Jakarta 5 agosto 1996: l’aeroporto di Jakarta è uno dei più belli che abbia mai visto, più che in un aeroporto sembra di trovarsi in un giardino tropicale dove, al posto delle orribili piante di plastica di molti scali europei, dominano trionfi di dendrobium incredibilmente vivi e vigorosi con cascate di fiori multicolori, le aiuole poi, curatissime, sembrano fazzoletti di giungla lussureggiante dove il tuo occhio non si stupirebbe di scorgere un’iguana che riposa su qualche ramo coperto di orchidee.
I volti che incontro mi paiono belli e rassicuranti, gli agenti di polizia aeroportuale gentili e di una cortesia quasi imbarazzante e tutto ciò non può essere percepito che come un ottimo auspicio, specie da un viaggiatore solitario quale io sono.
Efficienza, pulizia ed estrema gentilezza sono stati per me, il biglietto da visita dell’Indonesia. Il volo di collegamento atterra verso sera ad Ujung Pandang, l’antica Makassar, principale città della isola di Sulawesi, meta del mio viaggio.
Dopo una lunga corsa in taxi attraverso un dedalo di strade e stradine fangose che sfociano miracolosamente in superstrade ad otto corsie, il tutto in un traffico apparentemente insensato, giungo al Ramayana hotel, discreta pensioncina prenotatami dal mio contatto indonesiano, e stravolto da quasi otto ore di jet lag, sprofondo in un sonno agitato senza nemmeno disfare i bagagli.
La mattina seguente la spendo per contrattare il noleggio dell’agognato fuoristrada senza il quale non mi sarei azzardato ad avventurarmi nelle strade e nei sentieri di una regione come quella.
Ricordo ai lettori che avevo organizzato il viaggio grazie ad un mio contatto indonesiano, manager della filiale Toyota locale, presentatomi da un collega a Bologna, che mi aveva promesso un prezzo stracciato per l’affitto di una Land Cruiser a patto che io accettassi come compagno di avventura, autista ed interprete, suo figlio Robby, fresco di laurea e che, come ebbi occasione di scoprire in seguito, conosceva l’isola molto meno di me che almeno la avevo studiata nelle lunghe serate invernali sulle mappe e leggendo vari reportage naturalistici.
Quel viaggio sarebbe stato il regalo di laurea del padre a suo figlio Robby Tan, simpatico neolaureato in Scienza delle Comunicazioni, l’individuo più “urbano” che avessi mai conosciuto, per il quale il massimo dell’avventura era stato, fino a quel momento, un giretto col cagnolino di famiglia nel parco cittadino e che inorridiva per qualsiasi cosa volante più grande di una mosca.
Povero Robby, non sapeva che quel viaggio sarebbe stato per lui un’iniziazione se non proprio alla vita almeno alla conoscenza del suo meraviglioso Paese e avrebbe presto scoperto che lì, molte cose che volano e ronzano nell’aria sono assai più grandi non solo di un moscone, ma anche di quanto avrebbe potuto immaginare nel peggiore dei suoi incubi.
Il giorno seguente, di buon’ora, partiamo per la prima tappa del grande viaggio: il parco naturale di Bantimurung ad appena una cinquantina di km da Makassar, che dalle indicazioni della guida in mio possesso non avrebbe dovuto essere nulla di speciale mentre invece scopro trattarsi di un luogo bellissimo.
Cascate di acqua limpida e fresca scendono da alte scarpate di calcare coperte da una vegetazione straordinaria, raccogliendosi in un fresco delizioso torrente che scorre all’ombra di una foresta lussureggiante che avrebbe accompagnato di lì in avanti il resto della nostra avventura poiché ricopriva, almeno in quegli anni, gran parte di quell’isola favolosa.
Appena entrati nel parco, dopo aver pagato una cifra irrisoria ed essere transitati sotto un enorme scimmia in cemento armato che costituiva la porta d’entrata della riserva, decidiamo subito di rinfrescarci in una delle piscine naturali in cui si allarga il corso d’acqua e dove famiglie di turisti locali ci avevano preceduto. Mentre corriamo verso il fiume vedo Robby, che mi precede di una ventina di passi, bloccarsi e retrocedere come se fosse finito in una trappola e contemporaneamente lanciare un grido stridulo modulato, un buffo cachinno in cui confluiscono raccapriccio rabbia e frustrazione e che avrei sentito tante volte nei giorni a venire ogniqualvolta la mia “guida” avesse fatto conoscenza con i simpatici rappresentanti della variegata fauna locale.
