte”, recita il Cantico dei cantici (8,8). L'importanza planetaria di Eros, non controllato da alcuna altra divinità, appare evidente in almeno due decisivi snodi del Mito: l'infatuazione di Medea per Giasone, essenziale per la conquista del Vello d'oro, una delle imprese eroiche e fatali più importanti, e l'infatuazione dell'iperborea Elena di Sparta, figlia del Cigno e dell'Uovo, per il nobile arciere Paride, signore dei cavalli, amato dalle ninfe, alter ego di Eros e di Hermes. La polena della nave troiana che portò Elena a Ilio mostrava Afrodite con in braccio Eros. Nel primo episodio invece Eros viene premiato per la sua trafittura passionale del cuore della potente Medea, sorella di Circe, con una palla aurea con cerchi d'azzurro, chiaro segno igneo del cosmo e delle sue acque celesti. Tale sfera se lanciata lasciava una scia luminosa, come una stella cometa. Eros in questo caso insegna anche un rito incantatore assai importante che consiste nel far roteare un legno con sopra una pietra focaia e inchiodato un uccello chiamato torcicollo (Inx) che il racconto dice essere stata la prima Ninfa amata da Zeus (Teocrito, Idilli; Senofonte, Memorabili), figlia di Pan e di Eco e a sua volta incantatrice di Io a favore di Zeus. Questo rito richiama la pietra incantatoria e sanguinante con cui Elena, sfregandola, teneva in suo dominio Paride. Il roteare, movimento oggi sopravvissuto presso gli aborigeni australiani, indica anch'esso un rito cosmogenetico e cosmomimetico, nonché il movimento solare a cui fu condannato Issione. Eros e Anteros solo nel segno del cuore trafitto trovano completezza e unità. Eros quale epifania dell'arco nei suoi sensi iniziatici si irradia gloriosamente nella grande arte rinascimentale. Nella Venere e Adone di Tiziano (specie in quella del Prado) l'amato, il cui nome richiama Ade, lascia Venere per la sua caccia appoggiandosi ad una gigantesca freccia (iperborea?). Nella medesima scena accadono altre due situazioni: una teofania luminosa dal cielo e il sonno di Eros fanciullo, ai piedi di un albero a cui sono appesi faretra e arco. Sembra Dioniso che lascia Arianna.
Similmente una faretra, a coda di rondine, pende con l'arco da un albero anche nella Ninfa dormiente al fonte di Cranach, dove il languore della Ninfa e lo specchio d'acqua a lei vicino sembrano alludere a sensi misterici. Eros compare in modo decisivo anche nel Parnaso di Mantegna, a custodire l'unione amorosa fra Marte e Venere, tenendo lontano l'infero Vulcano.
Nel medioevo si pensava che l'amore iniziasse dagli occhi, per questo l'innamoramento era allegorizzato con l'immagine del corvo, che si nutriva degli occhi dei cadaveri al seguito dei caduti delle battaglie. Il “colpo di fulmine” passa per lo sguardo, come pure lo sguardo del lupo (da lykos, splendore) si riteneva avesse il potere di paralizzare o togliere la parola. Da Aristotele a Leonardo si riteneva che il vedere fosse non una semplice percezione passiva di un qualcosa di già dato, ma la risultante dell'incrocio di due coni ottici, di due fasci di luce: quella proveniente dall'occhio umano e quello proveniente dall'oggetto stesso, guardato e guardante. Il disegno dell'incrocio di questi due coni ottici genera due triangoli che sintetizzano il passaggio dialettico dalla luce all'ombra e viceversa. Disegni assai simili si trovano in Niccolò Cusano, Leonardo e Athanasios Kircher. Questa dimensione sottile è uno dei livelli spirituali del tiro con l'arco quale attività dell'animo. La dialettica hilmaniana tra Animus e Anima non è lontana dall'arco quale rito, in quanto processualità unitaria, dialettica e organica tra un aspetto passivo-femminile e uno maschile-attivo. La freccia ovviamente indica “l'animo” e il bersaglio “l'anima”. Non a caso è il respiro (spiritus) che regge il gesto nel suo complesso. Gesto che appare anche “cruciale” nell'incrocio fra la verticalità del tendere e l'orizzontalità posturale del lancio. Mentre “l'anima” indica un qualcosa di umido, malleabile, docile, “l'animo” indica un qualcosa di audace, propulsivo, irradiante nella sua unitarietà.
