Il rifugio nella semplificazione persiste come una tentazione ancora irrefrenabile e spesso risolutiva di stati d’angoscia. Speriamo di poter tutto semplificare, programmare, anticipare con calcoli. Tendiamo a prefissare scopi a breve termine, a circoscrivere il fattore onniesplicativo di ciò che ci accade intorno, a trovare sempre una “logica” (il vero cavallo di battaglia del semplicismo!), nella speranza di scartare o escludere ciò che è contraddittorio, imprevisto, irrilevante, ambiguo. Nella speranza di poter sempre distinguere con nettezza il vero dal falso, il bene dal male.
(Mauro Ceruti, Francesco Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, 2020)
Il semplicismo
Il semplicismo è una fuga dalla realtà. Una fuga determinata dalla paura e dall’angoscia che questa scatena quando non siamo più in grado di comprenderla, di dare una spiegazione di ciò che accade secondo criteri per noi oggettivi, semplici, logici.
La paura è un’emozione sana, aiuta a difenderci dai pericoli e a metterci in sicurezza. Diventa patologica quando si trasforma in paura della paura, determinando ansia ed angoscia. A differenza della paura che è un’emozione che ci protegge e che è rivolta verso oggetti determinati, l’ansia e l’angoscia che derivano dalla paura di aver paura non hanno più un oggetto specifico: chiunque o qualunque cosa può divenire il bersaglio su cui far convogliare le nostre paure, materializzandole in un capro espiatorio.
Cerchiamo vie facili che possano spiegare ciò che non siamo in grado di guardare né, tanto meno, di comprendere. Così si cerca la causa originaria a cui attribuire la colpa di tutto ciò che non capiamo e che ci spaventa: cerchiamo i colpevoli, i nemici, i complotti. Vie di fuga dalle sfumature della vita, per trasformare tutto e tutti in bianco o nero.
Per superare il rifugio nel semplicismo, occorre vivere l’esperienza della complessità con consapevolezza.
La radice interiore
In un precedente articolo, abbiamo parlato della necessità di un sentire complesso, oltre che di un pensare complesso. Del bisogno che abbiamo di vivere fisicamente e di provare emotivamente la complessità: solo così possiamo imparare a darle un nome che abbia un senso per noi.
Questo sentire complesso ci lascia trasformati per sempre, non si può più essere come prima. Diviene la radice della nostra stessa esistenza, ciò a cui torniamo con la mente quando qualcuno ci chiede “Ma cos’è la complessità?”. A quella radice interiore va il nostro sentire, a cui possiamo dare voce provando a spiegare cosa sia questa complessità che ha bussato così insistentemente alle nostre porte e che è già entrata, che lo si voglia o no, non solo nelle nostre case, ma nei nostri stessi corpi. Solo così il nostro pensare complesso diventa agire complesso: non possiamo più farne a meno.
L’ecologia dell’azione
Della complessità occorre fare esperienza, in modo che pensare il complesso e sentire il complesso divengano un’unica cosa attraverso il nostro agire nel mondo, imparando e sperimentando l’importanza dell’ecologia dell’azione a cui fa più volte riferimento Edgar Morin nei suoi studi1. Ogni atto individuale che compiamo entra infatti in un contesto denso di interazioni e di retroazioni, allontanandosi sempre più dalle intenzioni originarie del proprio autore. Facciamo così esperienza dell’incertezza insita nella relazione intenzione-azione così come degli effetti imprevedibili che ogni azione può avere, assumendoci tuttavia la responsabilità del nostro agire. E questa diviene consapevolezza della complessità.
Il sentire complesso non è solo un sentimento o un’emozione. È anche un sentire con il corpo e attraverso il corpo. I sensi danno ‘senso’ alla nostra esperienza della complessità, che diventa incarnata in noi – embodied. Carne della nostra carne, complessità della nostra complessità.
L’esperienza in prima persona della complessità diventa così l’elemento scatenante del comprendere che siamo tutti interconnessi, in cui la necessità di salvarci tutti, nessuno escluso, è l’unica salvezza possibile.
Senza questo sentimento profondo, senza questa percezione fisica della complessità che passa attraverso la consapevolezza dell’ecologia del nostro agire, il pensare complesso rischia di divenire presto sterile, un mero esercizio di stile. Un ‘chiamarsi fuori’ da ciò che si studia e che si definisce. Chi ci ha preceduto in questo percorso nella complessità ci ha insegnato che siamo sistemi che osservano sistemi2, che siamo dentro a ciò che osserviamo, e che la nostra osservazione modifica non solo noi stessi, ma anche ciò che osserviamo.
Da questo punto di partenza, che è anche un punto di arrivo, comprendere l’interdipendenza, le interconnessioni, l’imprevedibilità, l’incertezza, l’emergenza, le dinamiche collettive, le gerarchie dei sistemi, gli anelli di retroazione, non è più uno sforzo cognitivo ma una forma di rammemorazione di un’esperienza profonda, che ci costituisce e al tempo stesso ci relativizza nel mutamento che ci coinvolge con tutto il nostro essere: corpo, mente, pensiero, parola, azione.
Pensare il complesso e sentire il complesso aiuta a decentrarci dal sé e dalle forme maggiorate di identificazione – con il popolo, con la razza, con la religione, con la nazione – per avvicinarci alla comprensione che siamo solo se siamo in relazione, e che solo attraverso la relazione diveniamo ciò che siamo.
La relianza etica
Occorre cercare un senso all’esistenza umana che superi l’istanza individualista per aprirsi a ciò che Edgar Morin chiama “relianza etica”3: il legame con l’altro, con una comunità, con una società e, infine, con la specie umana. Senza mai dimenticare i limiti della nostra conoscenza, della nostra vulnerabilità, ma aprendoci al livello più alto di relianza etica, l’amore e il rispetto per tutti gli altri esseri, umani e non umani.
Sentire la complessità è sentire la paura che questa produce in noi quando ci rende incerti, insicuri, timorosi di ciò che potrebbe accadere e che non possiamo controllare. Ma sentire la complessità è anche sentire la forza straordinaria che l’amore degli altri e per gli altri produce in noi, e che non possiamo controllare. Sentire che siamo interconnessi con tutti e tutto e che condividiamo un destino comune, da cui nessuno può essere escluso, è la nostra forza e la nostra debolezza. A noi scegliere se lasciarci spaventare o se esserne parte attiva e cogeneratrice.
Note
1 Edgar Morin, Il Metodo 6. Etica, Raffaello Cortina Editore, 2005.
2Heinz von Foerster, Sistemi che osservano, Casa Editrice Astrolabio, 1987.
3Edgar Morin, Il Metodo 6. Etica, Raffaello Cortina Editore, 2005.