Eccomi qui. Nella libreria di casa. Si trova in sala addossata a un paio di pareti una dirimpetto all’altra. Una parte è costituita da una libreria a parete con nove scaffali e uno stipetto e l’altra è una libreria in legno massello (ottenuta segando il tronco di un ciliegio) dall’aspetto più maestoso, quindici spaziosi ripiani.
In mezzo, una scrivania sistemata in verticale e una seconda scrivania in orizzontale entrambe con un paio di sedie d’epoca davanti e dietro la seconda una poltrona girevole in pelle. Davanti alla portafinestra che dà sul terrazzo un divanetto monoposto.
Un leggero profumo di lavanda si spande dal vaso di rose e viole in corrispondenza dell’edizione integrale dei versi del Leopardi. La libreria è immersa in un bagno di luce. Faccio scorrere un dito sulla fila di libri dell’edizione “I Libri del Mese del Club Degli Editori” posti nella parte di libreria dedicata ai libri più commerciali. La copertina rigida è bordeaux con la scritta dorata sulla costa. Una ventina di libri. Luccicanti sotto i raggi del sole. Poi, alzo lo sguardo sulla fila di tascabili della Sperling&Kupfer di genere spy e poi porto lo sguardo più in là in un altro scaffale su un’altra fila di romanzi in edizione tascabile. Genere… horror. Le coste sono bianche, con scritte nere, dai caratteri fantasiosi.
Non sono in grado di descrivere cosa provi sostando davanti ai libri ordinatamente disposti nella libreria di casa mia. Il cuore non mi batte più forte. Non provo un romantico senso di vertigine o di meraviglia. La sudorazione alle mani è a zero. La lingua è sufficientemente idratata. Eppure, questa libreria esercita su di me la stessa attrazione che un magnete può esercitare su un oggetto di metallo. Mi fa stare qui, in questa stanza. Mi ci fa passare e ripassare nel corso della giornata. Se è una forza, è molto discreta, e silenziosa, è invisibile e di fatto non si può descrivere: ma in qualche modo c’è. Opera.
Cosa ci sia di così attraente in uno scaffale pieno di libri disposti ordinatamente in fila è misterioso anche per me che adoro i libri ormai da sempre: ne adoro il fruscio della carta, l’odore, le copertine (specie se pacchiane), persino la grandezza dei caratteri... del libro adoro ogni aspetto, anche il più minuto. Ho il vezzo, ad esempio, di accarezzare il plico di fogli racchiusi dalla copertina e dalla retro-copertina: percepire al tatto la lieve morbidezza dei fogli impilati e compressi dalla rilegatura oppure far scorrere le pagine di un libro il più velocemente possibile con il pollice producendo quel rumorino secco e frusciante…
Nondimeno, se mi fermo a rifletterci, neppure io sono in grado di dipanare il mistero circa che cosa ci sia di così attraente in uno scaffale pieno di libri. Certo, i libri rappresentano una via di fuga dal mondo ordinario: ma di norma non provo niente a chiudermi in una stanza e a restare lì isolato per ore così come non provo grande attrazione all’idea di scavare una buca in una spiaggia e infilarci la testa dentro – una volta da piccolo i compagni di giochi mi hanno seppellito fino al mento nella sabbia, ma più che altro mi è sembrata una cazzata. C’è qualcos’altro nei libri che va al di là di una fuga dalla realtà o di nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Forse perché dentro ogni libro c’è una voce e allineate sullo scaffale di una libreria possono perciò esserci venti voci o addirittura una cinquantina di voci. In più, ogni libro ha un autore. Nome e cognome. È un po’, in fondo, come averlo lì.