Il rapporto spirituale fra sguardo e animo/anima appare trovare una chiara epifania narrativa nei Vangeli quando si accenna all'occhio (non a caso declinato al singolare) quale espressione del cuore. Questa asserzione viene associata ad un'altra: se l'occhio è nella luce anche il corpo è nella luce e viceversa. Un duplice rispecchiamento. Questi due passi evangelici mostrano come il senso dinamico della vita tende all'unità del cuore, cioè all’unità della volontà/intenzione con il suo atto/gesto. Detto altrimenti all'unità fra animo e anima, garanzia della saldezza del cuore.
Nel tiro dell'arco lo sguardo è tutto, come se l'intero essere si concentrasse nell'occhio, e in uno solo dei due occhi del volto. Il Vangelo di Luca e di Marco (Lc.11,33-36; Mc.6,22-23) associano l'unità dell'occhio all'unità del corpo e assumono tale organo quale culmine spirituale del corpo, soglia di entrata e uscita della luce, e di una luce che si predica e si ascrive al corpo e alla sua interezza, non all'anima, come fosse in essi implicita e racchiusa. I Vangeli ci parlano di un occhio e di un corpo fisico semplici, uniti e unitari, condizione affinché siano luminosi. Fisici e nel contempo spirituali. Al contrario un occhio debole, manchevole, malato si accompagna ad un corpo che si muove nell'oscurità. Tale circolo ermeneutico “sguardo, occhio, luce e unità” appare il medesimo implicito nel tiro dell'arco quale rito e spiritualità che si fondono sull'unità e sulla chiarezza della visione e dell'intenzione. L'occhio si mostra quindi centro del valore come il corpo sede destinata e terminale della luce. Una luce già esistente ed interna ma da difendere, attivare e perpetuare. All'unità corrisponde la sanità-luminosità e alla manchevolezza/perturbazione l'oscurità. Due cerchi concentrici: l'occhio al centro di un corpo che è al centro della luce. Se l'occhio è la “lampada del corpo” allora lo avvolge e lo riveste come un involucro, portandolo verso la luce o verso la tenebra. Il testo greco dei Vangeli aiuta a comprendere più in profondità.
L'aggettivo aploos ascritto “all'occhio”, cioè allo sguardo del cuore, luce del corpo, indica non solo la semplicità ma pure la schiettezza, il non essere mescolato, la purezza, come il vino non mescolato, e anche la facilità, la leggerezza, come se la via della luce fosse in realtà la scelta più agevole e diretta. Al contrario l'aggettivo poneròs (da ponèo) indica il bisogno, la mancanza, la fatica, il travaglio, la tristezza, la stanchezza, lo sforzo, come se la via della tenebra fosse più complicata e laboriosa. Alla qualità di aploos, carisma dell'arte dell'arco quale arte dello sguardo e del cuore, si associa l'aggettivo olos, che indica l'interezza, la completezza. Qui abbiamo tutto lo spirito greco: la perfezione è pienezza e semplicità mentre il bisogno indica mancanza, imperfezione. La metafora della lampada viene descritta con particolare forza immaginifica tramite il termine astrape (da: astrapto), il quale indica il lanciare fulmini, scintille, il balenare e lo sfolgorare, anche dello sguardo, linguaggio igneo, anch'esso da arcieri! Perchè la luce viene ascritta dai Vangeli al corpo e non all'anima? Perché il corpo indica un avvolgimento completo, quale lampada della luce dell'anima? Perché l'occhio senza perturbazioni né ombre è epifania di una simile anima? Il corpo faretra dell'animo quale freccia?