Robby infatti era appena incappato nella poderosa ragnatela di una nephila, uno splendido ragno grande come una mano aperta ed assai comune in Indonesia la cui tela, tesa tra i rami, una delle più grandi ed elaborate tessute dai ragni di tutto il mondo, lo aveva fermato facendolo praticamente rimbalzare all’indietro con la sua resistenza elastica ed ora, con un balletto isterico, la mia “guida” cercava di liberarsi dai fili portanti tenaci come il kevlar, mentre la padrona di casa, perché sono le femmine di nephila ad essere così grandi essendo i maschi di dimensioni insignificanti, gli ballonzolava risentita pochi centimetri sopra la testa. Soffocando una risata e cercando di essere il più empatico possibile corro dal povero Robby, pallido come un cencio, rassicurandolo giacché il ragno era tanto grosso quanto innocuo e alla fine ci tuffiamo in acqua.
Enormi farfalle di indicibile grazia e bellezza volano nella penombra e si posano sulle rive del torrente per suggere i sali minerali di cui hanno bisogno e sono un incanto danzante nel sole e nella calura.
Dopo esserci ben rinfrescati iniziamo a risalire il corso d’acqua che si fa sempre più selvaggio, intersecandosi praticamente ad angolo retto con altri torrenti simili che scorrono in piccole valli ortogonali alla nostra, fino ad un vasto laghetto formato da una cascata oltre la quale era impossibile proseguire.
Veniamo raggiunti da alcuni bambini che catturano farfalle per venderle ai turisti e capisco, grazie al prezioso aiuto del mio autista ora nel ruolo di interprete, che di solito le acchiappano assieme a scarabei ed altri insetti per un tizio che ha una bottega subito fuori dal parco.
Non posso esimermi, vista la mia passione per gli insetti ed in particolare per i coleotteri, dal visitare la bottega di cui parlano i bambini che mi ci portano volentieri.
Ovviamente Robby si guarda bene dall’entrare in quello che per lui è sicuramente un antro infernale e che per me invece potrebbe essere un’incredibile wunderkammer entomologica, paradiso di ogni naturalista.
Vengo quindi introdotto con circospezione, come se fosse una deroga speciale ad un severo divieto, in quella che a prima vista sembra essere solo una baracca di servizio del parco.
La prima cosa che mi colpisce è l’odore pungente del paradiclorobenzolo e del cloroformio, materiali universalmente usati nei laboratori entomologici per la preparazione e la conservazione degli insetti.
Per me sono un tuffo nel passato e, come quando un odore o un profumo risvegliano dolci ricordi di un tempo lontano, sento riaffiorare vecchie e mai sopite passioni. Mi rivedo bambino a catturare scarabei col cloroformio e sorrido ai miei ricordi. Intanto gli occhi, più lenti dell’olfatto, abituati alla luce sfolgorante del sole tropicale, faticano a vedere qualcosa lì dentro, poi man mano si abituano alla relativa oscurità e cominciano ad intravedere qualche particolare della stanza. Comprendo così di trovarmi davvero nel paradiso degli entomologi: qua bacheche di gigantesche calchosoma atlas, un grande coleottero delle dimensioni di un pugno (corna escluse) e del colore del bronzo che stanno schierate come le truppe di Agamennone nei loro ranghi, e che mi dicono provenire da Giava, dietro, nelle retrovie, esemplari più modesti di provenienza locale. Laggiù cassette con nobili cerambicidi della specie batocera wallacei, così chiamata in onore dello scienziato, esploratore e avventuriero che per primo la descrisse: Alfred Russell Wallace che nel 1854, su richiesta di James Brooke, il rajah bianco di Sarawak che molti ricorderanno come nemico mortale di Sandokan e che, a differenza della Tigre della Malesia creata da Salgari, è realmente esistito, si recò dapprima a Singapore e di lì, a bordo di sampang, giunche, catimarron e piroghe di ogni genere salpò per esplorare le isole di Giava, Sumatra, Komodo, Lombok, le Molokai e Celebes, dove mi trovo ora.