Forse i libri assomigliano a delle fotografie: e in più sono fotografie parlanti. L’autore parla, seppure attraverso vari filtri, da dentro i suoi libri. Non si tratta di uno svolazzo di fantasia. È praticamente un fatto. Basta posare lo sguardo su una pagina, leggere qualche riga e dentro la testa sentiamo subito una voce. I libri parlano. Parlano. Non si può dire lo stesso per le fotografie. Quando osservi una fotografia non avviene la sostituzione della tua voce del di dentro con la voce di un altro: sei sempre tu, che fai considerazioni, divaghi, provi emozioni... Quello che ti pare, ma sei tu. Con il libro, invece, avviene una sorta di sostituzione del pensiero. Non sei più tu a pensare, e a parlare, ma è un altro dentro di te: non è nemmeno un sussurro all’orecchio, come spesso si dice. La voce che senti, la senti tra le orecchie.
Il lato paradossale della faccenda è che leggere impedisce di pensare, come se in un certo senso ti versassero del liquido sigillante per motore nella testa. Essere circondati dai libri è come trovarsi in mezzo a esseri parlanti: e forse la parola, prima ancora del pollice opponibile, è ciò che contraddistingue un essere umano rispetto a qualsiasi altra creatura od oggetto. Leggere, insomma, udite udite, è una forma, per quanto unilaterale possa apparire, di socialità.
Anche i cellulari hanno un grande successo e non parliamo di quanto ci piaccia stare davanti al perepé qua qua qua qua prodotto dalla televisione: e il cinema ha sfondato quando da muto accompagnato da una gentile musichetta di pianoforte in sottofondo si è messo a fare un gran baccano. Cosa dire, poi, del tablet? Corredate dalle onnipotenti App. Pare esserci ormai una App per qualsiasi uso. Ho letto di un tizio che ha messo a punto una App in grado di trasformare un tablet in una sorta di fornellino elettrico: l’App surriscalda quanto basta il tablet e così puoi usare lo schermo per friggerci un uovo o far saltare una crêpe.
La parola è vita. La parola esercita una forte attrazione e cos’altro è la vita se non seduzione? La vita ci seduce continuamente, deve farlo se vuole tenerci con lei – cibo, sesso, qualche piccolo momento di soddisfazione... è qualcosa che gli uomini di potere non capiranno mai: “Come fanno ancora a tirare avanti se gli abbiamo tolto tutto?”. Ecco perché faccio capolino davanti alla mia libreria circa mille volte al giorno: c’è un brusio dentro ai libri, tra questi scaffali. Un brusio vitale. Ma contrariamente a quanto avviene con il suono del mare nelle conchiglie, per sentire il brusio devi avvicinare un libro agli occhi e non alle orecchie. E il brusio arriva. Arriva. Come in un mercato. Ecco Voltaire vendere un tanto al chilo di ottimismo e al bancone ecco fermarsi all’improvviso Leopardi e chiedere quattro etti di Sabato del villaggio e mezzo chilo di Passero solitario; così Voltaire alza le braccia sconsolato e scuote la testa facendo segno di non avere quella merce (che peraltro giudica ormai avariata), ma se vuole può provare più avanti, magari da Poe o perché non da… Friedrich Nietzsche. Sì, una piazza del mercato piena delle migliori teste, dei migliori scrittori e filosofi: e chissà cosa si genererebbe dal loro brusio! Di sicuro, se ne sentirebbero delle belle…
Ecco, questo, esattamente questo è una libreria in casa. Un mercato di anime belle. Un acquario di menti superbe. In una personale libreria non valgono confini di spazio e tempo, di storia e geografia, di chimica e bi… Non valgono le regole che vengono insegnate a scuola. T.S. Eliot fa scaletta a Samuel Johnson che scavalca il muro dell’orto dove trova Elémire Zolla che sta giocando a mosca cieca con Gerhard Hauptmann. Hannah Arendt gioca a badminton con Anna Frank (“Non ci pensare più, tesoro mio!”) mentre Virginia Woolf e Sylvia Plath si sono appartate all’ombra di un platano immensamente grande. Shakespeare e Virgilio chiacchierano in un cortiletto prendendosi amabilmente gioco uno dell’altro… “William, ma tu che ci avevi con l’Italia? Perché ci hai ambientato l’Otello e Romeo e Giulietta?” “Perché solo il temperamento degli italici, anche se Otello è un moro, poteva essere adatto a quelle storie.