Questa sapienzialità chiama ad un'intenzionalità semplice, limpida, ferma, immediata, libera da passioni o desideri. La medesima dell'arciere vittorioso. Nell'Iliade similmente l'eroe vince se il suo animo è “indiviso”, cioè saldo nell'unità. La freccia centra il bersaglio se si possiede già questa unità non perturbata. Tirare con l'arco significa “farsi uno” con se stessi e con gli elementi della vita realizzando un equilibrio dinamico tra elasticità e fissazione, momento e preparazione, tensione interna e proiezione esterna. La sola stessa freccia riuniva insieme i tre regni della natura: il vegetale del proiettile, il minerale ferroso della punta e l'animale delle piume delle alette. L’immagine dell’arco e delle frecce non si dà solo quale possibile e arbitraria metafora-allegoria dell’arte alchemica in generale ma compare in modo formale e visivo propio nell’iconografia ermetica dei secoli passati. La terza tavola di Michelspacher (Cabala, speculum artis et naturae, 1654) mostra un giovane con arco e frecce tra la ruota zodiacale e in corrispondenza dell’elemento “Aria” ma non viene raffigurato come un normale Centauro-Sagittario ma singolarmente come un mezzo uomo e mezzo pesce, posto fra il Cancro e i Pesci. Nella variante di Barchusen dell’undicesima xilografia del Rosarium Philosophorum (1550) dalla figura n° 50 alla figura n° 51 compare un serpe con in bozza la punta della freccia. Ancora, nei dieci medaglioni della Philosophia Reformata di Milius (1622) in fondo a sinistra abbiamo Cupido armato che veglia sull’unione di Sole e di Luna, alla quarta figura un arciere che scaglia contro il fiammante drago all’ingresso di una grotta, e alla figura dodicesima Luna armata con arco e freccia mira ad un Sole alato posto in un pozzo! Johannes Fabricius declina tale iconografia quale indicazione di una fase di “fermentazione-illuminazione” che prelude alle Nozze ermetiche. La freccia come qualcosa che, penetrando, unisce gli opposti.
Tra i molti altri esempi non possiamo ricordare il Libro dei Segreti di Senior (1566) dove l’incisione mostra un vecchio incappucciato che, circondato da dieci aquile con la freccia pronta nell’arco, mostra due tavole sintetizzano i due lavori dell’Opera: in bianco e in rosso, il tutto probabile allusione alla fase della citrinitas; fino all’arciere che mira al Re posto sull’albero ad illustrazione “nell’Alchimia” attribuita a Tommaso d’Aquino (Codex Vossianus 29), probabile allegoria della proiezione della Pietra rossa filosofale. Per chi avesse ancora dei dubbi può consultare in aggiunta l’emblema XXV dell’Atalanta Fugens dove Sole e Luna (Apollo e Artemide) inseguono per trafiggerlo l’alchemico drago alato sulla riva del mare. Un dipinto barocco ci aiuterà a comprendere meglio.
Gli amorini che danzano in pericoresi nella Danza degli Amorini di Francesco Albani (1660), oggi alla Pinacoteca di Brera, archi e frecce giacciono a terra sotto un albero lussureggiante attorno al quale si intreccia la danza e sopra al quale tre di loro suonano cembalo, tamburo e flauto doppio. Qui l'arco a terra indica la risoluzione nuziale dell'Eros quale caccia, impeto, conflittualità. Compenetrato il Centro con le giuste frecce resta l'emblema del Centro nel suo tripudio: l'Albero cosmico, che separa e unisce il ratto di Kore da parte di Ade da una parte e la Venere celeste con fiaccola che bacia Eros dall'altra. Nel mezzo la Festa ai cui piedi giacciono piene o semivuote faretre di vario colore e archi piccoli ma potenti. L'Albero emblemizza l'Opera dell'Arco quale medium tra il circolare Tempio di Vesta (il Fuoco), la Ninfa Ciane che strepita per il ratto di Kore (l'Acqua), le nuvole ventose dove giace Afrodite (Aria) e i colori scuri ai piedi del tronco (Terra) dove ripongono caoticamente le pesanti e multicolori faretre. Dodici gli Amorini: otto che fanno cerchio al tronco centrale, tre tra le fronde, e uno in volo fra le braccia di un'Afrodite dadofora. La conclusione è, come l'inizio, circolare. L'arco mira a ricostituire tramite la trafittura vittoriosa l'unità originaria dell'Uovo spezzato. In principio fu l'Arciere.