Forse non tutti sanno che proprio in queste isole Wallace intuì il principio della selezione naturale quale causa delle mutazioni negli esseri viventi che danno origine all’immensa varietà delle specie e comunicò con un articolo la sua idea rivoluzionaria all’amico Charles Darwin, che aveva avuto nello stesso momento la medesima intuizione dall’altra parte del mondo, raccogliendo esemplari di fringuelli e osservando le testuggini giganti delle Galapagos. Bisogna riconoscere che Darwin, nonostante il comprensibile turbamento, da gentiluomo quale era, inviò il manoscritto a Charles Lyell affinché lo pubblicasse e fu proprio Lyell, amico di lunga data di Darwin, a convincerlo a pubblicare il lavoro di Wallace insieme ad alcuni estratti dei propri lavori. Fu così che la lettura pubblica dell'articolo congiunto di Darwin e Wallace, avvenuta il 1° luglio 1858 alla Linnean Society, rappresentò l’enunciazione ufficiale della teoria della selezione naturale al consesso scientifico internazionale e, forse, un piccolo contributo alle intuizioni di Wallace, lo ha dato anche questo magnifico mostriciattolo qua, il gran cerambice longicorne che porta ancora il suo nome. Ma dopo questa digressione torniamo nel “magico” bungalow degli insetti: ecco un raro cervo volante dai bellissimi riflessi smeraldini, con corna che lo fanno somigliare ad un fiero samurai nella sua armatura: mi dicono provenire dalle misteriose foreste, ancora in gran parte inesplorate, dell’Irian Jaya, che persino gli indonesiani nominano abbassando la voce con timore reverenziale, e così via per almeno due ore, dimenticandomi di tutto e di tutti e volando con la fantasia sotto la volta fumante di immense foreste sulle ali di immemori creature che paiono di un altro mondo. All’improvviso la voce stridula di Robby mi riporta su questo di mondi e mi rendo conto che dobbiamo andare.
Non posso comperare nulla poiché sono all’ inizio del viaggio ma mi riprometto di fermarmi al ritorno per prendere qualche esemplare per la mia collezione.
Intanto la giornata è al tramonto, un sole splendente dalla luce dorata inonda con riflessi abbaglianti le risaie sulle quali scorre la strada sopraelevata che da Bantimurung conduce a Makassar.
Contadini dai larghi copricapi lavorano affondati fino alle ginocchia nel fango e donne di tutte le età essiccano il riso lungo la strada stendendolo su teli dai colori sgargianti, circondate da bambini festanti e tutti mi sorridono, tutti sembrano felici, allora una gran gioia, un profondo senso di quiete cala nella mia anima e vivo un attimo di felicità completa e sognante.
Rivivo quella sensazione di pienezza, quell’appagamento estatico che tanto avevo bisogno di sentire ancora una volta e che, almeno per me, solo in un viaggio così è possibile provare.
Scrivo queste righe in una triste serata di pioggia, con migliaia di strani e rumorosissimi uccelli che, ahimè, hanno trovato rifugio per la notte proprio nell’albero del pane all’ interno del giardino dell’albergo. Non ho mai sentito uccelli con strida così assordanti e infatti non sono uccelli: con gran orrore di Robby scopriamo che si tratta di giganteschi pipistrelli chiamati volpi volanti perché il corpo è grande effettivamente come quello di una piccola volpe e anche il muso ricorda quello di un volpino, solo che sfoggiano due immense ali nere membranose armate di artigli.
A me piacciono ma sono veramente inquietanti. Dopo aver rassicurato la mia povera guida che durante la notte non avrebbe dovuto temere di venire dissanguato dai vampiri, poiché i pipistrelloni sono esclusivamente frugivori, ci rechiamo nelle nostre rispettive stanze, dove io, forse a causa del jet lag o più probabilmente a causa del rumore assordante che viene dall’albero dei pipistrelli, non riesco proprio a dormire.
Poco male, riordino i miei appunti e preparo l’attrezzatura fotografica perché finora abbiamo solo “scherzato” con Sulawesi, domani inizia il viaggio vero e proprio che dalle montagne delle genti Toraja mi porterà, attraverso i regni islamici del cuore dell’isola, alle barriere coralline di Bunaken, che sorgono alle pendici dei vulcani del mare di Celebes.