Gli italiani sono così esagitati per quel che concerne i sentimenti. Gelosi, possessivi e dei gran bastian contrari. Accettano qualsiasi imposizione del Re, ma se li pizzichi nei sentimenti, sfiderebbero qualsiasi convenzione sociale… Togli una donna, a un italiano, anziché inasprire le tasse, e vedrai se quello non te lo ritroverai in piazza a far la rivolta.
-Ma parliamo di lei, piuttosto, Signor Virgilio.
-Moi, Messuer? Che cosa avete da obiettare a moi?
-Ah nulla, a parte il fatto che hai legato l’origine delle gens Iulia e della fondazione di Roma a un popolo uscito perdente nel grande conflitto di Troia.
-Ah, ma allora voi siete davvero quel genio che tutti dicono, mio caro William! Augusto non se n’è mai accorto, di questo mio secondo fine… altrimenti, probabilmente mi avrebbe fatto fare una fine ben peggiore di quel semplicione di Ovidio.
-Grazie per il genio, Mister. Ma smettila di darmi del “voi”, mi dà sui nervi…
Non esiste realmente un prima e un dopo, in una libreria di casa. Se si istituiscono relazioni del tipo post hoc, propter hoc, in effetti non si potrà mai parlare serenamente di alcunché in letteratura: perché ogni autore è intrecciato a un altro, e se dici un autore devi tirare fuori almeno altri sei autori ai quali quell’autore è debitore e senza i quali quell’autore nemmeno esisterebbe. Ma a ben vedere non è nemmeno così, dal momento che ogni autore vero è dotato di unicità e… ah! Che labirinto! Lasciamo perdere.
Tuttavia, è un fatto: più andiamo avanti nell’avventura umana e più perdiamo di autenticità. Più andiamo avanti nell’avventura umana e più ci sarà un numero sempre crescente (e incalcolabile) di avi e predecessori che le cose che facciamo oggi noi le avranno già fatte loro ieri, l’altro ieri, se non tremila anni fa. Ecco, queste gabbie mentali, nelle librerie in casa, non esistono. Infatti, è divertentissimo chiacchierare tra lettori accaniti: da Martin Mystère si passa a Callimaco per approdare a Dylan Dog che è solo la rampa di lancio verso Archiloco di Paro che ci rinvia a Paperino che la passa a Causio che dribbla Tardelli, Cabrini, Scirea, Altobelli. Cazza…niga! Regole e libertà.
Ecco che cosa rappresenta una libreria di casa. Quando guardo la fila di tascabili della Sperling&Kupfer (“I libri più letti, i libri più amati, i libri più venduti ora in edizione paperback”) e poi passo alla fila di romanzi nell’edizione cartonata del “Libro del Mese del Club Degli Editori” (quello che arrivava ogni mese per posta ammenoché non inviassi una lettera di disdetta; il che rendeva il libro del mese del Club Degli Editori una presenza alquanto ingombrante e vagamente minacciosa nella mia relativamente squattrinata adolescenza) della mia libreria, io vedo solo… trasgressioni. Un lungo elenco di trasgressioni perpetrate alle spalle di ciò che è giusto leggere, ciò cui è meglio affidarsi. Una libreria di casa è come una scatola di cioccolatini. E anzi, una libreria di casa deve, deve essere piena di libri assurdi. Non bisogna avere paura dei libri. Sono i libri che devono temere noi.
Così, stando in mezzo alla stanza foderata di libri della mia libreria, mentre i libri paiono all’improvviso vorticarmi attorno, e sento come delle vocine scappare fuori da quelle centinaia e centinaia di pagine, e il mosaico settecentesco del pavimento sotto i miei piedi cambia continuamente configurazione, mi chiedo: “Che cosa resta in me, di questi libri? Saprei raccontare “I binari della paura” di Dick Francis? Saprei dire che cosa succede nel “Drago del male” di Peter Straub? Ma almeno una scena, una, una soltanto, tratta da “L’ombra della luna” di M.M. Kaye saprei ridirla? Perché leggere se la gran massa delle parole che facciamo passare dagli occhi è destinata all’oblio?”.
Sicché, da qualche tempo, preso da sconforto, mi metto a rileggere. Rileggo rendendomi spesso conto che quel libro che comunque è stato nei miei pensieri per decine e decine d’anni, io è come se non lo avessi mai veramente letto prima. “Sì, ma qualcosa deve pur essermi rimasto da qualche parte, di queste letture! Cultura! Ecco cosa è rimasto. Cultura! La cultura è un’orma impressa nell’anima, è un solco tracciato nell’animo da chissà quale aratro, ma chi se ne importa di risalire all’aratro?! perché noi dobbiamo concimare il solco non l’aratro!”.
È così che cerco di consolarmi. Ma poi, il mio pensiero corre ad alcuni amici che hanno librerie ben più vaste delle mie, letteralmente straripanti di libri, e difatti parlano come libri stampati, e hanno per la testa idee molto interessanti; e ciononostante quando scrivono un saggio o un articolo non mettono nemmeno lo spazio dopo la virgola o non usano lo spazio all’inizio di ogni nuovo paragrafo. Avranno letto migliaia di libri, ma di certe cose, evidentissime, non si sono mai dati contezza. Quale grado di rapimento riesce dunque a ottenere su certe persone un testo, se queste persone non sono nemmeno capaci di accorgersi degli aspetti più evidenti e di superficie di ciò che hanno costantemente sotto agli occhi? L’uso della punteggiatura è solo un altro esempio. “Che cosa ci rimane, di ciò che leggiamo?” mi chiedo. “Che senso ha venire a conoscenza di una storia se poi dopo un po’ si dimentica e non si è più in grado di riferirla ad altri?”.
Le storie sono fatte per essere riraccontate ad altri se non addirittura tramandate: è parte del bello di venire a conoscenza di una storia l’idea di poterla riferire a qualcun altro. Ecco la ragione, tra l’altro, per cui si scrivono per lo più storie che contengano qualcosa di decente al loro interno: una storia dai contenuti irriferibili, per quanto ben scritta eccetera, si fermerebbe inevitabilmente lì perché a nessuno verrebbe voglia di farvi davvero riferimento. Una vera storia vive anche nel passaparola e dunque l’oblio per un lettore è una catastrofe naturale terribile equivalente a una perturbazione atmosferica che distrugga l’intero raccolto di un contadino.
Così rileggo. Thriller dove le comunicazioni avvengono tramite fax e c’è ancora il telefono con il filo. Romanzi d’avventura dove i personaggi fumano come turchi. Storie di motori dove i modelli delle automobili sono ormai fuori catalogo e oggigiorno si possono solo acquistare per mille euro su un sito Internet dell’usato. Rileggo forse alla ricerca di quel me stesso dal quale mi sono allontanato. Rileggo perché a questo punto deve per forza esserci qualcosa che mi è sfuggito. Rileggo perché in fondo penso che così come esiste un numero chiuso di storie che un autore può raccontare, esiste anche un numero chiuso di storie che un lettore può ascoltare. A me, ad esempio, capita di continuo di leggere libri i più distanti tra loro (appartengo alla razza del lettore onnivoro e selvaggio) ed eppure di sentire che la mia creatività viaggi sempre su un solo binario – magari uno di quelli di Dick Francis e del suo “I binari della paura”. Forse, l’immaginazione non è poi così elastica come crediamo che sia, ma è una membrana che tende a essiccarsi come la suola vecchia dentro una scarpa.
È un fatto che molte persone siano prive di fantasia. Fanno discorsi convenzionali, usando parole convenzionali e immagini convenzionali. Mettono totalmente da parte i castelli in aria oppure la loro capacità immaginativa è bruciata via alla velocità della luce molto presto. A loro va benissimo così. Non se ne fanno un cruccio, ma anzi un vanto. Si chiama “crescere”, “maturare”, “diventare adulti”.
Ma chi tiene aperto il cantiere dei castelli in aria, come chi legge molto o chi scrive storie d’invenzione, chi coltiva il fanciullino dentro sé, ha poi davvero, mi chiedo, un’immaginazione viva? O piuttosto la sua inventiva è sempre quella, non subisce variazioni e anche se si provano diversi tipi di scarpe, la suola ha sempre quella dimensione, quella forma e alla fin fine, se ti metti a farci caso, ti sembra sempre di camminare nella stessa scarpa? In base a queste considerazioni, oggi rileggo i libri che ho nella libreria di casa senza comprarne di nuovi (nemmeno ai mercatini dell’usato, dove una vecchia lenza come me trova le croste di formaggio adatte ai suoi denti) perché tanto so che quello che conta è ciò che abbiamo dentro la testa. La testa è il setaccio più importante. La testa.
Ragazzi, leggere è un’attività meravigliosa, ma…: leggere è vivere. Sbaglia chi crede di fuggire dalla realtà leggendo, e anche il più stupido dei libri insegna qualcosa (e “insegnare” vuol dire sbattere in faccia qualcosa con cui dover fare i conti; qui non c’è nulla di edulcorato nella parola “insegnare”), perciò è illusorio voler nascondere la testa sotto un mare di stupidi libri dato che in quegli stupidi libri si troveranno comunque insegnamenti, e per giunta buoni (e cioè la realtà ci verrà sbattuta in faccia nel modo più crudo: questo è quel che qui si intende per “buoni insegnamenti”), troveremo la vita, nei libri, la troveremo, sarà là, non ci sono santi, e dopo un po’ capiremo anche che “capire” significa innanzitutto rendersi conto di come siamo fatti noi, come funziona il nostro, di apparato di comprensione, e capiremo che per capire, per trovare quel qualcosa che andiamo cercando (fosse anche solo un po’ di sballo anfetaminico o divertimento adrenalinico) non è importante sfondare di libri il comodino accanto al letto o riempire armadi su armadi: capiremo che l’amore per la lettura ci porterà a smetterla di promuovere il puro commercio di libri, a comperare libri su libri che poi nemmeno leggiamo, e tuttavia, a leggere, santiddio, leggere!, anche uno e un solo libro, ma leggerlo, leggerlo davvero, apprezzarlo fino in fondo, capirlo.
Insomma, leggere e ancora leggere, trasgredire, ci riporterà alla vecchia, dannata scuola. Nella vecchia, dannata scuola ti concentri su uno e un solo libro per un anno intero, studi il contesto storico, l’impianto narrativo, e uno per uno i personaggi, lo studi così a fondo, quel malefico scartafaccio, che potresti scriverlo, tanto ti sei documentato. Ed eccoci al punto: perché mai un autore si documenta anni per scrivere un romanzetto e un lettore, invece, non è tenuto a documentarsi nemmeno tanto così se vuole leggerlo e seguirlo, quel cosiddetto romanzetto? La scuola insegna come si dovrebbero leggere tutti, tutti i libri e non solo la Divina Commedia, iPromessi Sposi, Pinocchio e Il libro Cuore. Già. La vecchia, dannata scuola.
Questi oggi sono i pensieri che mi corrono per la mente mentre sosto davanti alla libreria di casa e la osservo riempirsi di nuovi titoli e di nuovi autori. In passato altri pensieri e altre emozioni mi percorrevano davanti agli scaffali (uno sul termosifone nella mia stanza, un paio avvitati a un muro, una mini-libreria formata da quattro scaffali e comprata probabilmente in un discount) dove riponevo i miei libri: sogni di gloria, ambizioni, fantasticherie. Poi, in altri periodi, timori, in certi casi odio, o un tentativo d’indifferenza. Oggi, invece, i pensieri sono per lo più questi. Ma quando sono in casa, non riesco a starci lontano per troppo tempo: devo stare nelle vicinanze. Nelle vicinanze della libreria di casa.